I RACCONTI DI MALIA

Orlando aprì gli occhi emergendo da un universo di oscurità e dolore. Era sudato, e puzzava come un cadavere. Ma era ancora vivo. A meno che non si trovasse nell’aldilà… ma in quel caso doveva essere molto simile al mondo dei vivi, perché quella pareva proprio la sua tenda. Lasciò vagare lo sguardo sui tappeti, sulla sua armatura appesa alla croce, con l’elmo piumato di giallo poggiato sul braccio rivolto in alto, e poi sulla cassapanca coi vestiti di ricambio e la tavola imbandita. Sospirò, scostò le coperte e provò ad alzarsi. Era da una settimana che non lo faceva. Infatti. Subito un capogiro lo rimise seduto sulla branda. Si passò una mano sulla fronte e sentì sotto le dita una dura crosta sanguinolenta, ciò che rimaneva della grande pustola violacea che aveva occupato quello spazio. Provò di nuovo ad alzarsi, più lentamente. Questa volta funzionò. Faceva caldo, fuori doveva esserci il sole. Infatti una luce dorata piena di pulviscolo luminescente filtrava dalla soglia del padiglione. Orlando si tolse la camicia. Fu doloroso, perché alcune croste si erano attaccate al tessuto, sia sul petto che sulla schiena. Si avvicinò al tavolo e prese in mano lo specchio. Aveva profonde occhiaie, il viso e il corpo erano smagriti e tirati. Ma non c’erano più pustole, solo croste, che gli costellavano tutta la pelle. Alcune stavano già cadendo. Anche la febbre, quella febbre alta che lo aveva sprofondato nel delirio per giorni, era andata. Respirò a fondo. Poi gettò la camicia in un angolo. Avrebbe dovuto bruciare tutto adesso, per non contagiare altre persone.

Si chiese in che condizioni fosse l’accampamento. Che ne era stato dell’armata, dei suoi amici e alleati? La guerra era stata persa a causa del contagio? O forse al contrario i suoi commilitoni avevano già vinto, mentre lui annaspava in quel letto fra la vita e la morte? Magari erano morti tutti, dall’una e dall’altra parte. Non era peregrino supporlo, per come il contagio si stava propagando quando anche lui era caduto ammalato. Ma no, si udivano ancora delle voci, là fuori.

Prese una camicia pulita dalla cassapanca e la indossò. Nel metterla, il tessuto profumato di sapone urtò una crosta e quella si staccò, strappandogli un’imprecazione e qualche goccia di sangue. Gualtiero si affacciò subito:

“Mio signore! Siete in piedi, dunque. Bentornato nel mondo dei vivi! Lo sapevo che ce l’avreste fatta: nell’ultimo paio di giorni siete andato migliorando quasi di ora in ora.”

Orlando annuì.

“Sono vivo, Gualtiero. Pare che nemmeno la peste sia riuscita ad ammazzarmi. Ma mi sento come se mi fosse passato addosso un branco di bovini.”

Lo scudiero sorrise.

“Oh, che bello, signore! Sono proprio contento.”

Orlando fece un passo indietro.

“Non ti avvicinare. Potrei essere ancora contagioso.”

“No, no macché, non entrerò. Ma non per voi, per tutta questa roba che ancora può trasmettere la malattia. Quanto a voi, invece, potete anche andarvene in giro adesso. Oramai l’abbiamo capito bene come funziona, mentre voi combattevate la vostra battaglia su questo letto. Quando si formano le croste se si è ancora vivi è andata: non si attacca più la peste agli altri e – se si ha ancora la forza di alzarsi in piedi – si guarisce. Ora tutto quel che dovete fare è bere, mangiare e recuperare le forze. Gettate qui la camicia vecchia.”

Gualtiero prese un paio di lunghe pinze, raccolse con quelle la camicia che Orlando aveva buttato e uscì.

Tornò quasi immediatamente.

“L’ho buttata nel fuoco, mio signore. Ho dovuto farlo, mi dispiace.”

“Capisco.”

“Non posso entrare, vi parlerò da qui: voi adesso siete immune ma molti altri no, compreso il vostro umile servo qui presente.”

“Certo, fai bene a stare lì.”

