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LA GIOSTRA DI FLORA – III

gennaio 27, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Parte Terza

Parte Terza

L’ultimo giorno la giostra non si svolgeva sulla piana fuori le mura come le fasi iniziali, ma nell’antico Teatro della città che si ergeva a metà strada fra il paese e l’Acropoli, scavato nel fianco della collina rocciosa di Ertapietra. Mi avevano riferito che il Teatro risaliva agli antichi Isolani che avevano colonizzato Tiria molto secoli or sono. Lo usavano per mettere in scena le loro tragedie. Poi con i Mitoien le gradinate più basse erano state rimosse e il Teatro era stato adibito anche ai giochi gladiatori e alle venazioni di belve feroci.

Galeazzo e io ci eravamo accodati ai Gallessani, così risalimmo le ripide vie della cittadella e ci arrampicammo sul sentiero sassoso che conduceva al Teatro, sempre seguendo la tetra testa di lupo in campo rosso dei Maravoy. Dietro di noi avanzavano gli alfieri dei Campofiorito, drappeggiati nelle loro vesti e bandiere bianche e rosse.

Poi mentre i contendenti entravano dalla porta principale che dava sulla scena con i loro paggi e scudieri, noi e tutti gli altri accompagnatori salimmo gli scalini sulla destra e prendemmo posto sulle gradinate.

Le enormi colonne della scena da lassù parevano svelte e snelle; fra l’una e l’altra si intravedeva il mare d’un blu scurissimo. Laggiù galleggiavano alla rada le galee dei nobili convenuti, circondate dalle barche dei pescatori quasi come imponenti cigni attorno a cui si accalchino degli anatroccoli. Dall’altro lato si poteva ammirare l’alto vulcano innevato che si innalzava a non troppa distanza, e che alcuni dei signori presenti al torneo avevano visitato a cavallo nei giorni precedenti la disfida, accompagnando le loro dame.

“Si dice in giro” mi informò Galeazzo “che in quell’occasione Lyonel Maravoy abbia potuto parlare a lungo con Demetra di Mykenes, e che sia lì che è scattato qualcosa fra i due. Qualcosa che però, a quanto pare, il padre della damigella Isolana non approva del tutto. Lyonel è un magnifico signore, un ottimo partito anche per una Principessa delle Isole. Però fra gli Isolani la distinzione fra nobili e popolani è molto più sfumata che da noi, figurarsi in confronto a quegli altezzosi Gallessani. Forse l’Autarca teme che la figlia possa essere considerata di rango inferiore dai nobilastri di Gallesse, e quindi disprezzata.”

Lo spazio disponibile per i cavalieri in lizza non era tanto vasto quanto nella piana, quindi avrebbero dovuto partire subito lanciati alla massima velocità: non c’era tempo per accelerare gradualmente, né per rimediare a un errore.

Per primo gareggiò Lyonel Maravoy contro un Principe Isolano: il figlio dell’Autocrate di Zakinthos. Si colpirono a vicenda sullo scudo, spezzando entrambe le lance, ma nessuno dei due cadde. Allora sguainarono le spade e presero a tempestarsi di colpi girandosi intorno. Ognuno tentava di mettersi in posizione di vantaggio, cercando il lato sinistro dell’avversario. Gli zoccoli dei destrieri tormentavano l’arena del campo, gli scudi si riempivano di ammaccature. A un certo punto Lyonel colpì l’Isolano al petto con lo scudo, precipitandolo giù di sella. Cavallerescamente l’Erede di Castelbrun scese anche lui e attese che l’altro si alzasse. Si affrontarono a piedi. La lotta non fu breve: entrambi erano giovani, abili e forti, e nessuno voleva cedere. Ma, preso dalla foga, il nobile di Zakinthos scoprì la mano tirando un mandritto. Maravoy fece scattare la sua lama, e gli inchiodò il palmo della destra. L’Isolano lasciò cadere la spada e alzò le braccia in segno di resa. Lyonel rinfoderò la sua lama e fu il primo a soccorrerlo. Non c’era sangue, ma il Principe di Zakinthos faceva fatica a chiudere le dita per il dolore della botta. Prima che il ferito fosse portato via il Gallessano andò ad abbracciarlo. Nessun rancore, erano entrambi gentiluomini e ognuno aveva potuto avere un assaggio del valore dell’altro.

Ancora una volta Lyonel prima di lasciare il campo camminò fino alla zona dove stavano i signori di Mykenes e rese omaggio alla damigella del suo cuore.

