Per la Corona d'Acciaio - Per la Corona d'Acciaio
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I TRE MOSCHETTIERI

novembre 18, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

 

Non sarò certo io a fare una recensione de “I tre moschettieri” di Dumas: sinceramente mi pare abbastanza ridicolo che qualcuno si senta in diritto di mettere su Amazon o altri siti la sua personale recensione di classici come l’Iliade (magari “troppi combattimenti, eccessivamente violento”), l’Orlando Furioso (“storia confusa e con troppi personaggi”) o Moby Dick (“un eccesso di nomenclatura di navi e cetacei che spegne l’afflato epico”, e simili scempiaggini). C’è un divertente video del mio acuto concittadino Roberto Mercadini in proposito, guardatelo se avete voglia di farvi una risata.

Quindi, lungi dal voler “recensire” Dumas, volevo parlarvi brevemente del mio rapporto con questo romanzo fondamentale per l’avventura classica e la letteratura in genere, di cui sono stato sempre appassionato. Ciò più a livello personale che come studioso di scherma storica, giacché il mio interesse a livello marziale è più incentrato sulla scherma “di punta e taglio” dei secoli precedenti, e il 1625 è già oltre la soglia del mio periodo di studio preferito, sia pure non di molto. Dumas poi, che pure tirava di scherma, non ha mai approfondito lo studio di come si combattesse in quegli anni ed è sempre abbastanza vago sulla dinamica dei combattimenti. Ma tutto ciò, come dicevo, è marginale.

Come potete vedere dalla foto, fra l’altro, ho letto il libro anche in francese, anzi è stato il primo libro che ho letto in quella bella lingua, contemporaneamente a “La communication politique aujourd’hui” che era il testo previsto dall’esame di francese alla Facoltà di Scienze Politiche in quei tempi lontani. L’avevo già letto in italiano, ovviamente, molti anni prima di allora, nell’età in cui continuavo abusivamente fino a tarda notte all’insaputa dei genitori le mie letture di Salgari, Verne, Dumas appunto, e altri ancora.

Infine l’ho riletto ancora una volta con grande gusto al momento di accingermi alla scrittura di “Il contagio di Meung”, romanzo breve ora in uscita che inaugura una mia personale versione delle avventure dei moschettieri (che si tinge di fantasy e horror a causa di un episodio di “sliding doors” che ha a che fare con certe leggende mediterranee), senza tradire – spero – lo spirito dell’originale e soprattutto dei suoi immortali personaggi. Ho cercato di avvicinarmi al mondo di Dumas con tanto affetto e tanto rispetto, e quel pizzico di ironia e spensieratezza che non è affatto alieno ai romanzi originali.

D’altro canto cosa si può desiderare di più che lavorare su icone come D’Artagnan, il giovane provinciale povero, promettente e spericolato per eccellenza, in cerca di fortuna e che aspira a entrare nei moschettieri? Fra l’altro è per questo, per chi non lo sapesse, che il romanzo si chiama “I tre moschettieri” anche se i protagonisti sono quattro: D’Artagnan è solo una recluta! Anche gli altri tre, i veri moschettieri, sono splendidi archetipi. Porthos incarna alla perfezione il “guerriero orso” del mito indoeuropeo: grosso e forzuto, gran mangiatore, generoso e sempre allegro. Aramis è invece l’elegante seduttore nato, agile e sempre affascinante, nel suo caso l’archetipo è reso più interessante e contraddittorio da una fede religiosa combattuta ma profonda che lo farà aderire addirittura al sacerdozio. Infine Athos, il più esperto del gruppo, il più nobile e “adulto”: un’anima tormentata piena di dignità, dal passato misterioso, su cui gli altri si appoggiano e a cui si ispirano.

Dall’altra parte, troviamo degli antagonisti del tutto all’altezza: il mefistofelico Cardinale Richelieu, l’arrogante spadaccino Rochefort e soprattutto il personaggio più pieno di ambiguo fascino: l’incantatrice e insidiosa Milady, che accomuna in sé l’attrazione pure della bellezza e l’attrattiva repulsione del pericolo.

Al di là dei duelli, delle fughe mirabolanti, degli intrighi di corte, che forniscono il loro essenziale pizzico di pepe, quel che davvero resta a fine lettura è la nostalgia platonica per l’allegria incosciente dei quattro protagonisti (i moschettieri si trovano sempre a corto di denari ma se qualcuno di loro si trova a disporre di una qualsiasi somma subito si sente in dovere di spenderla in banchetti per tutto il gruppo), e ancora di più per l’amicizia e la fedeltà adamantina che li lega tra loro al di là di ogni causa per cui combattere, al di là di ogni contingenza della vita e del destino, e che è la gemma più preziosa che ha donato Dumas all’umanità con questo grande romanzo. Quindi, ancora una volta, che risuoni il grido di battaglia dei tre baldi moschettieri più un cadetto di Guascogna:

“Uno per tutti, tutti per uno!”