“Dovrò bruciare anche la vostra tenda. Potete prendere la mia, e io andrò a stare con i paggi nella loro. Anzi dovremo bruciare tutto ciò che vi appartiene, tranne quel che può essere passato sulla fiamma senza subire danni, come le armi e l’armatura e le stoviglie. Fareste bene a togliervi subito anche tutti i vestiti: non vanno bene quelli lì. Anche se sono puliti hanno respirato la peste. Ora vi porterò la tinozza, qui sulla soglia. Lavatevi bene col sapone e poi uscite, ignudo come mamma vi ha fatto. Vi lascerò io qui fuori dei vestiti non contaminati. Saranno più umili dei vostri ma serviranno allo scopo.”

Orlando annuì.

“D’accordo. E la guerra? Cosa diamine è successo mentre non ero cosciente?”

Lo scudiero alzò le spalle.

“La guerra continua. Solo che la stiamo perdendo, signor mio, per lo meno qui da noi. Per colpa della peste. Siamo stati decimati senza combattere. E non è ancora finita.”

“Almeno siamo ancora in gioco.”

“Per così dire, signore, per così dire.”

Guerra, carestia e pestilenza. Tre demoni, tre nemici mortali dell’umanità che di solito si presentavano insieme. Fin dai tempi degli antichi, dell’Impero del tempo che fu, gli uomini si erano ingegnati a combatterli: contro la carestia si erano inventati metodi di coltivazione, di allevamento, i mulini ad acqua e a vento, modi per preservare i cibi. E poi i bagni, le terme, i farmaci e la ginnastica per vegliare sulla salute dei popoli e tenere lontano i malanni. Ancora erano stati fondati grandi Regni, Federazioni e Imperi per tenere a freno con il timore gli uni le brame degli altri, reciprocamente, e tutti pronti a stroncare gli assalti dei popoli barbari inclini al saccheggio e alla rapina.

Ma quei tre nemici, periodicamente, tornavano a presentarsi, tenendosi per mano come fanno i bambini piccoli quando vanno a giocare insieme.

Di solito era la guerra a chiamare gli altri macabri compagni sul campo di gioco. La guerra distrugge i raccolti, brucia le città coi loro depositi colmi di provviste, impedisce l’attività dei contadini e ne falcia le vite. Allora il cibo inizia a scarseggiare, tutti cercano di farne provvista o di predarlo e questo peggiora le cose: litigandoselo i contendenti ne distruggono di più di quello che riescono ad accaparrarsi. Arriva dunque la fame, coi suoi occhi strabuzzati e i denti scoperti, gli arti ossuti e il ventre rigonfio per il digiuno. La gente, già terrorizzata, diventa debole e macilenta e fioriscono le malattie. La poca igiene degli eserciti in marcia, l’accumularsi del popolo nello spazio ristretto di castelli e città fanno il resto. E così anche la pestilenza si unisce alla partita.

Orlando rifletteva su ciò mentre camminava a passi lenti verso il suo Duca. Aveva indossato a fatica l’armatura, dopo che era stata purificata passandola sul fuoco. Meglio stringere i denti e mettersi addosso dell’acciaio che farsi portar via la vita da una freccia vagante. Specialmente dopo essere tornato alla luce dall’incubo della pestilenza.

L’accampamento dell’esercito regio faceva pietà: più di una tenda su dieci era ridotta a un mucchio fumante di cenere. I sopravvissuti alla malattia vagavano come spettri stupefatti e ossuti dagli occhi di barbagianni, carri carichi di cadaveri arrancavano verso un punto a meridione del campo da cui si levava una nube di fumo acre.

Il Duca Ercole di Vastopasso insieme ai suoi consiglieri ancora rimasti in vita si trovava in una trincea avanzata, uno dei pochi presidi allungati verso la città assediata che non fosse stato ancora abbandonato. Orlando strinse di più il sottogola dell’elmo per tenerlo saldo sulla testa, si curvò quanto poteva e accelerò il passo. Un paio di dardi di balestra gli fischiarono sopra e andarono a impattare sulla terra battuta. Non si fermò ma procedette a balzi, rallentando per poi scattare oltre, fino a che non giunse alla postazione.

Il Duca era rivolto verso le mura di Selenia e si mordeva le labbra.

Quando sentì Orlando arrivare il condottiero si girò, e i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa.

“Orlando, siete in piedi! Che piacere vedervi guarito, ero in pena per voi.” poi abbassò lo sguardo “Come sono in pena per tutti. La sfortuna ci perseguita, amico mio.”

“La sfortuna non esiste, signore. E’ la guerra che ci perseguita, con tutte le sue nefaste conseguenze.”