“Bello!” disse Galeazzo, quasi stendendosi sul marmo del sedile “Hai visto che ha imitato quello che hai fatto tu prima a Claudi? Sarà un ottimo allievo.”

“Io non ho tirato una punta, ma un colpo di filo falso.” puntualizzai.

“Bah, cambia poco, l’azione era quella.” rispose il mio amico con un gesto come a scacciare delle mosche fastidiose.

Fu la volta di altri combattenti, e poi toccò a Claudi de Naute-riu.

“Se vince, poi dovrà combattere col suo signore.” osservò Galeazzo.

Alzai un sopracciglio.

“Davvero? Non mi sembra una bella cosa. Non potevano smistarli in modo diverso?”

Lui fece spallucce.

“La scelta degli scontri è casuale: un sacerdote estrae a caso le sorti di ognuno.”

“I sacerdoti sono dei vecchi marpioni abili di occhio e di mano, e per lo più corrotti.” risposi, insinuando un dubbio sulla correttezza della scelta. Ne sapevo qualcosa, io, dei trucchi di Stregoni e sacerdoti.

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LA GIOSTRA DI FLORA – I

novembre 29, 2019 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Parte Prima

I destrieri da guerra lanciati uno contro l’altro sudavano copiosamente sotto il sole spietato dell’isola di Tiria. I loro manti erano lucidi per lo sforzo. Anch’io ero madido. Mi asciugai la fronte col dorso della mano. Il cavaliere a sinistra era un Gallessano, sullo scudo una testa di lupo nera in campo rosso. Da destra si precipitava contro di lui il figlio di un ricchissimo mercante locale, un tale Salvatore Ranieri originario proprio di lì, di Ertapietra. Sulla sua rotella la testa feroce di una Furia dai lunghi canini. Il Gallessano all’ultimo si spostò di lato, e si scontrarono con un gran fragore. Avevo visto quello spettacolo parecchie volte, ma non cessavo di stupirmi della violenza degli urti che i contendenti si scambiavano. Solo l’abilità dei migliori armaioli poteva impedire che questi cavalieri morissero come mosche quando praticavano la loro attività preferita. Io, dal canto mio, avrei preferito affrontare dieci sgherri armati in un vicolo che fare una roba del genere. La lancia del mercante strisciò sullo scudo del Gallessano e aprì una sorta di cicatrice color acciaio sul muso del lupo che vi era raffigurato. Ma l’arma di quel Lyonel Maravoy invece colse il suo avversario in pieno petto, appena sopra al bordo della rotella. Per un istante l’asta di legno di frassino arrivò a curvarsi, mentre il pubblico tratteneva il fiato. Poi la cinghia sottopancia del cavallo del contendente locale cedette, e lui fu proiettato indietro. Salvatore Ranieri cadde nella polvere con tutta la sella. Maravoy si ritrovò lanciato avanti, ma subito tirò le redini di lato, fece girare il destriero su se stesso e balzò giù. Non si curò di armarsi ma accorse presso il suo avversario, per controllare se fosse ancora vivo. Quello era scosso, ma stava già cercando di liberarsi delle staffe e rialzarsi. Il Gallessano gli porse una mano però l’uomo di Tiria lo scacciò via, quasi in malo modo. Ranieri non aveva intenzione di arrendersi, anche se sul suo pettorale era evidente una grande ammaccatura centrale. Strano che non si fosse rotto delle costole, pensai, era stato fortunato. Mentre il giovane arrancava per rialzarsi Maravoy tornò al suo destriero ed estrasse la spada, il cui fodero era fissato alla sella. Fece un paio di molinelli per sgranchirsi il polso, che doveva aver subito il contraccolpo della botta di lancia, e si mise in guardia protendendo lo scudo. Aspettò con calma che il suo avversario fosse pronto. Intanto intorno a loro si andavano radunando giudici di gara, sergenti e araldi. I duellanti iniziarono a studiarsi, scambiandosi qualche colpo cauto. Il giovane mercante fece una finta sopra lo scudo e tagliò un mandritto alle gambe, ma Lyonel Maravoy balzò indietro sottraendosi al colpo. Poi fu lui ad attaccare: tentò di girare prima a sinistra e poi a destra dell’avversario rifilandogli al contempo ben quattro botte, che però il contendente locale riuscì sempre a parare o a schivare. Dopo aver ripreso fiato il ricco mercante si lanciò avanti con un roverso alto. Scelta infelice, osservai fra me e me. Il Gallessano ne approfittò subito: parò di spada, spinse l’arma di Salvatore Ranieri alla propria destra senza lasciarla andare, fece un passo avanti col piede sinistro e colpì di punta all’interno del braccio destro del mercante. La lama, pur smussata, si infisse nel bicipite. Il pubblico poté vedere la giubba imbottita del cavaliere di Ertapietra intridersi di sangue, che poi stillò a terra in grosse gocce. Due sergenti si gettarono in mezzo impugnando le partigiane e li separarono. Era finita. Maravoy alzò le braccia in segno di trionfo. Il perdente si tolse l’elmo rivelando un’espressione di dispetto, poi fu costretto a stringere la mano al vincitore, sia pure con una stizza che non tentò affatto di celare. Anche se lo sconfitto era un mio compatriota, o quasi, la sua scortesia mi aveva spinto a parteggiare per lo straniero. Così, pur senza esultare troppo, mi concessi un sorriso di soddisfazione. Ad ogni modo Maravoy si era dimostrato superiore sia a cavallo che a piedi, aveva meritato la vittoria e i festeggiamenti che i suoi vassalli gli stavano tributando in quel momento. In realtà per un popolano era già molto essere arrivato fino a quel punto della giostra: quel giovane mercante poteva essere contento della propria abilità con le armi. Un po’ meno della mancanza di gentilezza che lo aveva contraddistinto. A lui sarebbero state riservate adesso le cure del cerusico.