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EL CLUB DUMAS

ottobre 15, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

Ancora una volta vi parlo di Arturo Pérez Reverte e di Dumas, e non è un caso. Diversamente dai romanzi con protagonista il Capitan Alatriste, bravaccio e soldato del Tercio Viejo de Cartagena nel XVII secolo, abbiamo qui una storia ambientata nel mondo contemporaneo. Lucas Corso, il protagonista, è un mercenario professionista della bibliofilia, ad alto livello: cerca per conto di ricchi collezionisti opere rare e preziose, edizioni a stampa introvabili come manoscritti unici. Come si dice nel romanzo (ed è vero) i volumi più preziosi sono di solito quelli esoterici, e dopo di questi quelli di scherma (molti dei quali vengono citati nel testo, indicando le ricerche fatte in materia dall’autore): i primi perché venivano spesso requisiti o bruciati dalle autorità religiose, i secondi soprattutto per le numerose illustrazioni, di solito xilografie, di cui sono dotati per meglio illustrare le azioni tecniche insegnate. A questo punto chi mi conosce sa quanto il sottoscritto, abituato a cercare e studiare antichi libri di scherma per ogni dove, anche solo per questo si possa essere già immedesimato e immerso nella storia. Lucas Corso, appassionato di wargames e ossessionato dalla battaglia di Waterloo, si trova da una parte davanti al misterioso suicidio di un collezionista che era in possesso di un capitolo aggiuntivo, scritto a mano da Dumas, de “I tre moschettieri” e aveva incaricato un collega di venderlo.  Al tempo stesso viene incaricato da un altro cliente di reperire tutte le tre copie esistenti di un diabolico testo di occultismo “Le nove porte del regno delle ombre”. Le due vicende si intrecciano in modo oscuro, e Corso deve affrontare una specie di persecuzione, con avventure simili in modo inquietante a quelle del giovane D’Artagnan, compreso l’apparire di una “Milady” e un “Rocheforte”. Mentre indaga fra omicidi e insidie a Toledo, Lisbona, Parigi e Meung sui misteri del manoscritto di Dumas e del testo di occultismo, che pare sia stato scritto dal demonio stesso, conosce l’affascinante e giovanissima Irene Adler (il nome è quello della criminale che fece innamorare Sherlock Holmes) che definisce se stessa “un angelo caduto”. Senza svelare altro, consiglio senz’altro la lettura del romanzo, appassionante e pieno di amore per la letteratura in ogni suo aspetto, un gioco colto e sofisticato di rimandi continui fra i “topoi” della letteratura d’avventure classica e contemporanea.

Il film tratto dal libro per la regia di Roman Polansky, con protagonista Jhonny Depp, è godibile come intrattenimento ma non riesce a conservare nulla della raffinatezza del libro, rinunciando  all’importantissima parte che riguarda Dumas e parlando solo della ricerca del testo esoterico. Quindi i delitti degli ignoti persecutori di Corso si declassano da inquietanti e misteriose citazioni letterarie alle solite azioni malvagie del solito gruppo di antagonisti del protagonista che svolge ricerche pericolose.

D’altra parte non si sfugge alla regola che ognuno ha il diavolo che si merita.

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EL CAPITAN ALATRISTE

ottobre 9, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

“El Capitán Alatriste”, è il primo romanzo di una lunga saga di Arturo Pérez Reverte, inizialmente affiancato dalla figlia Carlota per le ricerche storiche. Lo scrittore e giornalista spagnolo per lungo tempo è stato reporter di guerra, quindi è di certo uno che sa di cosa parla quando descrive situazioni di combattimento. Oltre a ciò è un grande uomo di cultura, che non ha mai avuto paura di dire in articoli e romanzi ciò che pensa anche quando è scomodo e controcorrente, che sia a proposito dei narcos messicani (su cui ha fatto una pericolosa inchiesta), di Napoleone, dei torturatori della dittatura militare argentina, della guerra civile spagnola, dei combattimenti clandestini fra cani o delle controverse vicende della politica iberica di questi giorni.

In questa saga, portata sul grande schermo con “Il destino di un guerriero” che condensa in un solo film parecchi romanzi, e in cui Viggo Mortensen (Aragorn) presta volto e fisico ad Alatriste, Perez Reverte rende omaggio ai grandi scrittori ottocenteschi di avventura classica, primo fra tutti Dumas e i suoi “Tre moschettieri”. Il periodo è all’incirca lo stesso in cui si muovono D’Artagnan e compagni, il XVII secolo, e Alatriste vive avventure di “cappa e spada” che nulla hanno da invidiare a quelle di Dumas, insieme al suo giovanissimo pupillo basco, figlio di un compagno d’armi caduto nelle Fiandre (il narratore in prima persona). Profondamente diverso dai suoi predecessori francesi è il carattere del protagonista: un silenzioso, riflessivo e puntiglioso veterano che non esita a vestire i panni di bravaccio e assassino pur di sbarcare il lunario e che non si piega davanti a nessuno, nemmeno al Re per cui, nonostante tutto, combatte con valore. Accanto a lui si muovono figure oscure dei bassifondi della Madrid seicentesca come anche Re, nobili e poeti, primo fra tutti il grande Quevedo che di Alatriste è amico intimo. Non c’è nulla in questo fosco eroe/antieroe del brio e dell’allegria rumorosa e spensierata dei moschettieri di Francia, al contrario egli è dolorosamente consapevole del declino della sua patria e di non poter fare nulla per porvi rimedio, se non opporvisi invano affrontando il pericolo e se necessario la morte con stoica rassegnazione e con quell’ostinazione (degna del toro che – ferito – continua ad assalire la rossa muleta), che è sempre stata il segno caratteristico delle armi spagnole. Non c’è nulla di meglio per far capire la differenza fra gli eroi dei due lati opposti dei Pirenei, Alatriste e D’Artagnan, che citare il nostro Baldassarre Castiglione che, un secolo prima, aveva ben conosciuto gli uomini d’arme di entrambe le nazioni: “quella gravità riposata peculiar dei Spagnoli mi par molto più conveniente a noi altri (italiani) che la pronta vivacità , la qual nella nazion franzese quasi in ogni movimento si conosce; il che in essi non disdice, anzi ha grazia, , perché loro è così naturale e propria , che non si vede in loro affettazione alcuna…”