Il Duca, un uomo bruno dalla chioma e la barba leonina, si guardò bene dal porgere la mano all’amico e scosse la testa.

“Tutta colpa dei maledetti Alesiadi e delle loro ambizioni. Hanno contestato la linea di successione e hanno tirato fuori quella corona che dicono di aver forgiato dalla spada degli antichi Imperatori… e con ciò? Come se il possesso di poche libbre d’acciaio potesse rendere quei figli di barattieri simili agli Imperatori Mitoien. Ma non fatemi ridere! Il paese non aveva alcun bisogno di questa guerra civile. Ora non abbiamo alternative: bisogna combattere e vincere il più velocemente possibile. Non permetteremo che il trono venga usurpato da questi mercanti del Nord.”

“Se ci sarà ancora un paese su cui regnare… e se ci sarà ancora una dinastia Altarocca per farlo.” pensò Orlando. Ma si guardò bene dal dirlo a voce alta.

In effetti l’armata regia rischiava di trovarsi a combattere per una stirpe reale estinta. l’Erede era caduto combattendo fuori da Porto Posidonio, alla testa dell’esercito che risaliva la penisola lungo la costa orientale. Il Re, che comandava l’altra armata, quella occidentale, era stato ucciso dalle parti di Campofiorito. Il comando delle forze occidentali era stato preso dal Duca Ercole mentre il nuovo Re, il secondogenito, aveva preso il posto del fratello… solo per essere assassinato a tradimento dal nemico durante l’assedio di Torrecorvara.

Lo stesso assedio che aveva dato origine alla pestilenza.

La città costiera, affacciata sul Mare dell’Alba, era stata circondata per mare e per terra dalle truppe reali. Un attacco di sorpresa della flotta degli Alesiadi, però, aveva aperto la via per portare rifornimenti a Torrecorvara via nave… compreso un carico di grano dal remoto Impero Sarras. Si diceva che da quelle feluche fossero sbarcati più ratti che grano. E ben presto la gente aveva cominciato a morire per la piaga. Quando la città si era arresa, subito il morbo si era propagato all’esercito regio, appena entrato in città. In seguito i nemici avevano sbaragliato in campo aperto quel che restava delle forze lealiste. Una parte dei sopravvissuti si era ritirata verso Sud, spargendo ancora di più la pestilenza su tutta la costa orientale. Altri fuggiaschi invece si erano uniti all’armata occidentale, quella comandata dal Duca Ercole in cui anche Orlando militava. Nel frattempo questa aveva sfondato le difese degli Alesiadi e aveva cinto d’assedio Selenia, la seconda città del Regno.

Orlando e suoi compari avevano sì sperato di unirsi all’altro esercito, ma non in quel modo: avevano immaginato un giorno glorioso, in cui il sole avrebbe dovuto splendere sulle armi e sulle armature e si sarebbero stretti le destre da vincitori per poi marciare su Alesia stessa a vessilli spiegati. Invece erano stati raggiunti solo da pochi superstiti dispersi, che li avevano contagiati con la stessa purulenta maledizione che gravava su di loro.

Tutto era andato storto, e ora si doveva temere una sortita dei difensori di Selenia, che con tutta probabilità li avrebbe spazzati via tutti. Selenia era una città enorme. Se gli abitanti fossero usciti dai cancelli in armi, all’esercito del Duca – messo com’era messo – non sarebbe rimasto che tagliare la corda il più velocemente possibile e sperare che quelli si prendessero anche loro la peste razziando l’accampamento.

“Allora, come vi sentite, Barone Orlando?” gli chiese con fare sollecito Viligelmo di Borgoverzoso, un altro dei vassalli del Duca. Viligelmo era un vecchio soldato. Un tempo era stato un burbero ma l’età lo aveva addolcito.

“Come al risveglio dopo la sbornia della vita, mio caro Viligelmo. Ma lieto di essere ancora fra voi, nonostante tutto.”

“Eh, siete più fortunato voi, in realtà. Ora siete al sicuro, mentre noi dobbiamo ancora temere il morbo.”

“Al sicuro… se non fosse per le spade del nemico, i dardi vaganti, i massi lanciati dai trabucchi e tutte le altre belle cose che ci circondano.”

“Come sempre, soldato.” ribatté il vecchio con un’ombra di rimprovero nella voce.

“Come sempre, certo.” assentì Orlando.