Messer Maravoy fece allora qualcosa di inaspettato: estrasse da una borsa della sella un drappo di tessuto prezioso con il blasone dei Conti di Castlebrun e camminò verso il palco dove stavano gli spettatori della nobiltà.

Poi lo baciò, e lo lanciò a una giovane dama. Era un gesto molto impegnativo. Mi sforzai di vedere chi fosse, ma era troppo lontano. Però ero curioso, quindi mi feci largo tra la folla.

La damigella che stringeva il drappo era una bellezza, aveva lunghi capelli castani e grandi occhi azzurri. Aveva le guance un po’ arrossate. Comprensibile. Il padre della fanciulla, al suo fianco, era rigido come una statua di pietra. A giudicare dalle vesti dovevano essere originari di Tiria oppure Isolani. Ma perché stare a fare illazioni? C’era un araldo proprio lì alla mia portata.

“Scusate, signore, sapete dirmi per caso chi sia quella damigella a cui il nobile Maravoy ha porto omaggio?”

L’araldo, secco e rugoso come una vecchia tartaruga, mi squadrò come se fossi uno straccione.

“Ma certo. E’ Demetra di Mykenes, figlia dell’Autarca. Non vedete le loro insegne?”

Come no, certo che le vedo. Ma non sono un araldo. Vengo dall’Altopiano Centrale e non sono mica tenuto a conoscere tutte le stirpi delle infinite Isole che costellano il mare, no?

A volte quelli di Tiria erano fastidiosi: tendevano a considerare la loro isola il centro del mondo e loro stessi gli unici esseri umani perfetti. Chi si ritiene perfetto non potrà mai migliorare, l’avevo imparato a mie spese molto tempo prima, all’accademia di scherma a Novafortia. Gli uomini di Tiria non si ritenevano né Maliani né Isolani ma in qualche modo credevano di stare al di sopra di entrambi. Erano in realtà semplicemente una via di mezzo tra i due.

Comunque mi tenni per me la rispostaccia che avrei potuto dare e tornai a girarmi verso la lizza.

Mentre scudieri e paggi portavano via cavalieri, armi e cavalli da guerra si iniziò a preparare il campo per l’ultimo scontro della giornata, che vedeva ancora in lizza un cavaliere di Castelbrun. Era il giovanissimo Barone Claudi de Naute-riu, l’ultimo straniero ancora rimasto in gioco oltre al suo signore che aveva appena vinto lo scontro, e a un Principe Isolano. I cavalieri di Castelbrun si erano fatti valere al di là di ogni aspettativa. Altri Gallessani, Dosthan, Isolani e uomini dell’Ovest erano stati riportati alle loro tende con fratture e lesioni. Quelli feriti in modo più lieve si assiepavano dall’altra parte dello steccato, per assistere agli scontri di chi era stato più fortunato di loro. La giostra dedicata alla Dea Flora, che si teneva ogni tre anni a Ertapietra, aveva sempre avuto fama di essere tra le più dure. Oltre ai migliori campioni delle giostre dell’intero Continente, alcuni dei quali vivevano vagando di continuo di torneo in torneo, di giostra in giostra, si presentava un gran numero di cavalieri da tutte le Terre Meridionali di Malia, dalle altre Isole e, com’era naturale, da Tiria stessa.