Non posso certo tacere sul fatto che è stata una bella scommessa scrivere storie di questo tipo oggi, nel XXI secolo, quando Dumas come Salgari, Verne, Gautier hanno tutti scritto nell’Ottocento: ci vuole coraggio a riprendere un genere abbandonato da così tanto tempo, donandogli nuova vita e freschezza, e ci vuole genio e abilità per trasformare un coraggioso bravaccio dal cuore duro ma generoso, in un grande successo internazionale.

Personalmente ho letto l’intera saga – o almeno tutti i volumi usciti fino ad oggi in Spagna – in lingua originale; ne vale la pena non solo per godere del testo originale uscito dalla penna dell’autore ma anche per la veste grafica, che ricorda da vicino le edizioni dei classici a cui Alatriste vuole dare nuova vita, con illustrazioni interne in bianco e nero che hanno riportato alla mia mente quelle dei libri che leggevo a tempi delle elementari, fino a notte tarda, con la torcia elettrica e la testa sotto le coperte per non farmi “beccare” dai genitori ancora sveglio, quelle che mettevano sotto i miei occhi affascinati in carta e inchiostro le imprese del Corsaro Nero o di Sandokan e mi spingevano a sprofondare di nuovo in una lettura febbrile, invece che nel sonno ristoratore in cui tutti mi credevano immerso.

Le avventure di Alatriste però sono state tradotte anche in italiano, per cui non perdetevele!

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AMERICAN DIRT – “IL SALE DELLA TERRA”, DI J. CUMMINS

settembre 12, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

Non tratto, questa volta, di un romanzo fantasy ma di uno realistico, molto realistico, del tutto aderente a una realtà che pure ha dell’incredibile, e al tempo stesso rischia di coinvolgerci tutti nel prossimo futuro.

Ho deciso di leggere il romanzo di Jeanine Cummins in lingua originale dopo aver visto che “American Dirt”, “Sporcizia Americana” o se si preferisce “Polvere Americana”, è stato tradotto in italiano con “Il sale della terra”, titolo che ben poco ha a che fare con quello scelto dall’autrice. Parlando della lingua, ho scelto l’espressione “in lingua originale” e non “in inglese” per un motivo preciso: questo romanzo è sì scritto in inglese, ma quasi egualmente importante per la sua comprensione è lo spagnolo, quello parlato ad Acapulco che differisce in parte da quello iberico e quello della frontiera con gli USA: il “Norte” dove molte parole non sono altro che termini della lingua inglese ispanizzati, che vanno a sostituire quelli del castigliano tradizionale. Per farvi un esempio per “discarica” in spagnolo abbiamo “vertedero” ma nel “Norte” troviamo invece “dompe”, da “dump”, così come per “pranzo” abbiamo non “almuerzo” ma “lonche”, da “lunch”, tutte espressioni che sorprendono perfino la protagonista, appartenente alla classe media messicana. Naturalmente il romanzo è perfettamente leggibile in inglese anche da chi non parlasse spagnolo, ma ci sono delle nuances e interferenze fra le lingue ai lati di quella “frontiera di cristallo” (per citare la canzone dei Calexico) che solo chi conosce entrambe le lingue può apprezzare appieno.

Ho iniziato parlandovi della lingua ma ora, invece, voglio che sia chiaro che si tratta di un libro assolutamente coinvolgente e pieno di suspence: lungi dall’essere una lettura faticosa e impegnativa, dall’inizio nel pieno dell’azione e lungo tutta una corsa infinita e affannosa per salvarsi la vita, seguiamo i protagonisti facendo fatica a staccare gli occhi dalle pagine che si susseguono, dritto fino all’ultima pagina.

Ci troviamo subito catapultati fra le pallottole che devastano il bagno di una casa borghese messicana, dove un bimbo e sua madre si nascondono dai “sicarios”. Era in pieno svolgimento la festa di compleanno di una quindicenne, che aveva riunito una famiglia allargata: nonni, zii, cugini… tutto è stato brutalmente interrotto dall’incursione di una banda di narcos – o piuttosto da un commando, parte di un vero e proprio esercito che domina la città, un tempo turistica e sicura, di Acapulco. E’ una strage. Solo Lydia e suo figlio Luca di otto anni, chiusi in bagno, si salvano, assistendo all’esecuzione di tutti i loro cari, compreso il padre e marito Sebastián. Eppure i veri bersagli, oltre a Sebastián, un giornalista locale, erano proprio loro. Lydia e Luca non si possono fidare della polizia, infiltrata dai narcos, non possono usare carte di credito, non possono restare a casa o andare da amici, che verrebbero esposti a una morte immediata, di parenti non ne hanno più.