In quel momento dal torrione di Selenia più vicino sbucò un grosso contingente di armati. Dovevano aver notato l’assembramento nella trincea avanzata e avevano deciso di tentare un’incursione, uscendo da una pustierla nascosta.

“Duca, arrivano!” gridò Orlando, che era girato da quella parte e li aveva visti per primo.

Viligelmo si girò ed estrasse la spada: “Portate via il Duca!”

Il Duca Ercole imprecò fra i denti e si lasciò circondare e trascinare via dalle sue guardie.

“Venite con me!” ordinò, ma né Viligelmo né Orlando obbedirono. Anzi, Orlando imitò il vecchio Barone ed estrasse anche lui la spada. Dannazione, non ricordava che fosse così pesante. Al contrario, l’aveva sempre trovata molto maneggevole, come un’arma dev’essere. Ora invece gli pareva simile a una barra grezza di ferro. Un drappello di fanteria provò a lanciarsi fuori per correre incontro ai nemici e intercettarli prima che arrivassero alla trincea, ma dardi di balestra da mura ne falciarono tre o quattro. Uno fu preso in pieno petto da una grossa falarica da balista, infilato come uno spiedino e lanciato in aria, fino a… lo sguardo di Orlando non giungeva così lontano. Meglio così, meglio non vederlo, così non avrebbe dovuto rivederlo poi negli incubi che ti appaiono prima dell’alba. E poi c’erano cose più urgenti a cui pensare. I fanti lealisti superstiti si gettarono a capofitto nella trincea, ruzzolando.

“Ma siete impazziti? Si può sapere cosa pensavate di fare?” li sgridò Viligelmo.

Il sergente, che aveva poco più di vent’anni, riuscì a farfugliare: “Una controcarica… volevo fermarli prima…”

Orlando lo squadrò con sufficienza mista a compassione: “Bella idea, ragazzo.”

Poi, più accomodante: “State pronti per quando arrivano, invece: riceviamoli sulle punte delle nostre armi.”

I fanti si alzarono, scossi e infangati, si chiusero dietro gli scudi affacciandosi al bordo dello scavo e puntarono le partigiane verso l’alto. Orlando e Viligelmo gli si affiancarono, uno a ogni lato, brandendo le spade.

Un masso enorme lanciato da un trabucco atterrò molto vicino, sommergendo di spruzzi di terra sia i difensori che gli attaccanti.

Orlando che occupava l’ala destra del piccolo schieramento, quella più vicina all’impatto, si ritrovò la terra perfino in bocca. La sputò di lato. Se la peste lo avesse colpito in modo solo un po’ più pesante di come aveva fatto, ne avrebbe avuto addosso e in bocca ben di più, di terra, e piena di vermi.

Alcuni degli assalitori erano caduti per terra per la ventata di aria e terriccio, e ancora di più per la paura, e gli altri li stavano tirando su. Il che lasciava ai difensori il tempo di respirare a fondo per tre volte prima di affrontare la morte nella mischia. Un lusso. In certi momenti apprezzi qualunque cosa, per piccola che sia.

Quelli ripresero a correre.

I fanti lealisti che disponevano di due partigiane scagliarono la prima e impugnarono la seconda per usarla manescamente. I lanci fecero pochi danni: uno dei nemici la prese in faccia e crollò esanime all’indietro, un altro ebbe una coscia infilzata e si fermò, sanguinando come un maiale a novembre. Le altre rimbalzarono sugli scudi senza rallentare i soldati di Selenia, che urlarono per farsi coraggio: “Elelai! Elelai! Alesia Vince!”

Orlando non si sentì di rispondere: aveva il cuore in gola e il fiato ancora spezzato dalla peste; già solo arrivare fin lì camminando gli aveva dato il fiatone.

Viligelmo e i fanti invece lo fecero anche per lui: “Altarocca per il Re! Per Malia!!”

Subito prima dell’impatto dalla schiera nemica partì una scarica di giavellotti. Orlando sapeva che non servivano tanto per uccidere quanto per far abbassare i difensori e avvantaggiarsi per sfondare con la carica. Ugualmente si abbassò e incassò il capo fra le spalle chiudendo gola e volto fra l’elmo e gli anelli di ferro dell’usbergo.

Eccoli!

