Giano, un bravaccio della Casa Tagliaferro tanto grasso quanto forte, è detto “Bidone”, e non a caso. L’unico dubbio è se il nomignolo si riferisca alla sua stazza – decisamente importante, ma che non limita la sua rapidità in combattimento – o alle sue altrettanto indubbie qualità di baro. Che tu giochi a carte, a dadi, a giochi di scacchiera, che tu scommetta su corse di cavalli o incontri di lotta, se accetti di giocare con Giano hai una sola certezza: tornerai a casa con le tasche vuote, e senza sapere bene il perché. Ma Giano non è abile solo a truccare la partita, lo è anche a giocare secondo le regole: in realtà bara solo… quando gli serve per vincere! Essere il “Bidone” è diventato una parte essenziale della sua identità a tal punto che nessuno ricorda il suo vero cognome. Fedelissimo della nota Casata di lenoni di Alesia, ricca ma famigerata, e in particolare di Rinaldo, appare solo come comparsa in “Per la Corona d’Acciaio”, senza che ne venga fatto il nome… perché Luce Selenides (è lei a incontrarlo) non lo conosce. Chi ricorda in quale occasione l’assassina si è imbattuta in un grosso sgherro pelato dei Tagliaferro? In “Contro Due Imperi” conosceremo Giano molto meglio. Attenti, però, a non scommettere mai contro di lui!
I RACCONTI DI MALIA
Ai piedi dell’Altopiano Centrale, il Feudo di Campofiorito si estendeva davanti ai loro occhi cosparso di querceti, castagneti e di macchie di agrifoglio e rosaspina, con piccoli borghi turriti e antichi manieri che sorgevano in cima ai poggi. Branchi di cavalli correvano liberi su vasti prati e nugoli di lepri correvano a nascondersi nei roveti di more che serpeggiavano a fondovalle, all’approssimarsi della carovana di muli del mercante Piero Briganti.
“Qui presto imperverserà la guerra: al di là di quei colli si trova il passo verso le Colline Occidentali. Non credo che i Duchi e le Città trovino un accordo con il Re: entrambi i bandi sono costretti dalle circostanze a dimostrarsi forti e inflessibili. Ci conviene muoverci in fretta.”
Nessuno, né Piero Briganti né il Griso, il bravaccio che comandava le guardie, trovò alcunché da obiettare o da aggiungere alle parole di Alberto, l’anziano capo dei mulattieri.
Come a rimarcare le loro preoccupazioni poterono avvistare di frequente, da lungi, gruppi di esploratori a cavallo. Molti portavano armature sulle quali il sole si rifletteva da lontano. Era cavalleria pesante, quindi, forse addirittura nobili.
Procedettero perciò di buon passo diretti verso la cittadella Ducale, senza perdere nella locanda che trovarono sulla strada più tempo di quello strettamente necessario a cenare e trascorrervi la notte.
Durante la mattinata del secondo giorno la via smise di snodarsi fra colli sempre più bassi e prima di mezzogiorno divenne una strada dritta in un paesaggio piatto, fra campi coltivai e pascoli. Lì i villaggi erano più grandi e fitti, cinti da mura di mattoni. Il sole aveva preso ad abbassarsi e tingersi del color delle arance quando, da una leggera foschia che si era alzata dalla terra, si riuscì a intravedere la cittadella. Un’alta muraglia di mattoni rossicci racchiudeva un grosso borgo. Svettavano oltre l’altezza delle mura svariate case-torri di importanti Baroni, e su tutto si alzava il bianco castello del Duca.
“E’ tutto fatto di pietra bianca portata dalle colline.” spiegò Piero “La Casa Ducale non si poteva abbassare a costruire usando i mattoni come tutti gli altri. Il denaro non gli è mai mancato, ai Duchi, e così hanno fatto questa follia. E’ stato ai tempi del nonno di Invitto, il Feudatario attuale.”
“Invitto di nome e di fatto!” esclamò il Griso, tutto gongolante.
All’occhiata interrogativa di Mario il mulattiere Alberto spiegò: “Il Duca è uno dei migliori giostratori del Regno, e ha vinto parecchi tornei. Però non è vero che non sia mai stato sconfitto: qualche volta anche lui si è trovato col culo per terra.”
“Bah, molto raramente.” interloquì il Griso.
“Poche volte.” concesse Alberto.
Piero non partecipava più alla conversazione. I suoi occhi, bramosi e preoccupati al tempo stesso, erano fissi sulla cittadella dove doveva smerciare le sue mercanzie. Era teso come un segugio nel momento cruciale della caccia.
Alle porte furono fermati dalla guardie.
Come sanno i miei trenta lettori di solito recensisco opere di autori italiani: trovo che sia più utile indirizzare i trenta di cui sopra verso romanzi o antologie meritevoli ma che al tempo stesso non godano già di grande fama e successo di pubblico, e d’altra parte non mi sembra appropriato che il sottoscritto si metta a recensire (e quindi in un certo qual modo giudicare) i classici e i grandi autori del passato. Abercrombie però con questa trilogia che ho appena finito si merita davvero una menzione. Avevo letto “Il mezzo Re” l’anno scorso, e me lo ero proprio gustato. Il romanzo è ambientato nel Mare Infranto, una regione popolata di regni “vichinghi” che sono sorti sulle rovine di acciaio, vetro e cemento dell’antico popolo degli elfi. E’ la storia del mite principe Jarvi, secondogenito del re del Gettland che anela a una vita tranquilla come “ministrante”, ossia membro di una casta dedita alla conoscenza e a consigliare ai regnanti l’ambigua via del male minore e del bene maggiore. Jarvi infatti ha una malformazione al braccio sinistro, di dimensioni ridotte e atrofizzato, che gli proibisce una carriera da guerriero. Tuttavia il destino e macchinazioni machiavelliche di cui non è cosciente lo catapulteranno per strade del tutto diverse e molto pericolose, fra incursioni, pirati, schiavi e re guerrieri, costringendolo a cambiare e indurirsi. Non vi posso dire di più, perché i colpi di scena non mancano. Finita la lettura mi ero precipitato ad acquistare gli altri due volumi: “Il mezzo mondo” e “La mezza guerra”, i quali tuttavia mi sono subito stati requisiti dai figli, che nel frattempo avevano letto il primo romanzo. Nel frattempo, come succede, la fila degli altri libri da leggere era cresciuta. Ho ripreso la trilogia in questi giorni e me la sono tracannata furiosamente. Un aspetto veramente interessante, che mi ha colpito, è che ogni volume è scritto dal punto di vista di uno o più personaggi diversi dal protagonista del precedente: nel secondo seguiamo l’aspirante guerriera Thorn Bathu, incline a cacciarsi nei peggiori guai possibili, e il suo ingenuo avversario/amico Brand, salvati entrambi da morte certa proprio per opera di Jarvi, che li trascinerà fino ai confini del mondo. Nel terzo invece il punto di vista principale è quello della principessa adolescente Skara, signora di un regno devastato e occupato dal nemico, e di Raith, un giovane assassino albino del popolo Vanster, potente ma infido alleato di Skara e del Gettland. Ogni volta i protagonisti dei romanzi precedenti sono ben presenti, ma vengono visti dai nuovi personaggi in una luce di spietata venerabilità per la gloria delle imprese passate: essi ne percepiscono – dall’esterno – i lati più minacciosi e feroci, non sono consapevoli dell’umanità di quelli che considerano possenti e feroci eroi, e di come anche loro si sono trovati in precedenza (e continuano anche ora a trovarsi) a subire i loro stessi dubbi e patemi.