In un tempo presente in terza persona concitato e incalzante ci chiediamo con Lydia cosa fare per sfuggire alla morte, come nascondersi, dove dirigersi, in una città dove mille occhi e mille orecchie sono al servizio della banda immaginaria – ma uguale a tante altre simili e davvero esistenti – de “Los Jardineros”. Apprendiamo che in molte zone del Messico ormai ci si sposta da una città all’altra solo in aereo, perché le strade sono troppo pericolose e i treni sono solo treni merci, dal momento che non era più possibile trasportare passeggeri garantendo la loro incolumità. Lydia, laureata e proprietaria di una libreria, si trova così a mendicare un passaggio, dormire fra i senza tetto, viaggiare a piedi e mimetizzarsi fra gli immigrati irregolari del Centroamerica, subendo le stesse angherie e affrontando gli stessi pericoli.

A livello umano, non importa che voi siate per aprire i vostri confini o per i blocchi navali e i muri anti-immigrazione, credo che nessuno possa esimersi dal condividere tutto ciò che queste persone vivono nella loro carne viva e nei tremori della loro mente.

Parallelamente, se all’inizio pare che la causa del massacro sia semplicemente un articolo di Sebastián a proposito dei Jardineros, a poco a poco emerge una realtà più complessa e inquietante, dove il male e il pericolo possono trovarsi anche nelle vesti più apparentemente miti e acculturate.

Per tutto il tempo una sottile paura si infiltra nel lettore, che si rende conto come la sua propria realtà, in qualunque paese egli viva, si vada lentamente muovendo nella direzione dell’inferno in terra descritto da Cummins, un inferno orribilmente vero. Chiunque di noi viva una vita normale, che lavori in un giornale o gestisca una libreria, rischia ogni giorno di più di sfiorare quel mondo spietato che avanza e che, come dice Cormac Mc Carthy, non si può fermare. E’ innegabile che la società, nelle Americhe come in Europa e altrove, si stia spostando verso il “modello messicano”.

Raramente ho trovato thriller più coinvolgenti di questo romanzo mainstream vero-simile.

E su questa parola da me artificialmente divisa in due con un trattino, non posso esimermi dal riservare qualche parola alla polemica “poltically correct” che ha investito “American Dirt” negli USA. Nonostante tutto il lavoro di interviste, informazioni, immedesimazione (anche, in parte, per la scrittrice, un’identificazione a livello di storia familiare), nonostante tutta la comprensione verso gli irregolari che tentano avventurosamente di passare il confine, un movimento di benpensanti che qui non nominerò nemmeno ha ritenuto di lanciare una “fatwa” che ha intimidito perfino l’appoggio in un primo momento entusiasta di autori come Stephen King, Don Winslow e molti altri.

Il peccato originale della scrittrice sarebbe semplicemente di non essere messicana o almeno “latina”, mentre i suoi protagonisti e la maggior parte degli altri personaggi lo sono. Secondo questa “corrente culturale” che opera per mezzo di un vero e proprio bullismo, solo se sei di colore puoi permetterti di scrivere di persone di colore, lo stesso vale, appunto, per i “latinos” e così via per ogni altra minoranza. Altrimenti quel che scrivi non può essere “autentico” e perciò non ha valore.

Ora, per prima cosa vorrei segnalare a costoro che il concetto di “autentico” non ha vera cittadinanza in letteratura.

Personalmente credo che non ne abbia nemmeno nel giornalismo o nella saggistica storica: l’autenticità di un fatto non la conosce nemmeno chi era presente, posto che lo ha comunque vissuto solo da un certo punto di vista e non da tutti gli altri. In ogni narrazione, inoltre, è l’autore che dà importanza a certi aspetti più che ad altri, sottolinea o trascura, distorcendo la cosiddetta “autenticità” di quel che racconta. In breve, l’autenticità non esiste.

Per la letteratura, poi, le cose sono ancora più estreme: a mio modo di vedere l’autenticità non solo non esiste ma non deve nemmeno essere cercata. La letteratura è al tempo stesso realtà e immaginazione, inestricabilmente legate e mischiate, e questo sia che si stia descrivendo un mondo di fantasia in un romanzo sci-fi o fantasy sia che si stia ri-creando un’ambientazione “reale” o piuttosto realistica (anche Lydia, Luca e Los Jardineros non esistono, sebbene possano esistere nel nostro mondo, e senza dubbio sono esistite, esistono ed esisteranno persone simili a loro).

Se manca la realtà, la “vita vera” (come quella che ho faticosamente cercato di dare a un mondo fantastico nel descrivere, combattimenti, tattiche, esperienze sul campo ecc. nella saga di “Per la Corona d’Acciaio” tentando nei limiti del possibile di farne esperienza diretta), oppure se manca l’immaginazione creativa, un’opera letteraria non può dirsi propriamente tale.