Gli uomini di Selenia saltarono nel fossato come demoni ululanti. Alcuni finirono impalati sulle partigiane mentre altri travolsero i fanti e rotolarono lottando con loro fino in fondo allo scavo. La seconda fila, più prudente, si lasciò scivolare giù con le armi protese. Orlando si trovò davanti il volto di uno che poteva essere suo figlio, per l’età che aveva. Ignorò gli occhi azzurri spaventati del ragazzo, si protesse contro la sua lancia con lo scudo e gli cacciò la spada nel ventre attraverso la giubba imbottita. Dovette solo spingere per tenere il braccio saldo, fu l’impeto del soldato a far superare alla lama la protezione di tessuto pressato della giubba. Quello cadde, gridando in preda al panico. Orlando gli mise un piede sul petto e tirò per liberare la lama. Fu allora che un corpo massiccio e pesante gli rovinò sopra, gettandolo al suolo. Lui e un grosso soldato di Selenia rotolarono insieme fino in fondo, dove la terra era bagnata e fangosa. Orlando provò a colpire con la spada, di filo falso. Non era un colpo efficace, ma con un po’ di fortuna poteva prendere un punto debole o scoperto, magari tagliargli un orecchio e distrarlo. Ma si sentì afferrare il polso in una morsa. Spinse e tirò quanto poteva, l’altro era molto più forte, i suoi poveri muscoli spezzati dalla malattia. Si trovò di sotto, immobilizzato, con l’alito del soldato rubizzo sul volto.

“Adescio ti ammascio!”

Orlando provò a inarcarsi per lanciarlo avanti, oltre la propria testa. Sapeva di poterlo fare… un tempo. Ora no. Fu schiacciato nuovamente giù.

“Livio, non poscio mollarlo, si agita come una biscia, ammascialo tu!”

Un altro soldato di Selenia si stava rialzando giusto di fianco, lasciandosi alle spalle un uomo di Altarocca riverso e sanguinante. L’uomo barcollò, ubriaco di fatica, ma si riprese immediatamente e strappò via la partigiana dal corpo del nemico appena ucciso. La punta stillante sangue si avvicinò minacciosa al volto di Orlando. Poi la punta di una spada emerse dal petto del soldato. Alle sue spalle emerse il volto sudato di Viligelmo.

“Puttana bagascia!” esclamò l’uomo che teneva fermo Orlando, girandosi spaventato.

Era il momento. Orlando fece forza, puntò il piede e si girò di lato, proiettando il soldato nemico. Nella baraonda riuscì a liberare la mano sinistra, afferrò l’impugnatura della daga, la estrasse e la ficcò nella gola dell’avversario, che strabuzzò gli occhi e urlò come un agnello portato al sacrificio. Rovesciò di nuovo Orlando schiena a terra. Ma quanto era forte? Orlando estrasse la lama corta dal collo del nemico e gliela piantò di nuovo dentro. Fu affogato da un fiotto di sangue che gli cadde sul volto, mentre l’uomo di Selenia scalciava terrorizzato. Riuscì a mettersi su un fianco, lo tenne e lo colpì ancora, e ancora. La daga gli cadde e allora lo colpì coi pugni guantati d’acciaio fino a schiacciargli il cranio e farlo penetrare nel fango. Quando si rialzò, simile ormai a una statua di mota, la mischia si era messa male. Viligelmo era steso a terra con la gola tagliata, e gli ultimi fanti fedeli al Re stavano vendendo cara la pelle. Si erano chiusi a cerchio cercando di difendersi a vicenda, ma erano inferiori di numero. Orlando, però, era fuori dal cerchio, e i nemici gli davano le spalle. Se solo avesse avuto la forza… boccheggiò e cercò di sollevare la spada, che gli pareva di piombo.

Con uno sforzo sovrumano la brandì e assaltò la schiera avversaria da dietro. Due uomini caddero senza sapere perché, un terzo alla sua destra cercò di coprirsi con lo scudo ma Orlando lo colpì con una stoccata dal basso, passando sotto l’orlo della rotella e piantandogli la punta tra i fianchi. Si sentì afferrare alle spalle, subito si girò con un mandritto che amputò l’avambraccio del soldato nemico. Un altro lo afferrò, lo strattonò e lo tenne. Ma, quando vide la crosta che Orlando aveva sul lato del collo, negli occhi del soldato di Selenia si insinuò la paura. Una punta di partigiana colpì Orlando sul fianco. L’usbergo resistette. Non fu necessario reagire perché il suo assalitore fu spacciato dai lealisti superstiti, che cercavano di sfondare l’accerchiamento dalla parte in cui lui si era gettato.