Se nei primi due romanzi l’aspetto del viaggio di formazione modello Odissea prevale su quello bellico, nel terzo (come annunciato dal nome del libro) tutti i nodi vengono al pettine e il Mare Infranto brucia nel più grande conflitto dai tempi della caduta dei misteriosi ed estinti elfi, il cui “segreto”, intuito da tempo, verrà del tutto svelato.
Non posso chiudere senza segnalare l’analisi profonda e spietata della psiche umana, delle dinamiche sociali e soprattutto del potere che si trova in questa trilogia, temi sui quali provo una profonda comunanza con quanto espresso dall’autore, e che cerco di affrontare anche nei miei scritti. Un’altra somiglianza è che anche qui il lettore non troverà traccia di magia, mostri e simili: ci sono solo uomini e donne a confronto con situazioni estreme e con le bestie più pericolose di tutte: i loro simili.
Vi si trovano, su questi temi, parecchi aforismi e perle di spietata saggezza dei popoli del Mare Infranto che da soli varrebbero a consigliare la lettura. Ve ne voglio proporre qui solo alcuni fra i tanti:
“Lasciamo che Padre Pace versi lacrime sui metodi. Madre Guerra sorride dei risultati.”
“Il mondo è pieno di mostri. Forse la cosa migliore che possiamo sperare è avere quello più terribile dalla nostra parte.”
“Il segreto per mantenere l’autorità è dare solo gli ordini che sai verranno obbediti.”
“Una buona spada si sguaina di rado.”
“La fiducia è come il vetro. Gran bella cosa, ma solo uno sciocco vi appoggia un fardello pesante.”
“L’uomo che trova da combattere ovunque molto presto si ritroverà con un combattimento di troppo.”
Chiudiamo con una nota di ottimismo, merce rara nel Mare Infranto:
“Offri agli uomini l’occasione per essere migliori, e la maggior parte di loro vorrà coglierla.”, e “Non si cambia il giorno di ieri. Puoi solo cercare di fare meglio domani”.
Perché tutto sommato in fondo la vita umana non è altro che “Da nulla a nulla. Ma quale viaggio, dall’uno all’altro!”
I RACCONTI DI MALIA
“Saranno almeno trecento passi, forse di più. Una caduta in verticale bella lunga, non credi?”
Mario si trasse indietro dallo strapiombo e il Griso sogghignò.
“Lascialo stare, Griso! Lui fa la discesa per la prima volta, tu invece l’avrai già affrontata in trenta viaggi.” disse Piero.
“Trentadue.” puntualizzò il Griso.
“Vuoi che racconti come te la sei fatta nelle brache la prima volta?”
Il bravo lanciò uno sguardo di fuoco a Piero. Ma il mercante era il suo padrone. Così, nonostante il cattivo latte che doveva aver succhiato da sua madre, il bravo si morse la lingua e se ne stette zitto. Alberto, il vecchio capo mulattiere, rise di gusto.
“Anch’io mi ricordo!”
“Fottiti, Alberto! A te posso dirlo.”
Il bravaccio era risentito perché quei due gli avevano rovinato il gioco.
Mario, dal canto suo, era pronto a difendersi da solo e non fu grato più di tanto dell’aiuto che gli era venuto dal suo capo.
La carovana di muli di Piero Briganti stava affacciata proprio sul bordo settentrionale dell’Altopiano Centrale. Quelle che vedevano laggiù in basso, invece, erano le terre del Ducato di Campofiorito. Pareva quasi di vederle disegnate su una mappa, da lì, mentre il vento soffiava tra i capelli di quelli che si avvicinavano al precipizio.
“Uh, senti come ulula!” commentò a voce alta uno dei mulattieri più giovani.
“Fa sempre così, qui, sempre. Non smette mai. E’ l’aria che viene da sotto e quando urta il fianco dell’Altopiano viene su gridando e prende velocità. Senti come tira: pare quasi che se uno si tirasse di sotto potrebbe andare in su invece che cadere, da quanto è forte. Questa parte del tragitto ti fa cacare sotto ma è uno spettacolo.” Alberto sorrideva, sornione.
Mario deglutì, ma poi cercò di mostrarsi all’altezza.
“E noi da dove passiamo, per scendere? O dobbiamo davvero buttarci e il vento ci depositerà di sotto senza farci alcun danno?”
Alberto gli fece un occhiolino: “Sì, magari. A dire la verità c’è una vecchia leggenda…”
Piero, il mercante che pagava il soldo di tutti, lo zittì:
“E basta con tutte le tue leggende, vecchio. Non c’è tempo adesso, sennò facciamo notte a metà della scalinata e siamo fritti.”
Fu la volta del carrettiere di abbozzare.
“D’accordo, hai ragione Piero. Te la racconto un’altra volta, Mario. Magari stasera, quando saremo giù.”
Poi Piero si rivolse a Mario:
“Comunque da qui non si vede ma c’è un passaggio, anche se non è certo agevole. Vedrai. Dobbiamo proseguire mezzo miglio verso Est. Andiamo.”
“Vedrai.” gli ripeté il Griso all’orecchio mentre gli passava accanto.