Ci tengo a sottolineare il profondo razzismo del movimento che ha criticato “American Dirt” e J. Cummins. Credo fermamente che ogni essere umano si possa identificare in ogni altro essere umano e possa comprenderlo, a prescindere dall’appartenenza etnica o sociale o dal genere. E’ questo che ci rende un’unica specie, che ci dà un destino comune e una solidarietà umana che va – che deve andare – al di là degli steccati. E’ l’empatia, non una chimerica autenticità, che la letteratura, da sempre, insegna. Se si crede invece che ognuno possa riflettersi solo nei “suoi”, nella sua piccola tribù, allora in questa ottica piccina e rancorosa forse le altre “tribù” non dovrebbero nemmeno esistere, forse andrebbero semplicemente sterminate. Questo è il cammino che i signori socialmente arrabbiati di cui sopra hanno intrapreso, il cammino che porta in ultima analisi a eventi che purtroppo abbiamo già dovuto vedere nella nostra storia non troppo tempo fa. Invece è profondamente giusto e utile che una scrittrice nordamericana vesta i panni di una protagonista “latina”, che sia lei stessa, mentre scrive, intimamente una libraia di Acapulco, come è senz’altro giusto e utile il contrario. Perché se non si vuole che i “bianchi” possano “permettersi” di scrivere di “latinos” o di persone di colore, è come dire, francamente, che un nero o un messicano non possono permettersi di scrivere della vita dei “bianchi”. Formulando questa posizione al contrario, eppure identica, finalmente si comprende quanto essa sia profondamente ignobile e disumana.

Essendovi dunque scrollati di dosso tutta questa assurda polemica come un fastidioso insetto, siate liberi di aprire la prima pagina di “American Dirt” scevri da pregiudizi e di immergervi in una corsa ansiosa e disperata per tenere lontano vostro figlio dalle pallottole e dai machete dei Jardineros. Non mi resta che augurarvi buoni incubi.

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TERRA NOVA

luglio 15, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

 

 

Terra Nova di Caterina Franciosi è un romanzo di fantascienza distopica. Vi confesso che il genere, nelle sue ultime declinazioni, non mi entusiasma. Non più. Il mitico “1984” di Orwell nella mia giovinezza mi segnò lasciandomi depresso e con molta rabbia frustrata in corpo, e vale certo la pena di soffermarsi su classici “distopici e dispotici” ancora più antichi come “La Repubblica” di Platone, o le opere che vogliono essere utopiche di Moro, Campanella ecc… (che Caterina Franciosi fa citare ai suoi governanti), dove si vede come ogni utopia inevitabilmente e inconsapevolmente sfoci nella distopia.

Però negli ultimi anni si è visto molto materiale anche di successo che non esito a definire scadente. Si assiste a ripetizione alle vicissitudini di rimasugli di genere umano divisi in rigide caste (poveri buoni oppressi e affamati – ricchi cattivi oppressori e spreconi), dove la massa dei diseredati non può che aspettare – nella totale incoscienza dell’ottusa classe dirigente – che l’eroe o più spesso l’eroina di turno scateni la giusta ribellione. Si ripropongono stancamente i “soliti” stereotipi della “solita” lotta di classe, riciclata in mondi post-atomici o fra le stelle. Che ci si trovi in città circondate da mura che le difendono dal nulla, in distretti separati da estensioni di territorio disabitato e sfruttati dalla perfida capitale, o perfino su treni che sfrecciano a velocità folle, l’unico modo per generare energia (???) e sfuggire ai rigori di una nuova glaciazione (“e le valanghe?” si chiede subito uno… ma così si spoilera!), in ogni caso la verosimiglianza e la logica latitano.

In questo panorama piuttosto desolante Terra Nova è una piacevole eccezione.

New Beacon è il pianeta dove l’umanità, grazie alla flotta spaziale Mayflower II, ha trovato rifugio dopo aver reso inabitabile la vecchia Terra. L’autrice ci mostra un mondo ad alta tecnologia, con un governo molto occhiuto e parecchia povere sotto il tappeto. Ma ogni cosa ha senso e si spiega: New Beacon è stato segnato dagli errori del passato e dalla volontà di non ripeterli, oltre che dalle necessità dell’esodo e della colonizzazione. Ovviamente un simile progetto di ricollocazione del genere umano ha richiesto che la popolazione accettasse un governo autoritario, quasi militare, come tutto sommato è normale che sia dopo aver vissuto un’odissea spaziale e il lungo processo di terraformazione di un pianeta alieno. Ho davvero apprezzato come ogni proibizione, ogni imposizione del Triumvirato abbia una spiegazione logica e sia quasi ragionevole dati i traumi del passato, le esigenze della situazione e le caratteristiche del pianeta che ora l’umanità abita, domato grazie alla tecnologia ma non certo piacevole per noi umani.

Eppure, come spesso avviene, istanze inizialmente ragionevoli e l’esercizio stesso del potere hanno portato a una situazione ovattatamente oppressiva… e infatti puntuali arrivano le citazioni orwelliane di Caterina Franciosi.

Al contrario che di fronte allo Stato del Grande Fratello, però, qui non tutto è disperazione: l’uomo che riesce a perseguire la verità e a trovare uno spazio di libertà anche solo dentro di sé, come il Lucifero di Milton, può essere capace di un colpo di coda contro il potere. Infine, può perfino trovare – altrove – una via di fuga verso una vita più autentica, selvaggia ma libera, l’ultimo urlo di un “carpe diem” ribelle e fiero che parla alla nostra anima e le dice che vale sempre la pena alzarsi in piedi, rifiutare di inginocchiarsi, che anche solo un attimo di gioia e libertà ha comunque valore perché ciò che è stato non sarà mai perduto.