Poi si udì un urlo di guerra, da molte gole: “Altarocca! Per Malia! Per il Re!”.

Quelli di Selenia girarono i tacchi, si arrampicarono su per le pareti di terra rapidi come stambecchi e se la diedero a gambe. In un solo momento attorno a Orlando e ai fanti si fece il vuoto. Lasciarono andare i nemici: non avevano né gambe né animo per inseguirli. Un grosso contingente veniva di corsa verso di loro, senza dubbio inviato dal Duca in loro soccorso.

Orlando si lasciò scivolare giù e prese tossire e sputare, tossire e sputare. Non era la peste, i suoi polmoni erano a posto. Ma sentiva la necessità di buttar fuori di sé qualcosa, di espellerlo. Forse erano il terrore, il ribrezzo e la pena. O forse aveva mandato giù il sangue che irrompeva dalla gola di quel grosso soldato, e gli era andato di traverso.

Orlando si sedette sulla cassapanca di legno dove il Duca teneva le vesti pulite. Aveva il culo così magro che poteva sentire le proprie ossa strofinare contro il legno. Scosse la testa. Lo scontro di prima lo aveva svuotato delle poche energie che gli erano rimaste dopo la malattia. Avrebbe voluto solo dormire, ma Ercole di Vastopasso gli mise in mano una coppa di vino e gli ordinò:

“Bevi.”

Non c’era altra risposta possibile al tono del Duca che bere, così Orlando sorseggiò il liquido denso color della porpora. Era forte, sincero, e sentiva che gli faceva bene. Ma era anche consapevole che vuotare la coppa lo avrebbe reso del tutto brillo, nelle condizioni in cui era. Così si limitò a piccoli sorsi prudenti. Seduti attorno al tavolo da campo all’interno del vasto padiglione del signore di Vastopasso c’erano i Patrizi al comando delle truppe inviate dalle libere Città di Granfaro, Novafortia e Minervia, i Duchi di Rocciarossa, Acquefoco e Ampioporto, e alcuni Baroni veterani di mille battaglie che rappresentavano nel Consiglio i Feudatari ed Eredi più inesperti.

L’ultimo membro del Consiglio di Guerra entrò nella tenda a grandi passi, la fronte segnata da un taglio che ancora gli sbrodolava sugli occhi liquido rosso e siero. Ritardo giustificato, quindi. Entrando l’uomo scostò il lembo di tessuto che fungeva da soglia della tenda. L’aria della sera aveva portato una brezza fresca, che faceva del suo meglio per spazzare via l’odore dolciastro e nauseante della morte. Le torce e i fuochi da campo tingevano le tende e le armi appese alle rastrelliere d’ombra e di sanguigno. Orlando riuscì ad avere una fuggevole impressione della via lattea che splendeva nel cielo notturno. Sospirò. Era stanco di guerra, stanco di distruzione, di quella danza macabra che tutti quanti, da una parte e dall’altra, erano costretti a danzare. E tuttavia ancora dentro di lui c’era un’asprezza ferrigna che non gli permetteva di mollare: non era disposto a darla vinta agli usurpatori. L’unico modo che vedeva per arrivare alla tanto agognata pace era trovare la maniera di riportare una vittoria rapida, con meno massacro possibile. Per fermare la morte era necessario uccidere.

Posò la coppa.

Il Duca Ercole si schiarì la voce.

Il Consiglio era iniziato.

“Tutti conoscete la situazione, quindi risparmierò a voi e a me stesso il doloroso compito di riassumerla. In breve: l’armata dell’Est è stata sconfitta ed è in ritirata, in disordine, tranne quei pochi che si sono uniti a noi. La peste ci sta decimando… dico “decimando” per essere ottimista. Temo che le vittorie che abbiamo riportato fino ad oggi si possano considerare in gran parte vanificate. La potenza di Selenia è intatta, all’interno delle mura, e sappiamo per certo che le loro scorte di cibo, capaci di sostenere la città per molti mesi, superano le nostre. Inutile quindi pensare di prenderli per fame. Ci troviamo lontani dalle terre a noi fedeli, nel bel mezzo del territorio nemico, e con un’armata ostile che potrebbe prenderci alle spalle. E’ ben vero che ho disposto esploratori ovunque e non ci prenderebbero alla sprovvista, e che anche quell’armata che viene verso di noi soffre della stessa peste che sta dissanguando noi, ma anche così la nostra situazione è critica. Che suggerite?”