I RACCONTI DI MALIA
Parte Prima
I destrieri da guerra lanciati uno contro l’altro sudavano copiosamente sotto il sole spietato dell’isola di Tiria. I loro manti erano lucidi per lo sforzo. Anch’io ero madido. Mi asciugai la fronte col dorso della mano. Il cavaliere a sinistra era un Gallessano, sullo scudo una testa di lupo nera in campo rosso. Da destra si precipitava contro di lui il figlio di un ricchissimo mercante locale, un tale Salvatore Ranieri originario proprio di lì, di Ertapietra. Sulla sua rotella la testa feroce di una Furia dai lunghi canini. Il Gallessano all’ultimo si spostò di lato, e si scontrarono con un gran fragore. Avevo visto quello spettacolo parecchie volte, ma non cessavo di stupirmi della violenza degli urti che i contendenti si scambiavano. Solo l’abilità dei migliori armaioli poteva impedire che questi cavalieri morissero come mosche quando praticavano la loro attività preferita. Io, dal canto mio, avrei preferito affrontare dieci sgherri armati in un vicolo che fare una roba del genere. La lancia del mercante strisciò sullo scudo del Gallessano e aprì una sorta di cicatrice color acciaio sul muso del lupo che vi era raffigurato. Ma l’arma di quel Lyonel Maravoy invece colse il suo avversario in pieno petto, appena sopra al bordo della rotella. Per un istante l’asta di legno di frassino arrivò a curvarsi, mentre il pubblico tratteneva il fiato. Poi la cinghia sottopancia del cavallo del contendente locale cedette, e lui fu proiettato indietro. Salvatore Ranieri cadde nella polvere con tutta la sella. Maravoy si ritrovò lanciato avanti, ma subito tirò le redini di lato, fece girare il destriero su se stesso e balzò giù. Non si curò di armarsi ma accorse presso il suo avversario, per controllare se fosse ancora vivo. Quello era scosso, ma stava già cercando di liberarsi delle staffe e rialzarsi. Il Gallessano gli porse una mano però l’uomo di Tiria lo scacciò via, quasi in malo modo. Ranieri non aveva intenzione di arrendersi, anche se sul suo pettorale era evidente una grande ammaccatura centrale. Strano che non si fosse rotto delle costole, pensai, era stato fortunato. Mentre il giovane arrancava per rialzarsi Maravoy tornò al suo destriero ed estrasse la spada, il cui fodero era fissato alla sella. Fece un paio di molinelli per sgranchirsi il polso, che doveva aver subito il contraccolpo della botta di lancia, e si mise in guardia protendendo lo scudo. Aspettò con calma che il suo avversario fosse pronto. Intanto intorno a loro si andavano radunando giudici di gara, sergenti e araldi. I duellanti iniziarono a studiarsi, scambiandosi qualche colpo cauto. Il giovane mercante fece una finta sopra lo scudo e tagliò un mandritto alle gambe, ma Lyonel Maravoy balzò indietro sottraendosi al colpo. Poi fu lui ad attaccare: tentò di girare prima a sinistra e poi a destra dell’avversario rifilandogli al contempo ben quattro botte, che però il contendente locale riuscì sempre a parare o a schivare. Dopo aver ripreso fiato il ricco mercante si lanciò avanti con un roverso alto. Scelta infelice, osservai fra me e me. Il Gallessano ne approfittò subito: parò di spada, spinse l’arma di Salvatore Ranieri alla propria destra senza lasciarla andare, fece un passo avanti col piede sinistro e colpì di punta all’interno del braccio destro del mercante. La lama, pur smussata, si infisse nel bicipite. Il pubblico poté vedere la giubba imbottita del cavaliere di Ertapietra intridersi di sangue, che poi stillò a terra in grosse gocce. Due sergenti si gettarono in mezzo impugnando le partigiane e li separarono. Era finita. Maravoy alzò le braccia in segno di trionfo. Il perdente si tolse l’elmo rivelando un’espressione di dispetto, poi fu costretto a stringere la mano al vincitore, sia pure con una stizza che non tentò affatto di celare. Anche se lo sconfitto era un mio compatriota, o quasi, la sua scortesia mi aveva spinto a parteggiare per lo straniero. Così, pur senza esultare troppo, mi concessi un sorriso di soddisfazione. Ad ogni modo Maravoy si era dimostrato superiore sia a cavallo che a piedi, aveva meritato la vittoria e i festeggiamenti che i suoi vassalli gli stavano tributando in quel momento. In realtà per un popolano era già molto essere arrivato fino a quel punto della giostra: quel giovane mercante poteva essere contento della propria abilità con le armi. Un po’ meno della mancanza di gentilezza che lo aveva contraddistinto. A lui sarebbero state riservate adesso le cure del cerusico.
Messer Maravoy fece allora qualcosa di inaspettato: estrasse da una borsa della sella un drappo di tessuto prezioso con il blasone dei Conti di Castlebrun e camminò verso il palco dove stavano gli spettatori della nobiltà.
Poi lo baciò, e lo lanciò a una giovane dama. Era un gesto molto impegnativo. Mi sforzai di vedere chi fosse, ma era troppo lontano. Però ero curioso, quindi mi feci largo tra la folla.
La damigella che stringeva il drappo era una bellezza, aveva lunghi capelli castani e grandi occhi azzurri. Aveva le guance un po’ arrossate. Comprensibile. Il padre della fanciulla, al suo fianco, era rigido come una statua di pietra. A giudicare dalle vesti dovevano essere originari di Tiria oppure Isolani. Ma perché stare a fare illazioni? C’era un araldo proprio lì alla mia portata.
“Scusate, signore, sapete dirmi per caso chi sia quella damigella a cui il nobile Maravoy ha porto omaggio?”
L’araldo, secco e rugoso come una vecchia tartaruga, mi squadrò come se fossi uno straccione.
“Ma certo. E’ Demetra di Mykenes, figlia dell’Autarca. Non vedete le loro insegne?”
Come no, certo che le vedo. Ma non sono un araldo. Vengo dall’Altopiano Centrale e non sono mica tenuto a conoscere tutte le stirpi delle infinite Isole che costellano il mare, no?
A volte quelli di Tiria erano fastidiosi: tendevano a considerare la loro isola il centro del mondo e loro stessi gli unici esseri umani perfetti. Chi si ritiene perfetto non potrà mai migliorare, l’avevo imparato a mie spese molto tempo prima, all’accademia di scherma a Novafortia. Gli uomini di Tiria non si ritenevano né Maliani né Isolani ma in qualche modo credevano di stare al di sopra di entrambi. Erano in realtà semplicemente una via di mezzo tra i due.
Comunque mi tenni per me la rispostaccia che avrei potuto dare e tornai a girarmi verso la lizza.
Mentre scudieri e paggi portavano via cavalieri, armi e cavalli da guerra si iniziò a preparare il campo per l’ultimo scontro della giornata, che vedeva ancora in lizza un cavaliere di Castelbrun. Era il giovanissimo Barone Claudi de Naute-riu, l’ultimo straniero ancora rimasto in gioco oltre al suo signore che aveva appena vinto lo scontro, e a un Principe Isolano. I cavalieri di Castelbrun si erano fatti valere al di là di ogni aspettativa. Altri Gallessani, Dosthan, Isolani e uomini dell’Ovest erano stati riportati alle loro tende con fratture e lesioni. Quelli feriti in modo più lieve si assiepavano dall’altra parte dello steccato, per assistere agli scontri di chi era stato più fortunato di loro. La giostra dedicata alla Dea Flora, che si teneva ogni tre anni a Ertapietra, aveva sempre avuto fama di essere tra le più dure. Oltre ai migliori campioni delle giostre dell’intero Continente, alcuni dei quali vivevano vagando di continuo di torneo in torneo, di giostra in giostra, si presentava un gran numero di cavalieri da tutte le Terre Meridionali di Malia, dalle altre Isole e, com’era naturale, da Tiria stessa.
