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GLI ULTIMI EROI DELL’ARENA – PARTE VII

dicembre 24, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

 

Nel corso della giornata altri contingenti Dosthan entrarono in città, però sempre in numeri molto limitati. Theodor si insediò nel palazzetto del Console, dove ricevette l’omaggio di tutti i Patrizi di Selenia. Corse voce che il Principe avesse dato in moglie ai suoi capitani tutte le ragazze Patrizie ancora nubili, d’imperio, senza concedere loro né tempo né scelta. Era un sacrificio limitato, nulla a confronto con le distruzioni che altre città avevano dovuto subire. Verso mezzogiorno il passaggio delle consegne era ultimato. Anche la compagnia di cui i gladiatori di Galba facevano parte consegnò le armi ai nuovi dominatori. Il decanus augurò a tutti loro buona fortuna e sciolse il contingente. Tutti a casa, la guerra era già finita.

Per quanto riguardava l’arena il Principe Theodor era stato chiaro: sarebbe stata chiusa con effetto immediato, e per sempre. I Dosthan consideravano i giochi dell’anfiteatro il simbolo di un passato che doveva essere cancellato, quando i loro compatrioti venivano catturati sui campi di battaglia e costretti a lottare per la loro vita davanti a una folla di odiati Mitoien. Effettivamente un tempo i giochi erano più sanguinosi, a volte si combatteva di proposito fino alla morte. Raramente, però avveniva, e in quei casi quasi sempre i malcapitati che dovevano giocarsela erano malfattori della peggior specie e schiavi barbari. Perciò i Dosthan non avevano la minima intenzione di lasciare che i giochi proseguissero. Festa finita. Per Felitia, carriera finita.

Galba, il lanista, aveva fatto un breve discorso ringraziando tutti per il sudore e il sangue che avevano lasciato sulla sabbia dell’anfiteatro, poi aveva stracciato davanti a loro i contratti che impegnavano coloro che ancora non si erano guadagnati l’affrancamento. Infine, aveva intimato di prendere le loro cose e lasciare libere le stanze. Da quel giorno avrebbero dovuto guadagnarsi il pane e un tetto sulla testa in altro modo.

Felitia si era caricata come una mula per portarsi a casa lame affilate e smussate, rudis di legno, la sua armatura e tutte le protezioni che poteva portare. Poi aveva fatto un secondo giro a prendere le cose di Glaucus al ludus del suo lanista, e un terzo e finalmente un quarto da Galba per raccattare tutto ciò che gli altri avevano lasciato.

“Ma cosa te ne fai di tutta questa cianfrusaglia puzzolente?” le chiese Drakos, stupito.

“Tu il tridente lo prendi o no?” gli rispose lei, secca.

“Beh, sì, per ricordo. Le mie cose me le porto via, ma non vedo perché tu ti debba portar via le manicae imbottite che Galba non vuole più, questo rudis ammaccato…”

Lei alzò le spalle.

“Non si sa mai, possono sempre servire per allenarsi. E chissà, magari cambieranno idea, prima o poi: senza i giochi ci si annoia, no?”

“Noialtri di certo, ma i Dosthan non sono abituati a frequentare l’arena e non credo che ne sentiranno la mancanza.”

“Non si sa mai. Io spazio ne ho, a casa.”

“Bah, fai come vuoi, Felitia. Altrimenti finisce tutto nel camino. Io ho chiuso, ero comunque stanco di tutto ciò.” concluse la discussione il vecchio Galba, che andava e veniva rassettando i cortili e le stanze.

Alcuni dei ragazzi e delle ragazze più giovani se ne stavano in in angolo, incerti e preoccupati.

“Quelli lì non sanno dove andare a cenare questa sera, né sanno dove andranno a dormire stanotte.” commentò Vitreus a bassa voce. “Mi dispiace tanto per loro, ma non avrei posto per tutti da me, neanche volendo.”

Felitia scosse la testa.