Il Duca Marino di Ampioporto fu il primo a parlare con il suo solito tono vivace tipico del Sud, solo un po’ più di stanchezza nella voce. Si dondolò sullo sgabello ed esclamò:

“Ecche! Non ci possiamo mica farci prendere in mezzo! Ma se quelli là arrivano e noi leviamo le tende da qui e ce ne andiamo ad affrontarli, questi di Selenia che fanno? Se ne stanno buoni buoni ad aspettare che torniamo? Io non credo, non credo proprio. Ve lo dico io che fanno: quelli ci vengono dietro quatti quatti e appena la battaglia inizia ci pigliano alle spalle e ce lo mettono nel…”

“E’ chiaro, Marino, grazie. Anche troppo. E non possiamo nemmeno aspettare qui il nemico. Oddio, un precedente ci sarebbe, nell’antichità: lo conoscete tutti. Ma si trattava di una piccola città, in quel caso, e noi in questo momento non abbiamo certo la forza di scavare un fossato ed erigere un vallo alle nostre spalle. Non avremmo uomini a sufficienza, e molti di quelli che abbiamo sono spossati dalla peste, come il mio fido Barone Orlando, qui, oppure sono terrorizzati all’idea di prenderla e fanno fatica anche solo a lasciare la loro tenda per i turni di guardia o per le necessità più impellenti.”

Orlando, al sentirsi nominare come esempio dei segni che lascia la peste, ebbe un fremito. Non gli faceva certo piacere essere indicato in quel modo, ma lo capiva. Sapeva di avere profonde occhiaie e un aspetto non molto diverso da quello di un morto che cammina. Dalla situazione che il Duca Ercole stava descrivendo, tuttavia, forse in quell’accampamento erano tutti morti che camminano, peste o non peste. Fece finta di niente.

Il Patrizio di Granfaro, un tizio dai folti baffoni neri, sbuffò.

“Bisognerebbe prendere Selenia prima dell’arrivo dell’altra armata. Al riparo di quelle mura potremmo resistere e attendere i rinforzi da Sud.”

“Impossibile.” sentenziò un Barone, uno di quelli famosi per il loro “ottimismo”.

“E poi non porteremmo la peste in città, in quel modo?” chiese il giovane Signore di Acquefoco.

Il Duca di Rocciarossa, un tipo biondo allampanato, lo schernì:

“E allora? Preferite soprassedere alla presa della città per riguardo al nemico?”

Le guance del giovane si tinsero di rosso. Un po’ vergogna e un po’ furore, giudicò Orlando.

“Certo che no! Però non siamo dei barbari, Rocciarossa, dobbiamo porci anche questo problema. Ci sono dei civili! O volete ridare al legittimo sovrano un Regno senza più sudditi?”

“Bah! Meglio un deserto in mano agli Altarocca che un giardino in cui possano scorrazzare a piacimento i rampolli degli Alesiadi. Ma voi avete passato qualche anno a studiare a Selenia, no, Acquefoco? Siete giovane, non è passato molto tempo… magari ricordate ancora con piacere qualche bella giovinetta della città. Dicono che siano focose e inclini a usare la bocca non solo per conversare…”

Alcuni si misero a ridere di gusto, altri protestarono, il giovane Acquefoco pareva sul punto di alzarsi e mettere mano al pugnale.

Ercole di Vastopasso battè un pugno guantato d’acciaio sul tavolo, facendo sussultare tutti.

“Giunone bischera! Basta così!”

Tutti ammutolirono e si paralizzarono alla bestemmia.

Le labbra di Ercole di Vastopasso si mossero in silenzio. Probabilmente una rapida preghiera e le debite scuse alla regina degli Dei. I Vastopasso erano sempre stati una famiglia pia, per strappare una bestemmia al Duca ce ne voleva. Si vede che è proprio esasperato, pensò Orlando con pena. Doveva essere difficile gestire l’armata in quella situazione.

Un silenzio rispettoso durò per qualche istante, fino a che non fu il Duca stesso a parlare di nuovo.

“Non mi farebbe alcun piacere portare la pestilenza in città, ma nella situazione in cui siamo se avessi la possibilità di prenderla non esiterei. Ne va dell’intera guerra e del futuro del Regno.”

Fece una pausa.