Tamburi e chiarine iniziarono a suonare, annunciando il combattimento. Il diciassettenne Barone di Naute-riu affrontava un cavaliere di Rocciarossa, un Feudo sulla Costa del Tramonto. Era costui un certo Marco Sarti, un veterano che aveva giostrato in giro per tutta Malia. Io avevo visto entrambi tirare di spada: Claudi in addestramento presso la sua tenda, un paio di giorni prima, e Marco Sarti in un torneo ad Altarocca tre anni fa. Perciò ero certo che se fossero giunti alle spade l’esperto uomo di Rocciarossa avrebbe potuto battere senza troppi problemi il sia pur valoro Gallessano. Riconobbi il blasone rosso e oro del signore di Rocciarossa, che il cavaliere suo vassallo portava in campo con onore anche quel giorno.
Dall’altra parte veniva avanti Naute-riu, con la visiera dell’elmo alzata a mostrare i tratti piacevoli e regolari del volto. Ognuno dei due aveva già eliminato cinque avversari, a quel punto. Il vincitore dello scontro sarebbe entrato fra gli otto migliori del torneo, e all’indomani avrebbe avuto l’occasione di battersi ancora per il primo posto. I destrieri sbuffavano, inquieti. Il sole aveva preso ad abbassarsi sull’orizzonte ma il caldo era ancora asfissiante.
Al segnale degli araldi il Gallessano abbassò la visiera ed entrambi i cavalieri diedero di sprone. Quando furono vicini Sarti abbassò la lancia spostandola a sinistra e si piegò. In quel modo, alzando l’arma all’ultimo momento avrebbe scostato l’arma del Gallessano alla propria destra mandandola fuori bersaglio, mentre la sua avrebbe centrato l’avversario in pieno. Una manovra ardita. Ma quando il Maliano alzò la lancia Claudi de Naute-riu abbassò la sua, la passò sotto a quella di Sarti e tornò a rialzarla all’interno, trasportandogli l’arma nemica fuori dalla linea. Colse il Maliano alla spalla sinistra, rovesciandolo a terra. Sarti cadde di sella fra il rumoreggiare della folla. Quando il giovanissimo Claudi frenò il suo bianco destriero e gli applausi cessarono, si udirono le grida di dolore del cavaliere di Rocciarossa. Lo soccorsero. Non c’era sangue, ma lui si rotolava per terra e non smetteva di gridare. Anche il Gallessano scese di sella e si tolse l’elmo, preoccupato.
I medici liberarono Sarti dello spallaccio, che aveva una bella ammaccatura, e poi di tutta la parte superiore dell’armatura. Dovettero togliergli anche la giubba imbottita e la camicia, e a quel punto si vide che, sotto a un vasto livido nerastro, la spalla era lussata. Aiutarono Marco Sarti a mettersi in ginocchio, poi uno dei medici gli tirò forte un braccio e l’altro operò sul deltoide ricollocando l’osso nella sua sede.
Il cavaliere respirò forte. Il suo corpo muscoloso e cosparso di cicatrici era tutto sudato e lucido, per la gioia delle dame presenti.
Quando riuscì ad alzarsi si prese anche lui un applauso dal pubblico.
Claudi gli sorrise, rassicurato:
“Spada?”
Quello fece cenno di no e scosse la testa.
“Non oggi, mio signore. Un altro giorno sarò felice di accontentarvi, ma per oggi ho già ricevuto la mia lezione. Siete stato incredibile con la lancia, complimenti.”
“Grazie a voi, è stato un onore incontrarvi sul campo.”
Si strinsero la mano.
Era finita.
La gente iniziò ad allontanarsi a piccoli gruppi, in attesa che calasse il sole e l’aria rinfrescasse. Allora sarebbero iniziate le danze, le bevute e i corteggiamenti. Io bighellonai un po’ in giro, fino a che mi parve di vedere tra la folla il cappuccio di una cappa che mi parve di riconoscere. Non era possibile. Non potevano avermi seguito fino a lì, così lontano dalla mia terra. Eppure, se non proprio lui, ero sicuro che fosse uno di loro.
I RACCONTI DI MALIA
Sul sentiero che portava dal villaggio di Bellagioia, che aveva trovato nei pressi della cascata di Gorgoverde, a
lla pista principale per Biancacava, Mario procedeva sempre con l’arco in mano e una freccia incoccata, sperando di mettere le mani su qualche animale per riempirsi lo stomaco. Aveva sempre fame, anche se qualcosina ogni tanto riusciva a met
ter sotto i denti, sia che fosse un piccolo animale che coglieva con una freccia sia che si trattasse di frutti di bosco che si fermava a raccogliere, quando ne trovava. Quel giorno si era trovato davanti sul sentiero una bella lepre. Una preda ambita. Per lo meno, ambita da lui. Per fortuna aveva avuto i riflessi pronti e la sua freccia aveva trafitto l’animale a metà di un balzo. La lepre era caduta e lui le era stato subito addosso. La freccia passava quel piccolo corpo snello da parte a parte: la preda non gli poteva più scappare. Mario non poté evitare di incrociare lo sguardo terrorizzato dell’animale, e una fitta di dispiacere lo colse. Ma la fame era troppa, e comunque ormai era fatta.
“Mi dispiace, bella, o io o te.” mormorò, poi le spezzò il collo. Anche se avrebbe voluto fermarsi a mangiarla subito si costrinse a legare la sua preda allo zaino e proseguire. Non riuscì a prendere altro. Al contrario, perse una freccia quando tentò di tirare a un uccello su un ramo, forse una quaglia. Cercò quella dannata freccia in lungo e in largo, ma chissà in mezzo a quale cespuglio poteva essere finita. Alla fine dovette rassegnarsi a riprendere il cammino. Man mano che avanzava la foresta diventava sempre più fitta e il verde si faceva sempre più scuro, la luce che riusciva a filtrare tra le fronde, già di per sé calante per l’avanzare del meriggio, divenne sempre più scarsa. Era quasi il tramonto quando si concesse di fermarsi. Raccolse e tagliò un po’ di legna per il fuoco, che dopo qualche tentativo riuscì ad accendere con l’acciarino. Poi si mise a scuoiare la lepre. Dopo aver eseguito i pochi tagli necessari strappò la pelle, che venne via quasi intera. Era stato un fattore a insegnargli a farlo, quando era in campagna dai suoi genitori. Al tempo aveva trovato la cosa piuttosto disgustosa, a dire la verità, ma l’uomo aveva insistito e lui aveva eseguito quell’operazione diverse volte, fino a diventare abbastanza abile da poter dire di aver imparato. Solo allora il fattore lo aveva lasciato in pace. Adesso, tuttavia, gli tornava utile.