 

 

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“PER LA CORONA D’ACCIAIO”: UN ROMANZO STORICO?

maggio 2, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

 

Ringrazio di cuore un lettore che ha recensito il mio romanzo, manifestando una certa delusione per la mancanza di magia, e per una scarsità di azione nei capitoli centrali. Se si aspettava, come pare, un tipico romanzo “di genere” tutto e solo azione, fantasia e magia, questo lettore non ha trovato ovviamente quel che cercava. Intendiamoci, io adoro l’azione, ma essa non è il “cuore” di questo romanzo, che pure ne è pieno. Essa è piuttosto una gradita ancella di temi più profondi, e un’esca per convincere il lettore a specchiarsi nella vicenda. In altre storie, come quelle dei Pretoriani Neri, mi diverto a giocare con l’azione, e anche con la magia, con draghi e grifoni e navi volanti. Tuttavia non ritengo la magia un fattore indispensabile della letteratura fantastica. Un nume del Fantasy come Joe Abercrombie, pare pensarla come me su questo tema: indicatemi che magia si possa mai trovare, per esempio, nella “Trilogia del Mare Infranto”, di cui di recente ho consigliato la lettura.

“Per la Corona d’Acciaio” è qualcosa di diverso. Essere qualificato come “una sorta di Bernand Cornwell in un un contesto inventato”, come scrive questo lettore, è per me un grande complimento. In questa saga in effetti mi rifaccio non tanto al genere Fantasy, ma piuttosto a scrittori di avventura classica e di romanzi storici come appunto Cornwell, Perez Reverte, fino ai classici di Dumas, Salgari, London, Kipling, Conrad. Ma anche a scrittori “alti” (e forse più “noiosi”, da un punto di vista “di genere”) come Ernst Junger e Julien Gracq. Prosegue il lettore “non dovendo essere fedele alla storia reale, poteva evitare certe parti noiose, spesso necessarie in romanzi storici per essere fedeli, ma che qui potevano essere sostituite…” In effetti, come il lettore ha in parte intuito, “Per la Corona d’Acciaio” è assolutamente un romanzo storico, in essenza. Con tutte le esigenze di analisi storica e realismo che ciò comporta, e con l’unica differenza che tratta di una storia che avviene non nel nostro mondo ma in uno simile e parallelo. Come in Junger e Gracq, il contesto inventato è una scusa per poter variare gli avvenimenti liberamente servendo a uno scopo, nel mio caso parlare di fatti dell’anima e di leggi storiche che riguardano noi, il nostro mondo e la nostra condizione di esseri umani. La vicenda segue tutte le regole politiche, sociologiche ed economiche che condizionano la Storia, le dinamiche del potere e forse anche quelle del Fato, che i lettori scopriranno un po’ alla volta e che sono poi le stesse del mondo reale, non meno stringenti. Ecco perché era necessario un “rallentamento” dell’azione nella parte centrale, per poter dedicare spazio a un’analisi della situazione del regno di Malia e alle soluzioni (anche legislative e perfino fiscali) che i protagonisti adottano. Essi devono, infatti rimediare ai fattori che hanno portato alla caduta che essi si sono trovati a dover vivere, e porre in alto la “svolta” che la situazione politica richiede. Ugualmente c’era bisogno, in precedenza, di lasciare un po’ di spazio al sorgere nelle loro menti delle soluzioni che poi adotteranno: proprio come deve avvenire in un romanzo storico che funziona bene, se i protagonisti sono personaggi reali dotati di poteri decisionali, e realizzano appunto una svolta storica. La parte centrale del romanzo che tratta questi temi è stata particolarmente apprezzata da altri lettori, per aver affrontato il tema di come, una volta conquistato il potere, lo si vada a gestire, cosa che molti Fantasy (a volte con una visione un po’ più superficiale) trascurano. Quel che mi frustra nel romanzo storico vero e proprio è invece che il lettore possa già conoscere come la vicenda finirà, mentre a Malia le praterie del futuro sono aperte e la tensione è maggiore: qualunque cosa può accadere… e ne accadranno di ogni tipo! Tornando a noi, quindi, una critica dettata da aspettative “di genere” è “iuxta sua propria principia”, per me invece essa costituisce un grande complimento: con questa saga non voglio fare “letteratura di genere”, voglio fare letteratura! E credo che il genere Fantasy si presti a questo alto scopo (perdonatemi l’ambizione), quanto e più di altri.

Marco Rubboli

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“MERDACCIA”

aprile 23, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

“Merdaccia” è un racconto di Angelo Berti che Watson Edizioni mette a disposizione dei lettori gratuitamente per il periodo di reclusione forzata da pandemia. E davvero vale la pena dedicare uno scampolo del vostro tempo a leggerlo. L’atmosfera decisamente fantozziana evocata dal titolo è una promessa che viene sostanzialmente mantenuta, sia pure in una cornice sci-fi dedicata ai viaggi nel tempo. Di solito il viaggiatore del tempo nei romanzi e nei racconti dedicati a questo tema è un protagonista eroico, o per lo meno un testimone di eventi passati o futuri che riesce a rendersi conto di molte cose prima di tornare al suo tempo. Qui non è necessariamente così: venire precipitati in un’altra epoca, in un luogo e un momento a caso, senza parlare la lingua e conoscere gli usi, non è un procedimento sicuro. Quanto al tornare nella propria epoca, il procedimento non è di certo indolore! Il racconto, in prima persona, ricrea tutta la feroce ironia e il divertimento del Fantozzi di Paolo Villaggio, ma anche il “tragico” pessimismo di fondo e l’amarezza dell’originale. Se le sventurate peripezie del protagonista sono ben più avventurose di quelle del famoso ragioniere… non si rivelano meno disastrose. Il finale è a sorpresa. Non una sorpresa gradita per il nostro povero “eroe”. Da merdaccia, insomma.