“Ma non vedo alcun modo per riuscirci. Le forze di Selenia sono intatte, le nostre allo stremo: se anche ordinassi un assalto disperato tentando il tutto per tutto per prendere le mura, ci respingerebbero senza difficoltà. Se qualcuno di voi ha qualche idea, è il momento di tirarla fuori. Altrimenti entro qualche giorno sarò costretto a ordinare di levare l’assedio e muovere verso Ovest, tornando sui nostri passi. Ci ritireremo verso Campofiorito e se ci sarà possibile cercheremo di resistere. Allora?”

Un silenzio ancora più imbarazzato calò sul Consiglio.

“Niente?”

Orlando non sapeva se stava per fare la figura dell’idiota. Tanto, persa per persa…

“Duca?”

Ercole di Vastopasso lo fissò con una tenue speranza negli occhi.

“Sì, Orlando?”

La frase gli suonò del tutto assurda, ma la disse lo stesso.

“Venendo qui ho visto delle mucche morte…”

Orlando si erse orgogliosamente a lato dell’enorme trabucco, stirandosi la schiena e riprendendo fiato. Ci era voluta tutta la mattina per organizzarsi, ma adesso tutte le macchine da guerra dell’armata occidentale del Re erano pronte a lanciare. Era stata un’impresa lenta e faticosa, soprattutto perché solo gli scampati alla peste avevano potuto porvi mano. Lui stesso si era prodigato, lavorando e sporcandosi insieme ai fanti più umili in quella puzza micidiale. Eppure si sentiva eccitato, e un’ombra dell’energia che aveva un tempo pareva essere tornata a impregnargli le membra.

Si sporse, alzandosi sulle punte dei piedi, e guardò con attenzione quel che il trabucco stava per lanciare all’interno delle bianche mura di Selenia.

Vacche. Conigli. Maiali. Cani. Tutti morti. Accatastati lì e legati insieme, al posto delle pietre o delle giare incendiarie. Polli no, e nemmeno gatti e cavalli. Quelli non si ammalavano. Invece vacche, conigli maiali e cani la prendevano, la peste, e morivano proprio come gli uomini. Chissà perché gli Dei avevano deciso di affliggere alcune razze e risparmiarne altre, si chiese. Magari era un caso. Magari la prossima pestilenza avrebbe colpito altri.

Udì un cavallo al galoppo, alle sue spalle.

“Mio Duca, eccovi!” esclamò.

Il Duca Ercole gli rivolse un sorriso incerto.

“Sono tutti a posto, Orlando, tutti pronti a lanciare al nostro segnale.”

“Bene.”

Il Duca, che era a capo scoperto, si grattò il testone leonino.

“Che penserà il Re di noi, che penseranno i posteri? Non è che stiamo facendo una bestialità imperdonabile?”

Orlando si staccò una crosta dal collo e la gettò via. Un gesto non proprio elegante, in effetti. Ma era un po’ come liberarsi dei residui che la peste gli aveva lasciato.

“Il Re non è qui. E nemmeno i posteri sono qui, oggi, presi come noi tra due fuochi in un assedio che langue e con l’acciaio del nemico che ci punzecchia davanti e di dietro. Io non ho voglia di perdere la guerra e di lasciarci la pelle, e voi?”

“No, per niente.”

“Siamo in guerra, per gli Dei, in guerra accadono tante brutte cose. Bene, questa è una di quelle brutte cose. Non ci si può battere all’ultimo sangue senza sporcarsi di sangue, per quanto ne so. Che ricada tutto su chi questa guerra l’ha cominciata per ambizione di potere.”

“Lanciamo allora, ma che risulti che non provo alcuna felicità nel dover gettare la peste all’interno della città di Selenia.”

“Nessuno sano di mente ne sarebbe felice, Duca. Lo sappiamo tutti che la pensate così, e nessuno di noi vi farà una colpa di questa azione. Gli Alesiadi sì che lo faranno, e lo urleranno ai quattro venti, ma loro sono il nemico e lo farebbero comunque, in qualunque modo vi comportaste. Date voi il segnale.”

Il Duca scosse la testa.

“No, fallo tu, Orlando. L’idea è stata tua in fin dei conti.”

Orlando estrasse la spada e la alzò. Gli occhi di tutti i serventi dei trabucchi erano fissi su di lui. Abbassò il braccio.

Un nugolo di corpi di mucche, maiali, cani e conigli infetti, stroncati dalla peste, volò librandosi nell’aria, fino a ricadere oltre le mura della città turrita.

“Mandiamogli un altro po’ di carne, coraggio! Un altro carico!” ordinò Orlando.

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