Tagliò la testa alla lepre con un paio di colpi di accetta: gli dava fastidio cuocerla mentre pareva ancora guardarlo con quegli occhi ormai spenti.
Pulì un rametto e ci infilò la lepre, che ora era nuda come un verme. Poi fece la punta a un’estremità del ramo e lo piantò profondamente nel terreno, lasciando la sua cena a pendere a una certa distanza sopra il fuoco.
Ben presto la lepre iniziò a sfrigolare e a emanare un profumo succulento, che gli fece subito venire l’acquolina in bocca. Santi Dei, da quanto tempo non mangiava sul serio? Quasi non se lo ricordava più. Avrebbe addentato volentieri quella carne ancora mezzo cruda, ma riuscì a rimanere abbastanza civilizzato da aspettare che fosse cotta a puntino.
A quel punto però ci si gettò sopra e non si fermò fino a quando, oltre a spolpare tutto il divorabile, non ebbe succhiato anche il midollo delle ossa.
Poi si appoggiò con la schiena a un tronco, si buttò la coperta sulle gambe e rimase tutto soddisfatto a fissare la danza delle fiamme. All’indomani, pensò con un sorriso idiota stampato in viso, avrebbe di certo trovato un’altra preda. Aveva tutto il giorno per farlo, durante la strada: di certo qualche animale gli sarebbe passato non troppo lontano, e lui non se lo sarebbe lasciato sfuggire. La pancia piena e il tepore del fuoco iniziarono a poco a poco a fargli pesare le palpebre.
Non si sdraiò del tutto ma rimase a sonnecchiare così, mezzo seduto.
Ebbe l’impressione di aprire gli occhi e che ci fosse una figura accoccolata dall’altra parte del fuoco da campo. Non gli era chiaro se si trattasse di un uomo o un animale… sì doveva essere un uomo, ma era peloso come una bestia. O forse era vestito di pellicce. O forse, semplicemente, tutto non era altro che un sogno. Sì, ma certo, doveva trattarsi di un sogno: da dove poteva saltar fuori, sennò, uno strano personaggio del genere, lì in mezzo al bosco? Gli sembrò, nel dormiveglia, che l’uomo si avvicinasse a lui, girando stretto attorno al fuoco con movimenti fluidi e lenti, come se si muovesse in una specie di melassa.
I RACCONTI DI MALIA
di Alfonso Zarbo
Ha posato gli occhi sulla mia femmina.
Ha posato gli occhi sul mio castello.
Ha posato gli occhi sui miei guadagni.
Il Macellaio, una carognaccia rosso malpelo e con il broncio perenne, ha tentato di farsi giustizia da solo e ci ha rimesso il mignolo, il principiante. Il Gentiluomo, che poi forse dopotutto tanto gentiluomo non è, ha pensato bene di corrompere le sue guardie. Voleva che lo abbandonassero in un vicolo con qualche scusa, e poi che la (mala)sorte lo punisse come più le girava. Peccato che, rimasto solo, quello se ne sia tornato tranquillo, nonché fieramente armato, fin dentro casa. Infine il Mercante: non ho ancora capito quanto possa essere grasso, da quel tanto di collane e farsetti che indossa – ma, sicuramente, lo è. E comunque è così attaccato ai soldi che nemmeno si sarebbe mosso, se non avesse sentito che pure gli altri due lo volevano morto.
Ora eccoli tutt’e tre qui, alla mia porta.
Certe cose è sempre meglio lasciarle a Nonna Fata.
«Benvenuti, benvenuti!» li accolgo, dando tempo alla mia servetta di posare quattro calici sul tavolo. «Lo gradite un po’ di vino, sì? Vino Maliano, ovviamente» sorrido, col tono di chi già lo assapora.
«S-sì, beviamo!» squittisce il Mercante, ma il Macellaio amputa subito il suo entusiasmo.
«Siamo qui per ammazzare Invitto di Campofiorito, vecchia.»
di Caterina Franciosi
I RACCONTI DI MALIA
La brezza del porto di Alesia spettinava la sua chioma color del fuoco.
Luce si passò la mano fra i capelli e si accorse che stavano diventando di nuovo troppo lunghi. Sbuffò. Avrebbe dovuto tagliarli ancora, fosse solo per far dispetto a sua sorella Erinne. La volta precedente si era limitata a bagnarli, a raccoglierli in una coda bassa e a tranciarli di netto alla base con un paio di forbici. Era rimasta piuttosto soddisfatta del risultato, ma Erinne non era stata dello stesso avviso. Era quasi svenuta quando era rientrata a casa e aveva visto la sua nuova pettinatura. Luce si lasciò scappare una risatina ricordando come sua sorella aveva continuato a prenderla a male parole per tutto il tempo in cui l’aveva costretta a stare seduta al tavolo della cucina mentre cercava di rimettere a posto quel disastro.
Quante storie per un taglio di capelli. Come se poi non le fossero ricresciuti. D’altronde, non poteva aspettarsi altro da sua sorella, sempre così bella e profumata.
Luce scivolò tra la gente senza farsi notare, osservando il dondolio delle barche ormeggiate alle banchine, pronte a ripartire l’indomani mattina sfruttando i primi soli primaverili. I mercanti e i pescatori avevano ripreso la loro piena attività dopo i lunghi mesi invernali, in cui la fredda morsa del gelo pareva congelare ogni cosa.
Ma per Luce quella non era stata una bella giornata. Affatto. Era uscita alla ricerca di un lavoro, ma anche quel pomeriggio si era limitata a collezionare l’ennesimo insuccesso. Da quando Erinne le aveva proposto di prendere in considerazione l’idea di collaborare con la famiglia Tagliaferro e Luce aveva replicato con parole irripetibili, sua sorella aveva perso le staffe e le aveva dato un ultimatum.
“Badiamo a te fin da troppo tempo,” aveva sentenziato settimane prima. “Essere una damigella dei Tagliaferro non è quello che pensi tu, ma cercare di spiegartelo è solo fiato sprecato. Perciò ora arrangiati e trovati un lavoro per conto tuo.”
“E la mamma lo sa che mi stai dicendo questo?” aveva ribattuto Luce senza fare una piega.
Erinne l’aveva solo guardata.
“È meglio che ti trovi un lavoro onesto. E che abbandoni il giro della gentaglia che frequenti, non credere che non sappiamo quello che fai.”
E così era cominciata la sua avventura alla ricerca di un’occupazione qualsiasi giù al mercato di Alesia, ma a quanto pareva nessuno voleva saperne di lei. Chi non poteva permettersi di pagarla, chi non ne aveva la benché minima intenzione, chi l’avrebbe invece coperta di monete sonanti in cambio di servizi se possibile ancora più disgustosi di quelli dei Tagliaferro.