 

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I33 VALPERG

aprile 23, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

 

“I33. Valperg” dell’amico Michele Gonnella, primo esempio del genere “Sword & Apecar”, è il romanzo che mi ha accompagnato negli ultimi giorni di “arresti domiciliari pandemici”… e con grande divertimento! Assolutamente da non perdere per i praticanti di HEMA (“Historical European Martial Arts”, secocdo la denomiazione della famigerata Coalizione Nordeuropea, che nella regia lingua del nuovo regno d’Italia diventa “Scherma Storica”), ma non solo. Il romanzo prende le mosse in un retrogrado 2035 post-bellico da un paio di “sfigati” studiosi di archeologia sperimentale della Regia Università di Lucca che, per approfondire lo studio di un antico manuale di scherma e capire perché questo tratti solo dell’atipica (per tempi così remoti) disciplina di spada e brocchiero, iniziano a prendere lezioni di scherma storica da una maestra di arti marziali, Iride Santini detta “Santa”. L’I33 è un manoscritto realmente esistente, ad oggi il più antico disponibile, pubblicato in Italia da A. Morini e R. Rudilosso della Sala d’Arme Achille Marozzo per la casa editrice Il Cerchio. Le vicende dei nostri eroi si intrecciano con quelle degli antichi autori del manoscritto, in particolare la “Santa” Valperg, figlia di un crociato e di una strega convertita ma non pentita (nel ms reale effettivamente il maestro monaco guerriero viene raffigurato anche mentre insegna a una donna, chiamata “Valpurgis”). Per esigenze di trama il vero manoscritto viene retrodatato di qualche secolo, artificio necessario per situare la vicenda ai tempi in cui il cristianesimo lottava contro gli ultimi pagani (e soprattutto contro i loro Dei… o demoni che fossero) nelle terre del centro e nord Europa. L’autore ci narra, nel suo stile sempre ironico, pieno di brio e vivacità, come la strana famiglia di Valperg sia riuscita a prevalere nella sua lotta senza quartiere contro un’entità feroce e guerriera proveniente da un’altra dimensione, dai molti nomi (alcuni dei quali corrispondono a ben note divinità celtiche e germaniche). Parallelamente, il trio dei protagonisti del 2035 si trova ad affrontare una minaccia che è simile in modo inquietante a quella contro cui si è battuta l’antica suora guerriera. Lo scontro li condurrà in fuga su per i greppi abbandonati della Lucchesia collinare, frequentati solo da anziani relegati in ospizi e pochissimi abitanti. Per lo meno pochissimi abitanti umani. Al lettore scoprire se la moderna Iride “Santa” Santini saprà uguagliare le imprese di Santa Valperg, monaca, strega e guerriera. Fra botte da orbi, lame, brocchieri, demoni guerrieri, folletti schizzinosi e antichi manoscritti, il divertimento è assicurato.

 

Qui sotto: la copertina dell’edizione italiana del vero manoscritto I33, a cura di Andrea Morini e Riccardo Rudilosso per ed. Il Cerchio

 

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LA TRILOGIA DEL MARE INFRANTO

