I RACCONTI DI MALIA
Sul sentiero che portava dal villaggio di Bellagioia, che aveva trovato nei pressi della cascata di Gorgoverde, alla pista principale per Biancacava, Mario procedeva sempre con l’arco in mano e una freccia incoccata, sperando di mettere le mani su qualche animale per riempirsi lo stomaco. Aveva sempre fame, anche se qualcosina ogni tanto riusciva a met
ter sotto i denti, sia che fosse un piccolo animale che coglieva con una freccia sia che si trattasse di frutti di bosco che si fermava a raccogliere, quando ne trovava. Quel giorno si era trovato davanti sul sentiero una bella lepre. Una preda ambita. Per lo meno, ambita da lui. Per fortuna aveva avuto i riflessi pronti e la sua freccia aveva trafitto l’animale a metà di un balzo. La lepre era caduta e lui le era stato subito addosso. La freccia passava quel piccolo corpo snello da parte a parte: la preda non gli poteva più scappare. Mario non poté evitare di incrociare lo sguardo terrorizzato dell’animale, e una fitta di dispiacere lo colse. Ma la fame era troppa, e comunque ormai era fatta.
“Mi dispiace, bella, o io o te.” mormorò, poi le spezzò il collo. Anche se avrebbe voluto fermarsi a mangiarla subito si costrinse a legare la sua preda allo zaino e proseguire. Non riuscì a prendere altro. Al contrario, perse una freccia quando tentò di tirare a un uccello su un ramo, forse una quaglia. Cercò quella dannata freccia in lungo e in largo, ma chissà in mezzo a quale cespuglio poteva essere finita. Alla fine dovette rassegnarsi a riprendere il cammino. Man mano che avanzava la foresta diventava sempre più fitta e il verde si faceva sempre più scuro, la luce che riusciva a filtrare tra le fronde, già di per sé calante per l’avanzare del meriggio, divenne sempre più scarsa. Era quasi il tramonto quando si concesse di fermarsi. Raccolse e tagliò un po’ di legna per il fuoco, che dopo qualche tentativo riuscì ad accendere con l’acciarino. Poi si mise a scuoiare la lepre. Dopo aver eseguito i pochi tagli necessari strappò la pelle, che venne via quasi intera. Era stato un fattore a insegnargli a farlo, quando era in campagna dai suoi genitori. Al tempo aveva trovato la cosa piuttosto disgustosa, a dire la verità, ma l’uomo aveva insistito e lui aveva eseguito quell’operazione diverse volte, fino a diventare abbastanza abile da poter dire di aver imparato. Solo allora il fattore lo aveva lasciato in pace. Adesso, tuttavia, gli tornava utile.
Tagliò la testa alla lepre con un paio di colpi di accetta: gli dava fastidio cuocerla mentre pareva ancora guardarlo con quegli occhi ormai spenti.
Pulì un rametto e ci infilò la lepre, che ora era nuda come un verme. Poi fece la punta a un’estremità del ramo e lo piantò profondamente nel terreno, lasciando la sua cena a pendere a una certa distanza sopra il fuoco.
Ben presto la lepre iniziò a sfrigolare e a emanare un profumo succulento, che gli fece subito venire l’acquolina in bocca. Santi Dei, da quanto tempo non mangiava sul serio? Quasi non se lo ricordava più. Avrebbe addentato volentieri quella carne ancora mezzo cruda, ma riuscì a rimanere abbastanza civilizzato da aspettare che fosse cotta a puntino.
A quel punto però ci si gettò sopra e non si fermò fino a quando, oltre a spolpare tutto il divorabile, non ebbe succhiato anche il midollo delle ossa.
Poi si appoggiò con la schiena a un tronco, si buttò la coperta sulle gambe e rimase tutto soddisfatto a fissare la danza delle fiamme. All’indomani, pensò con un sorriso idiota stampato in viso, avrebbe di certo trovato un’altra preda. Aveva tutto il giorno per farlo, durante la strada: di certo qualche animale gli sarebbe passato non troppo lontano, e lui non se lo sarebbe lasciato sfuggire. La pancia piena e il tepore del fuoco iniziarono a poco a poco a fargli pesare le palpebre.
Non si sdraiò del tutto ma rimase a sonnecchiare così, mezzo seduto.
Ebbe l’impressione di aprire gli occhi e che ci fosse una figura accoccolata dall’altra parte del fuoco da campo. Non gli era chiaro se si trattasse di un uomo o un animale… sì doveva essere un uomo, ma era peloso come una bestia. O forse era vestito di pellicce. O forse, semplicemente, tutto non era altro che un sogno. Sì, ma certo, doveva trattarsi di un sogno: da dove poteva saltar fuori, sennò, uno strano personaggio del genere, lì in mezzo al bosco? Gli sembrò, nel dormiveglia, che l’uomo si avvicinasse a lui, girando stretto attorno al fuoco con movimenti fluidi e lenti, come se si muovesse in una specie di melassa.