Tamburi e chiarine iniziarono a suonare, annunciando il combattimento. Il diciassettenne Barone di Naute-riu affrontava un cavaliere di Rocciarossa, un Feudo sulla Costa del Tramonto. Era costui un certo Marco Sarti, un veterano che aveva giostrato in giro per tutta Malia. Io avevo visto entrambi tirare di spada: Claudi in addestramento presso la sua tenda, un paio di giorni prima, e Marco Sarti in un torneo ad Altarocca tre anni fa. Perciò ero certo che se fossero giunti alle spade l’esperto uomo di Rocciarossa avrebbe potuto battere senza troppi problemi il sia pur valoro Gallessano. Riconobbi il blasone rosso e oro del signore di Rocciarossa, che il cavaliere suo vassallo portava in campo con onore anche quel giorno.

Dall’altra parte veniva avanti Naute-riu, con la visiera dell’elmo alzata a mostrare i tratti piacevoli e regolari del volto. Ognuno dei due aveva già eliminato cinque avversari, a quel punto. Il vincitore dello scontro sarebbe entrato fra gli otto migliori del torneo, e all’indomani avrebbe avuto l’occasione di battersi ancora per il primo posto. I destrieri sbuffavano, inquieti. Il sole aveva preso ad abbassarsi sull’orizzonte ma il caldo era ancora asfissiante.

Al segnale degli araldi il Gallessano abbassò la visiera ed entrambi i cavalieri diedero di sprone. Quando furono vicini Sarti abbassò la lancia spostandola a sinistra e si piegò. In quel modo, alzando l’arma all’ultimo momento avrebbe scostato l’arma del Gallessano alla propria destra mandandola fuori bersaglio, mentre la sua avrebbe centrato l’avversario in pieno. Una manovra ardita. Ma quando il Maliano alzò la lancia Claudi de Naute-riu abbassò la sua, la passò sotto a quella di Sarti e tornò a rialzarla all’interno, trasportandogli l’arma nemica fuori dalla linea. Colse il Maliano alla spalla sinistra, rovesciandolo a terra. Sarti cadde di sella fra il rumoreggiare della folla. Quando il giovanissimo Claudi frenò il suo bianco destriero e gli applausi cessarono, si udirono le grida di dolore del cavaliere di Rocciarossa. Lo soccorsero. Non c’era sangue, ma lui si rotolava per terra e non smetteva di gridare. Anche il Gallessano scese di sella e si tolse l’elmo, preoccupato.

I medici liberarono Sarti dello spallaccio, che aveva una bella ammaccatura, e poi di tutta la parte superiore dell’armatura. Dovettero togliergli anche la giubba imbottita e la camicia, e a quel punto si vide che, sotto a un vasto livido nerastro, la spalla era lussata. Aiutarono Marco Sarti a mettersi in ginocchio, poi uno dei medici gli tirò forte un braccio e l’altro operò sul deltoide ricollocando l’osso nella sua sede.

Il cavaliere respirò forte. Il suo corpo muscoloso e cosparso di cicatrici era tutto sudato e lucido, per la gioia delle dame presenti.

Quando riuscì ad alzarsi si prese anche lui un applauso dal pubblico.

Claudi gli sorrise, rassicurato:

“Spada?”

Quello fece cenno di no e scosse la testa.

“Non oggi, mio signore. Un altro giorno sarò felice di accontentarvi, ma per oggi ho già ricevuto la mia lezione. Siete stato incredibile con la lancia, complimenti.”

“Grazie a voi, è stato un onore incontrarvi sul campo.”

Si strinsero la mano.

Era finita.

La gente iniziò ad allontanarsi a piccoli gruppi, in attesa che calasse il sole e l’aria rinfrescasse. Allora sarebbero iniziate le danze, le bevute e i corteggiamenti. Io bighellonai un po’ in giro, fino a che mi parve di vedere tra la folla il cappuccio di una cappa che mi parve di riconoscere. Non era possibile. Non potevano avermi seguito fino a lì, così lontano dalla mia terra. Eppure, se non proprio lui, ero sicuro che fosse uno di loro.

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