Il mercante grasso e sudato con cui aveva discusso poche ore prima le aveva praticamente riso in faccia.
“Ma dove credi di andare con quelle gambette rinsecchite?” le aveva detto sprezzante davanti a tutti. “Ragazzina, io scarico casse di pesce e barili di birra tutto il santo giorno. Cosa me ne faccio di un esserino come te?”
Luce si era trattenuta dal saltargli alla gola e se ne era andata tra gli sghignazzi degli uomini.
“Ciccione,” aveva bofonchiato una volta fuori dalla loro portata. “Ti ci vedo proprio a faticare tutto il giorno, come no.”
Eppure quelle parole avevano continuato a ronzarle nelle orecchie. Quel grassone era stato un villano, certo, ma le aveva rivolto la domanda chiave.
Che cosa sapeva fare lei?
Si allontanò tra le viuzze della periferia a testa bassa, avvolta dal chiacchiericcio dei passanti, riflettendo. Non era brava in alcun tipo di arte, questo era certo. Nel corso degli anni, Erinne aveva tentato – invano – di insegnarle a suonare qualche strumento musicale o qualche canzone, oppure ancora a muovere qualche passo di danza. Nemmeno di ricamare se ne parlava. Luce trattenne una risata, cominciava a capire la disperazione della sorella.
Eppure qualcosa doveva esserci, per gli Dèi. A parte quello, ecco.
Sfruttando le prime ombre della sera, Luce imboccò uno stretto vicolo laterale e si arrampicò su per la parete della casa disabitata alla sua destra, sfruttando inferriate e cornicioni. In un attimo, si ritrovò sul tetto, accucciandosi per ammirare dall’alto lo splendore della città. Il Palazzo di Re Tiberio IV Alesiade si stagliava imponente contro l’orizzonte. Se solo avesse potuto, Luce lo avrebbe distrutto fino all’ultima pietra, fosse stato solamente per annientare suo padre e tutta quella cricca di nobili. Padre… se così poteva definire l’uomo con cui sua madre l’aveva involontariamente concepita. Non voleva nemmeno pronunciare il suo nome. Gli sarebbe bastato alzare un dito per aiutarle, invece si era limitato a prendere ciò che più che gli aggradava in quel momento per poi metterle da parte una volta che ne aveva avuto abbastanza. Come tutti quei ricconi spocchiosi e arroganti suoi amici, del resto. Non era giusto.
Come non era giusto che quei mercanti ciccioni le ridessero in faccia. Se solo avesse avuto qualcosa… Un arco, una balestra…
La gente non faceva caso a lei. Se Luce decideva di non farsi notare era in grado di mimetizzarsi ovunque, come un’ombra tra le ombre. Era in grado di spaventare persino Erinne. Se solo avesse avuto un’arma tra le mani, tutti quei buffoni avrebbero riso molto meno.
Ma erano solo sogni. Uccidere non era sempre così facile – e nemmeno troppo conveniente. Se i Ronconieri l’avessero catturata, sarebbe finita sulla forca in un battito di ciglia.
Luce scivolò verso il bordo del tetto e si incantò dinanzi agli ultimi raggi di sole che incendiavano le nubi più basse a Ovest. Il profumo di carne speziata della locanda poco distante le fece brontolare lo stomaco. Chissà cosa aveva preparato Erinne per cena. Quella sera non lavorava, la mamma non c’era e –
Luce inorridì.
Quella sera la mamma non c’era, Erinne non lavorava e aveva invitato amici per cena. E si era raccomandata di non fare tardi.
Scese dal tetto e corse verso casa. Sua sorella l’avrebbe ammazzata. Ecco un’altra cosa in cui non era brava: tenere a mente gli impegni mondani.
Erinne era furiosa.
“Dove sei stata?” le sibilò non appena le aprì la porta di casa.
“Fuori,” rispose Luce, sgusciando sotto il suo braccio teso. “A cercare lavoro, come mi hai detto tu.”
Erinne fece per tirarle un ceffone e la strattonò dentro.
“Più tardi facciamo i conti, io e te,” le soffiò all’orecchio mentre la conduceva in sala da pranzo.
Attorno al tavolo erano già seduti tre uomini che a Luce fecero subito una pessima impressione.
“Oh, ecco finalmente l’altra splendida signorina Selenides.”
Rinaldo Tagliaferro si alzò e le andò incontro, prendendole una mano tra le proprie per baciarla. Luce trattenne a stento l’impulso di ritrarla, ma la sua espressione doveva essere palese, tanto che Rinaldo sogghignò e le strizzò l’unico occhio che aveva.
“Grazie per essere venuta,” le disse, scostandole la sedia. “Stavamo giusto discutendo di noiosissimi affari. Posso presentarti i miei amici, Giuliano Terrabuona e Santo Dal Rio?”
I due energumeni seduti dall’altra parte del tavolo si alzarono, fecero un breve inchino a Luce e non ripresero posto fino a quando non lo fece anche lei. Erinne le riempì il piatto di stufato senza parlare e Luce colse l’occasione al volo per evitare di rispondere e limitarsi ad un vago cenno del capo.
“Allora, dove sei stata tutto il giorno?” Rinaldo si accomodò e le rivolse un sorrisetto. “Stai facendo ammattire tua sorella, lo sai?”
Luce scrollò le spalle, fissando il fondo del piatto.
“Non è colpa mia se là fuori sono un branco di incivili,” fu la secca risposta.
Rinaldo scoppiò a ridere e riprese a mangiare.
Luce rimase a sedere fra loro, sentendosi più fuori posto che mai, desiderando di trovarsi altrove. Le loro chiacchiere sugli ultimi avvenimenti della città, su chi avesse cercato di infilzare o far arrestare chi, la lasciavano completamente indifferente e la annoiavano a morte. Ascoltava solo a metà i loro discorsi, che per lei avevano lo stesso valore della spazzatura. Ogni parola che usciva dalla bocca dei Tagliaferro per lei era immondizia, ma questo era meglio non dirlo. Ma come accidenti faceva Erinne a lavorare per loro?
“Questo stufato è semplicemente delizioso!” commentò Rinaldo pulendo il fondo del piatto con una fetta di pane. “Non è vero, ragazzi?”
I due scagnozzi annuirono. Luce scoccò loro un’occhiata di sottecchi mentre portava via i piatti sporchi e li riponeva nell’acquaio. Non avevano l’aria particolarmente intelligente, ma erano grossi abbastanza da far passare a chiunque la voglia di infastidire Rinaldo. Con due così alle spalle, anche da lontano sarebbe stato difficile colpire il giovane rampollo dei lenoni di Alesia.
“Luce, vuoi un po’ di frutta?”
Erinne le porgeva il vassoio dalla soglia della porta.