“Dovranno arrangiarsi, come abbiamo fatto noi prima di farci strada nel mondo dell’arena. Troveranno qualcosa: magari i nuovi nobili Dosthan hanno bisogno di guardie e di facchini. Sennò i campi avranno bisogno di contadini, coi massacri che ci sono stati nei villaggi e nelle fattorie della Pianura. Non possiamo preoccuparci noi per tutti, Vitreus. Io qualche soldo da parte ce l’ho, ma non dureranno a lungo: devo inventarmi qualcosa in fretta anche per me stessa.”

Il gladiatore nero sospirò.

“Io ho risparmiato e sono a posto per un po’. Ma bisogna comunque che ci pensi. Mica posso oziare e ingrassare per sempre. Non sono un Patrizio, in fin dei conti.”

Drakos sogghignò: “Per fortuna! Altrimenti ti ritroveresti con un genero barbaro che gira per casa cacando sui tappeti, mangiando come un cinghiale e che per di più vuole dettar legge.”

“Gli Dei me ne scampino! E il cibo è il meno, tu non sai quanto bevono, quelli lì.”

“Lo so, accidenti se lo so. Non è detto poi che i loro nuovi generi non li facciano secchi nel sonno per ereditare tutto subito. Non li invidio, i Patrizi, in questi giorni.”

Una volta finito, si ritrovarono davanti alla schola, ormai chiusa e sbarrata, per consolarsi cenando insieme da qualche parte. Scelsero una taverna di bassa lega, perché in quei giorni di incertezza nessuno se la sentiva di spendere molto. No, nemmeno per una cena d’addio alla professione che aveva assorbito le loro vite negli ultimi anni, riservando a tutti loro una buona dose di soldi, ferite e calci nel sedere. La zuppa era così così – Felitia avrebbe saputo fare di meglio – e anche il vino non era un granché. Drakos dopo un po’ andò in sbornia triste e Vitreus dovette quasi prenderlo a pugni per farlo smettere di piangere addosso a se stesso, all’arena, alla città e all’Impero tutto. Edurne per fortuna si era portata dietro la sua amica, una ragazzetta sveglia e tutta pepe, e aveva occhi solo per lei.

La luna era alta in cielo quando finalmente si alzarono dalle panche e uscirono all’aria fresca della notte. Non c’erano Dosthan, quando loro erano entrati nella taverna, a parte un terzetto che già russava sbracato, rigonfio di vino. Le vie però ne erano piene. Si udiva ovunque risuonare quella loro lingua aspra, che alle orecchie Mitoien pareva feroce anche quando ridevano. Andavano in giro a gruppetti, tutti già ubriachi, cantando e ruttando a piena voce. Alcuni erano allegri e spensierati, altri aggressivi.

Felitia, Vitreus ed Edurne con la sua compagna salutarono Drakos e gli altri compari, che se ne andavano in direzione opposta, e si avviarono in silenzio verso il loro quartiere.

Svoltarono in un vicolo.

Un uomo giaceva in un lago di sangue con la gola aperta, una torcia per terra accanto al corpo. Alcuni Dosthan stavano addosso a due malcapitati, un ragazzo e una ragazza. Li avevano rovesciati a terra, un barbaro teneva fermo il giovane mentre un altro gli tirava dei pugni in faccia, altri stavano strappando via il vestito della fanciulla. Due poi si stavano tirando giù le brache, ognuno vicino a una delle vittime. I gladiatori rimasero pietrificati a quella vista, poi l’amica di Edurne si portò le mani al viso e cacciò uno strillo. I barbari si girarono.

“Andate, se non volete fare la stessa fine!” gridò quello che pareva il capobranco, in un Mitoien stentato dal forte accento straniero.

Edurne, Vitreus e Felitia si guardarono fra loro.

“Eh, no…” sussurrò Edurne, ed estrasse il pugnale. La sua ragazza la guardò terrorizzata e fece tre passi indietro. Invece Felitia la imitò e sguainò la sica. Era la stessa che usava nell’arena, la conosceva meglio del suo stesso corpo. Vitreus sospirò e alzò i pugni.

“Non ci credo!” gli disse Edurne, scandalizzata “Come puoi andartene in giro così nudo? Nemmeno un coltellino?”

“Ho solo questi.” rispose lui, agitando le mani enormi serrate come magli.

“Fatteli bastare, allora.” sibilò Felitia.

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