Mario seguì il capitano come un’ombra, attraverso le vie della cittadella. In mezzo al normale traffico di passanti e di mercanti del mercato annonario che affollava le vie del borgo, si notava un operoso andirivieni di soldati che accompagnavano di qua e di là le reclute arruolate a a forza, come lui. La maggior parte di costoro, soprattutto quelli con qualche anno in più, erano scuri in volto ma rassegnati. Altri, spesso fra i più giovani, sorridevano e scherzavano fra loro. In loro il senso dell’avventura prevaleva sulla minaccia di morte che l’inquadramento in un’armata in guerra comportava. Mario si stupì e scoprirsi diverso sia dagli uni che dagli altri. Lui aveva scelto una vita da avventuriero, aveva aspirato a far parte di quella guerra come soldato di ventura, quindi non gli dispiaceva farne parte, fosse pure in una milizia feudale e non in una compagnia mercenaria. Allo stesso tempo le avventure e disavventure che aveva vissuto negli ultimi tempi lo avevano reso meno entusiasta e più consapevole di quanto la sua scelta comportava. Seguendo i passi del capitano notò che il castello del Duca si faceva sempre più vicino.
“Andiamo a castello, se posso chiedere?”
Il capitano si girò verso di lui, sorridendo. La domanda non lo aveva infastidito, al contrario.
“Proprio così, soldato. Però non credere che ti vada a presentare al Duca in persona, eh! Ripetimi il tuo nome.”
“Mario, Mario Boschi, vengo da Selenia.
“Bene, Mario Boschi da Selenia. Ti porto al campo di tiro. Vediamo se sei davvero in grado di far parte degli arcieri di Arnolfo da Asproburrone.”
“Che immagino siate voi…”
“Esattamente, immagini bene.”
Un Barone. Ottimo. Sempre meglio far parte di un contingente guidato da un Barone che da un semplice cavaliere, o peggio ancora da un popolano. Di solito il cibo e il trattamento erano migliori. Anche il nemico usava un occhio di riguardo per i comandanti nobili, per lo meno in termini di condizioni di resa, il che a volte si rifletteva in qualche vantaggio “di sponda” anche per i semplici soldati. Insomma era più facile evitare di lasciarci la buccia. Il Barone Arnolfo sembrava anche una brava persona, a prima vista. Era sulla trentina, i capelli castani tagliati corti e un viso regolare mal sbarbato: tipico aspetto da militare se non fosse stato per la barba non rasata. Eh, i nobili potevano permettersi di non far caso alle ordinanze che regolavano le truppe.
“Non chiedo che di essere messo alla prova, messere.”
“Sarai presto accontentato.”
Avanzando verso la rocca Ducale all’interno del borgo gli edifici si facevano più alti e lussuosi, con decorazioni in pietra sulla facciata. Perfino marmo. Mario riconobbe colonne e capitelli antichi, di epoca Mitoien, inseriti in costruzioni di secoli successivi. La pietra angolare di un palazzo, in travertino, recava incisa la scritta “DOMINAE DIANAE VENATRICI”. Di certo quel masso squadrato era appartenuto a un tempio, distrutto durante le invasioni barbariche.
“Alla Signora Diana Cacciatrice.” si trovò a mormorare, le parole che appena appena gli si affacciavano esili sulle labbra. Eppure non sfuggirono alle attente orecchie del Barone Arnolfo.
“Cosa dici?”
“Niente, mio Signore. Leggevo quella scritta. E’ una dedica: Alla Signora Diana Cacciatrice.”
L’uomo in armatura scoppiò a ridere:
“Lo so bene: quello è il palazzo della mia famiglia! E’ stato costruito alcuni secoli fa, dove un tempo sorgeva un tempio. Durante lo scavo delle fondamenta emerse questa pietra intatta e il mio avo di allora volle che fosse conservata e usata come testata d’angolo. Conosci anche l’antica lingua, mi compiaccio.”
Mario alzò le spalle:
“Per studiare le leggi è indispensabile.”
“Già. Avanti, manca poco.”
Dopo forse mezzo miglio, non di più, si trovarono ai cancelli del castello. In mezzo a una piazza cittadina c’era un fossato – cosa che Mario trovò bizzarra – e al di là di quello si ergeva il castello Ducale, tutto in pietra bianca: quattro alte e snelle torri dal tetto a punta unite da mura quasi abbaglianti. Si mescolarono a tutti i cavalieri e soldati che vi si affollavano intorno come api che ronzino intorno all’alveare. Attraverso il ponte levatoio abbassato giunsero alla piazza d’armi, al centro della quale si innalzava un mastio possente, sempre di quella roccia bianchissima. Mario indugiò ad ammirare il pesante portone in bronzo ornato di statue. Al primo piano non vi erano finestre ma solo strette feritoie, al secondo c’erano ma strette, a volta. Al secondo piano bifore, al terzo trifore e via così fino al quinto e ultimo pianto. Quella disposizione donava leggerezza crescente alla costruzione man mano che lo sguardo saliva, senza diminuire di un’oncia la sua severità guerresca. E infatti in cima al mastio la merlatura non nascondeva la presenza di due baliste pesanti e due grosse catapulte. La famiglia Ducale, evidentemente, non aveva nessuna intenzione di arrendersi perfino se il nemico fosse giunto fin lì. Questo era il messaggio, per chi aveva occhi e senno per coglierlo.