“No, grazie,” rispose da sopra la spalla. “Sto bene così. Finisco di lavare questa roba.”
Erinne scrollò le spalle e tornò in sala. Le risate degli ospiti erano allegre e sembravano anche sincere, ma forse era solo grazie alla bottiglia di vino ormai vuota sulla tavola. Nonostante ciò, l’atmosfera per Luce era soffocante. Di nuovo, desiderò essere altrove, lontana dal quel mondo sporco e contorto in cui – suo malgrado – era nata. Le mancava l’aria alla gola e avrebbe dato qualsiasi cosa per tornarsene di nuovo tra le vie della città, dove nessuno sapeva di lei. Dove nessuno voleva qualcosa da lei.
Mai come in quel momento desiderò essere libera. Libera di tornare a casa all’ora che preferiva – o di non tornarci affatto. Libera di essere chiunque volesse, di nascondersi o meno agli occhi degli altri, di parlare solo con chi fosse di suo gradimento. Libera di non rendere conto ad anima viva delle proprie azioni, se non a sé stessa.
“Scendo a prendere una boccata d’aria.”
Luce abbandonò i piatti nell’acquaio e corse giù, fuori, in strada, dove c’era aria. Respirò a fondo i profumi della sera, già carichi delle prime promesse estive. Si appoggiò al muro del palazzo e rilassò la testa contro la pietra, ma la quiete non durò a lungo. Con gli occhi chiusi, sentì il portone aprirsi accanto a lei con un cigolio dei cardini.
“Erinne, lo so che sei fuori di te, ma dammi un momento.” si lamentò Luce senza muoversi.
Una risata mascolina le fece spalancare gli occhi all’istante. Rinaldo Tagliaferro le stava davanti a braccia conserte, un sorriso sbilenco sul volto sfregiato.
“Oh, sei tu. Scusami.”
“Sei scappata?” Rinaldo si appoggiò al muro vicino a lei. “Le nostre chiacchiere ti hanno provata così tanto?”
“No, io – ”
“Sai,” la interruppe Rinaldo dandole una pacca sul braccio. “È davvero un peccato che ci odi così tanto. Una come te sarebbe… speciale. Non solo per il nome che porti, ma perché c’è qualcosa in te. Qualcosa che accomuna te ed Erinne a vostra madre, mio padre me l’ha sempre detto.”
Luce si staccò dal muro e lo fronteggiò.
“Scordatelo,” disse a voce bassissima. “Non farò mai parte delle puttane dei Tagliaferro. Piuttosto la morte. La mia o quella di tuo padre, se mai si azzardasse a toccarmi con quelle luride mani.”
“Suvvia, suvvia,” rispose Rinaldo con un blando cenno della mano. “Non volevo farti arrabbiare.”
Cominciò ad accarezzarsi il mento con la punta delle dita e rimase a scrutarla a lungo con uno strano scintillio negli occhi.
“E adesso cosa c’è?” sbottò Luce.
“Oh, nulla,” rispose Rinaldo senza cambiare espressione. “Stavo solo pensando che ti credo, sai?”
“Credi a che cosa?”
“A quello che hai appena detto.”
Luce incrociò le braccia sul petto.
“E conosco un lavoro che potrebbe fare al caso tuo,” continuò il giovane davanti a lei.
“Ma non mi dire.”
“Potrà sembrarti strano, ma non abbiamo a che fare solo con allegre damigelle.” Anche Rinaldo si allontanò dalla parete e prese a girarle intorno in un modo che a Luce ricordò uno squalo con la propria preda. “Forniamo diversi servizi, se così possiamo chiamarli. Servizi ai quali non sei del tutto estranea.”
“Senti, spiegati o me ne torno di sopra,” gli disse Luce portandosi fuori dalla sua orbita e cominciando ad innervosirsi seriamente.
“Saresti una perfetta sicaria, Luce Selenides.”
Luce si immobilizzò e sentì la mascella scivolare verso il basso.
“Io – cosa?”
“È un lavoro duro. Rischioso. Ma paga bene, se sei brava.”
“Stai scherzando. Io non vado in giro ad ammazzare la gente.”
“No?” Rinaldo portò il naso all’altezza dei suoi occhi. “Ne sei davvero sicura?”
Luce deglutì. Rinaldo sapeva. Sapeva che aveva già ucciso una volta: Flavio, quell’uomo disgustoso. Ed era perfettamente consapevole del fatto che non fosse nemmeno lontanamente pentita.
Anche quel giorno avrebbe voluto fargliela vedere a quel ciccione borioso, e come a lui, anche a tanti altri, tutte le volte che non avevano esitato a farsi beffe della sua famiglia. O che avevano cercato di approfittarsi di lei solo perché era una ragazza.
“Lo immaginavo.”
Rinaldo si tirò indietro, senza staccare gli occhi dai suoi. Luce era disorientata. Non sapeva cosa rispondere, voleva fuggire e allo stesso tempo la proposta di quel farabutto aveva mosso qualcosa dentro di lei.
“Non mi starai dicendo che c’è un precettore che ti insegna ad ammazzare la gente,” disse, cercando di ritrovare un contegno.
Rinaldo scosse il capo.
“Non si diventa assassini. Lo si è e basta. E tu lo sei, ce l’hai nel sangue, Luce Selenides.”
“Io – ”
“Non negarlo, perché l’ho visto nel tuo sguardo fin dal primo momento. Ti ho osservata, insieme a tua sorella. Ti ho fatta seguire da certi miei collaboratori, per essere certo di non sbagliare. E io sbaglio raramente.”
Il volto di Rinaldo aveva perso ogni traccia di ilarità.
“Non voglio lavorare per voi,” ribatté Luce, testarda.
“Non lavorerai per noi, non se non lo vorrai perlomeno,” rispose Rinaldo, alzando gli occhi al cielo. “Sarai libera di scegliere cosa fare della tua vita. Io ti sto solo dando un’opportunità per non sprecare il tuo talento.”
Luce lo guardò a lungo, meditando sulle sue parole.
“Non credere che sarà facile.” Rinaldo si strinse nella cappa scura e si diresse verso il portone, passandole accanto. “Dovrai studiare, imparare ad usare le armi, scoprire quale sarà la più congeniale per te. Non basta ciò che hai imparato dai tuoi amici del quartiere.”
“Chi?”
La domanda di Luce rimase sospesa fra di loro come una nuvola oscura. Rinaldo si fermò e voltò solo il viso verso di lei, il sorriso mellifluo che si allargava di nuovo sulle sue labbra.
“Conosco gente che farebbe al caso tuo. Ti darei i nomi e da lì la scelta sarebbe solo tua. Potresti decidere che non fa per te, che preferisci trovarti un marito e crescere dei figli, oppure scegliere di dedicarti anima e corpo a questa vita. Insomma, sono affari tuoi. Ma il mio consiglio è quello di darti almeno un’opportunità.”