aprile 2, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

Come sanno i miei trenta lettori di solito recensisco opere di autori italiani: trovo che sia più utile indirizzare i trenta di cui sopra verso romanzi o antologie meritevoli ma che al tempo stesso non godano già di grande fama e successo di pubblico, e d’altra parte non mi sembra appropriato che il sottoscritto si metta a recensire (e quindi in un certo qual modo giudicare) i classici e i grandi autori del passato. Abercrombie però con questa trilogia che ho appena finito si merita davvero una menzione. Avevo letto “Il mezzo Re” l’anno scorso, e me lo ero proprio gustato. Il romanzo è ambientato nel Mare Infranto, una regione popolata di regni “vichinghi” che sono sorti sulle rovine di acciaio, vetro e cemento dell’antico popolo degli elfi. E’ la storia del mite principe Jarvi, secondogenito del re del Gettland che anela a una vita tranquilla come “ministrante”, ossia membro di una casta dedita alla conoscenza e a consigliare ai regnanti l’ambigua via del male minore e del bene maggiore. Jarvi infatti ha una malformazione al braccio sinistro, di dimensioni ridotte e atrofizzato, che gli proibisce una carriera da guerriero. Tuttavia il destino e macchinazioni machiavelliche di cui non è cosciente lo catapulteranno per strade del tutto diverse e molto pericolose, fra incursioni, pirati, schiavi e re guerrieri, costringendolo a cambiare e indurirsi. Non vi posso dire di più, perché i colpi di scena non mancano. Finita la lettura mi ero precipitato ad acquistare gli altri due volumi: “Il mezzo mondo” e “La mezza guerra”, i quali tuttavia mi sono subito stati requisiti dai figli, che nel frattempo avevano letto il primo romanzo. Nel frattempo, come succede, la fila degli altri libri da leggere era cresciuta. Ho ripreso la trilogia in questi giorni e me la sono tracannata furiosamente. Un aspetto veramente interessante, che mi ha colpito, è che ogni volume è scritto dal punto di vista di uno o più personaggi diversi dal protagonista del precedente: nel secondo seguiamo l’aspirante guerriera Thorn Bathu, incline a cacciarsi nei peggiori guai possibili, e il suo ingenuo avversario/amico Brand, salvati entrambi da morte certa proprio per opera di Jarvi, che li trascinerà fino ai confini del mondo. Nel terzo invece il punto di vista principale è quello della principessa adolescente Skara, signora di un regno devastato e occupato dal nemico, e di Raith, un giovane assassino albino del popolo Vanster, potente ma infido alleato di Skara e del Gettland. Ogni volta i protagonisti dei romanzi precedenti sono ben presenti, ma vengono visti dai nuovi personaggi in una luce di spietata venerabilità per la gloria delle imprese passate: essi ne percepiscono – dall’esterno – i lati più minacciosi e feroci, non sono consapevoli dell’umanità di quelli che considerano possenti e feroci eroi, e di come anche loro si sono trovati in precedenza (e continuano anche ora a trovarsi) a subire i loro stessi dubbi e patemi.
Se nei primi due romanzi l’aspetto del viaggio di formazione modello Odissea prevale su quello bellico, nel terzo (come annunciato dal nome del libro) tutti i nodi vengono al pettine e il Mare Infranto brucia nel più grande conflitto dai tempi della caduta dei misteriosi ed estinti elfi, il cui “segreto”, intuito da tempo, verrà del tutto svelato.
Non posso chiudere senza segnalare l’analisi profonda e spietata della psiche umana, delle dinamiche sociali e soprattutto del potere che si trova in questa trilogia, temi sui quali provo una profonda comunanza con quanto espresso dall’autore, e che cerco di affrontare anche nei miei scritti. Un’altra somiglianza è che anche qui il lettore non troverà traccia di magia, mostri e simili: ci sono solo uomini e donne a confronto con situazioni estreme e con le bestie più pericolose di tutte: i loro simili.
Vi si trovano, su questi temi, parecchi aforismi e perle di spietata saggezza dei popoli del Mare Infranto che da soli varrebbero a consigliare la lettura. Ve ne voglio proporre qui solo alcuni fra i tanti:
“Lasciamo che Padre Pace versi lacrime sui metodi. Madre Guerra sorride dei risultati.”
“Il mondo è pieno di mostri. Forse la cosa migliore che possiamo sperare è avere quello più terribile dalla nostra parte.”
“Il segreto per mantenere l’autorità è dare solo gli ordini che sai verranno obbediti.”
“Una buona spada si sguaina di rado.”
“La fiducia è come il vetro. Gran bella cosa, ma solo uno sciocco vi appoggia un fardello pesante.”
“L’uomo che trova da combattere ovunque molto presto si ritroverà con un combattimento di troppo.”
Chiudiamo con una nota di ottimismo, merce rara nel Mare Infranto:
“Offri agli uomini l’occasione per essere migliori, e la maggior parte di loro vorrà coglierla.”, e “Non si cambia il giorno di ieri. Puoi solo cercare di fare meglio domani”.
Perché tutto sommato in fondo la vita umana non è altro che “Da nulla a nulla. Ma quale viaggio, dall’uno all’altro!”

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ETERNAL WAR

marzo 25, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

In questo “Dantedì” 25 marzo 2020 vi parlo della mia lettura più recente: Eternal War di Livio Gambarini, ed. Acheron Books. Anche questo è un fantasy storico, sempre nel senso opposto al mio “Per la Corona d’Acciaio”: presenza di magia ed esseri fantastici ma in ambientazione reale, in questo caso ancora Firenze. La vicenda però si svolge parecchio tempo prima di quella di “Gens Arcana” di Cecilia Randall di cui vi ho parlato poco fa: non siamo infatti ai tempi di Lorenzo il Magnifico ma in quelli di Dante, e precisamente dalla battaglia di Montaperti a quella di Campaldino. L’autore ha osato molto: il protagonista è niente di meno che il poeta e guerriero Guido Cavalcanti! Ovviamente accanto a lui ci saranno i giovani Dante Alighieri e Beatrice, Lapo e Farinata degli Uberti e tanti altri personaggi di quell’epoca straordinaria. Accanto a loro, e parallelamente a loro, lottano sul piano dello Spirito i loro spiriti ancestrali: entità che vegliano ognuna su una specifica famiglia, composte dall’essenza di tutti i Pater Familias del passato. Nel loro mondo si muove una quantità infinita di entità come i Santi Patroni, i terrificanti Estinti dell’antica Roma, spiriti selvaggi, i Genii Loci di palazzi e case e perfino divinità pagane come le Muse. Ognuno di essi svolge un ruolo nella guerra eterna fra Guelfi e Ghibellini e nei conflitti che dividono fra loro le varie stirpi: si combatte tanto nel mondo visibile della Materia quanto in quello invisibile dello Spirito. In tutto ciò, fra battaglie, agguati e intrighi che sia uomini che spiriti si tendono l’un l’altro, spicca la figura eroica e magica di Guido Cavalcanti, su cui il suo spirito ancestrale Kabal ha scommesso tutto per riportare in auge la sua famiglia rovinata dalla sconfitta a Montaperti. Non mancheranno sorprese, scontri, amori e colpi di scena, e avremo il privilegio di assistere “in diretta” alla nascita del Dolce Stil Novo. La ciliegina sulla torta sono le citazioni dei sonetti del tempo, che mi hanno spinto a sfogliare di nuovo qualche bella pagina antica studiata molto, troppo tempo fa. Che ne dite, la sfida vi attira?

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