Luce aprì la bocca per ribattere, ma Rinaldo alzò una mano e la interruppe.
“Non serve che mi rispondi adesso. Prenditi il tuo tempo per pensarci. Lascerò i nomi a Erinne, se mai fossi interessata.”
Rinaldo si allungò verso di lei e le diede un buffetto sulla guancia, scomparendo oltre il portone un attimo dopo.
Senza fiato, spossata come dopo una lunga corsa, Luce rimase lì a guardare la bocca scura del palazzo, ad ascoltare il proprio respiro affannoso nell’immobilità della notte. Sopra di lei, una grande luna piena, unica testimone dei segreti che si annidavano negli anfratti più oscuri del suo cuore.
POSTFAZIONE DI MARCO RUBBOLI
La cara amica Caterina Franciosi ci regala con questo racconto uno squarcio sulla prima giovinezza dell’assassina Luce Selenides di Alesia, una dei personaggi più amati nella saga. Luce non ha avuto una vita facile e al tempo di questo racconto, all’età di quattordici anni, ha già ucciso almeno un uomo (come lei stessa ci racconta nel romanzo). Tuttavia, ancora non ha scelto di fare della morte la sua professione.
Il racconto di Caterina si svolge proprio nel momento di questo bivio cruciale nella vita di Luce. L’invito a cena che sua sorella maggiore Erinne rivolge al coetaneo Rinaldo Tagliaferro (un altro dei nostri protagonisti), segnerà il destino di Luce. Se Erinne avesse saputo prima l’esito di quell’invito, di certo non lo avrebbe mai fatto.
Veniamo poi a sapere che Luce, oltre ad apprendere varie arti di combattimento dai suoi amici cattivi del quartiere, avrà un precettore di tiro consigliatole da Rinaldo stesso: una figura misteriosa molto importante per lei, ma che per ora rimane nell’ombra.
Ancora un grazie di cuore a Caterina per la sua partecipazione al progetto di questa saga. Conto di poter sfoggiare in futuro anche altri piccoli o grandi contributi provenienti dalla penna di amici scrittori… e magari anche qualcosa d’altro di Caterina, se a lei piacesse. Elelai!
LINK
Blog: https://salottoletterario20.blogspot.com/
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/ilsalottoletterario
Instagram: caterinafranciosi
Mario era solo, senza soldi, in una città di cui a volte stentava a capire il dialetto. Aveva appena finito il suo ultimo tozzo di pane e si trascinava per i vicoli bui cercando un angolo dove poter gettare lo zaino e accoccolarsi a dormire. All’indomani avrebbe dovuto assolutamente andarsene. Contava di fare a piedi la strada per le Colline Occidentali attraverso i boschi, procurandosi il cibo giorno per giorno con l’arco e un po’ di fortuna. Una volta arrivato là, in una regione più prospera rispetto a quell’Altopiano dimenticato dagli Dei e dagli uomini, avrebbe trovato qualcosa da fare. Se non come mercenario… qualsiasi cosa. Dal facchino al marinaio all’apprendista in qualche bottega: gli sarebbe andato bene tutto pur di riuscire a sfamarsi. Dopo essere giunto a Poggiomerlato con Valerio, il mercante di smeraldi, aveva incassato la paga che gli spettava e si era congedato, in attesa che scoppiasse la guerra tra il Ducato e Biancacava. Si era proposto alla milizia del Duca, e là un sergente aveva segnato il suo nome promettendogli che in caso di conflitto sarebbe stato arruolato senz’altro. Invece che dichiararsi subito guerra, però, il Duca di Poggiomerlato e il Senato di Biancacava avevano intavolato lunghe trattative, durante le quali Mario era rimasto in trepida attesa e aveva consumato tutte le sue risorse. Alla fine il Duca e la Città avevano trovato un accomodamento pacifico. E lui era rimasto fregato. Perfino le sue vecchie scarpe da città aveva dovuto vendere, tenendosi solo gli stivali.
Si stese sotto un portico, con solo la sua coperta a separarlo dalla fredda pietra, e tentò di addormentarsi. C’era quasi riuscito quando fu risvegliato dallo sferragliare di una carrozza nobiliare, che si fermò a poca distanza dal suo giaciglio improvvisato. Un servo basso e grassottello saltò giù, con un’aria piuttosto intimorita. Un uomo si sporse verso di lui senza scendere. Era un giovane gentiluomo dalla veste elegante. Mario sporse la testa da sotto la coperta che lo ricopriva interamente, per osservare meglio.
“Queste sono trenta monete d’oro per madonna Altera. Portaglieli tu e torna subito indietro. Io ti aspetterò qui.” ordinò il cicisbeo.
I RACCONTI DI MALIA
Avrebbero seguito per un lungo tratto l’antica Via degli Dei costruita dagli antichi Mitoien, lastricata di grandi pietre piatte con l’erba che cresceva selvaggia negli spazi tra l’una e l’altra. Poi tra un paio di giorni la strada avrebbe piegato verso Sud e l’avrebbero lasciata per prendere la pista in terra battuta che portava a Poggiomerlato. Il mercante di smeraldi Valerio Bruni, i suoi due bravacci e Mario, tutti e quattro a cavallo, erano partiti di buon mattino da Grottapuledro e non si erano fermati che per un pranzo frugale, freddo, verso mezzogiorno. La preziosa mercanzia che trasportavano era tanto piccola che doveva stare da qualche parte in un sacchetto nascosto addosso a Valerio, anche se nessuno tranne il mercante di gemme lo sapeva per certo. Quindi chi li avesse visti avrebbe anche potuto scambiarli per un gruppo di cacciatori… o di tagliagole, dato che erano tutti arrmati fino ai denti. Oltre a Mario e Valerio c’erano i due sgherri di quest’ultimo: Gino e Marziale. Il primo era un ceffo azzimato di mezza età dai folti baffi neri, il secondo un tipo basso e tarchiato, sbrigativo, che non parlava quasi affatto ma in compenso sorrideva spesso. Chissà perché, faceva venire in mente a Mario certi centurioni Mitoien tozzi e robusti che si vedevano in antichi bassorilievi. Per esempio quelli raffigurati sull’arco di trionfo a Selenia: gente solida, che aveva conquistato il mondo a furia di addestramento pesante e urlacci. Valerio aveva detto che c’erano stati anche altri due uomini d’arme con lui, prima, ma poi costoro avevano ricevuto un’offerta migliore e lo avevano mollato di punto in bianco.
“Per mia fortuna”, rifletté Mario, che aveva rimediato in quel modo un bell’ingaggio.
La via si snodava sul fondovalle in mezzo a colline rocciose coperte di boschi, tra forre ombrose e polverosi calanchi.
Popular Posts
Categorie
Search
Recent Posts
Like Us On Facebook
