Per la Corona d'Acciaio - Per la Corona d'Acciaio
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I TRE MOSCHETTIERI

novembre 18, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

 

Non sarò certo io a fare una recensione de “I tre moschettieri” di Dumas: sinceramente mi pare abbastanza ridicolo che qualcuno si senta in diritto di mettere su Amazon o altri siti la sua personale recensione di classici come l’Iliade (magari “troppi combattimenti, eccessivamente violento”), l’Orlando Furioso (“storia confusa e con troppi personaggi”) o Moby Dick (“un eccesso di nomenclatura di navi e cetacei che spegne l’afflato epico”, e simili scempiaggini). C’è un divertente video del mio acuto concittadino Roberto Mercadini in proposito, guardatelo se avete voglia di farvi una risata.

Quindi, lungi dal voler “recensire” Dumas, volevo parlarvi brevemente del mio rapporto con questo romanzo fondamentale per l’avventura classica e la letteratura in genere, di cui sono stato sempre appassionato. Ciò più a livello personale che come studioso di scherma storica, giacché il mio interesse a livello marziale è più incentrato sulla scherma “di punta e taglio” dei secoli precedenti, e il 1625 è già oltre la soglia del mio periodo di studio preferito, sia pure non di molto. Dumas poi, che pure tirava di scherma, non ha mai approfondito lo studio di come si combattesse in quegli anni ed è sempre abbastanza vago sulla dinamica dei combattimenti. Ma tutto ciò, come dicevo, è marginale.

Come potete vedere dalla foto, fra l’altro, ho letto il libro anche in francese, anzi è stato il primo libro che ho letto in quella bella lingua, contemporaneamente a “La communication politique aujourd’hui” che era il testo previsto dall’esame di francese alla Facoltà di Scienze Politiche in quei tempi lontani. L’avevo già letto in italiano, ovviamente, molti anni prima di allora, nell’età in cui continuavo abusivamente fino a tarda notte all’insaputa dei genitori le mie letture di Salgari, Verne, Dumas appunto, e altri ancora.

Infine l’ho riletto ancora una volta con grande gusto al momento di accingermi alla scrittura di “Il contagio di Meung”, romanzo breve ora in uscita che inaugura una mia personale versione delle avventure dei moschettieri (che si tinge di fantasy e horror a causa di un episodio di “sliding doors” che ha a che fare con certe leggende mediterranee), senza tradire – spero – lo spirito dell’originale e soprattutto dei suoi immortali personaggi. Ho cercato di avvicinarmi al mondo di Dumas con tanto affetto e tanto rispetto, e quel pizzico di ironia e spensieratezza che non è affatto alieno ai romanzi originali.

D’altro canto cosa si può desiderare di più che lavorare su icone come D’Artagnan, il giovane provinciale povero, promettente e spericolato per eccellenza, in cerca di fortuna e che aspira a entrare nei moschettieri? Fra l’altro è per questo, per chi non lo sapesse, che il romanzo si chiama “I tre moschettieri” anche se i protagonisti sono quattro: D’Artagnan è solo una recluta! Anche gli altri tre, i veri moschettieri, sono splendidi archetipi. Porthos incarna alla perfezione il “guerriero orso” del mito indoeuropeo: grosso e forzuto, gran mangiatore, generoso e sempre allegro. Aramis è invece l’elegante seduttore nato, agile e sempre affascinante, nel suo caso l’archetipo è reso più interessante e contraddittorio da una fede religiosa combattuta ma profonda che lo farà aderire addirittura al sacerdozio. Infine Athos, il più esperto del gruppo, il più nobile e “adulto”: un’anima tormentata piena di dignità, dal passato misterioso, su cui gli altri si appoggiano e a cui si ispirano.

Dall’altra parte, troviamo degli antagonisti del tutto all’altezza: il mefistofelico Cardinale Richelieu, l’arrogante spadaccino Rochefort e soprattutto il personaggio più pieno di ambiguo fascino: l’incantatrice e insidiosa Milady, che accomuna in sé l’attrazione pure della bellezza e l’attrattiva repulsione del pericolo.

Al di là dei duelli, delle fughe mirabolanti, degli intrighi di corte, che forniscono il loro essenziale pizzico di pepe, quel che davvero resta a fine lettura è la nostalgia platonica per l’allegria incosciente dei quattro protagonisti (i moschettieri si trovano sempre a corto di denari ma se qualcuno di loro si trova a disporre di una qualsiasi somma subito si sente in dovere di spenderla in banchetti per tutto il gruppo), e ancora di più per l’amicizia e la fedeltà adamantina che li lega tra loro al di là di ogni causa per cui combattere, al di là di ogni contingenza della vita e del destino, e che è la gemma più preziosa che ha donato Dumas all’umanità con questo grande romanzo. Quindi, ancora una volta, che risuoni il grido di battaglia dei tre baldi moschettieri più un cadetto di Guascogna:

“Uno per tutti, tutti per uno!”

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“PER LA CORONA D’ACCIAIO”: UN ROMANZO STORICO?

maggio 2, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

 

Ringrazio di cuore un lettore che ha recensito il mio romanzo, manifestando una certa delusione per la mancanza di magia, e per una scarsità di azione nei capitoli centrali. Se si aspettava, come pare, un tipico romanzo “di genere” tutto e solo azione, fantasia e magia, questo lettore non ha trovato ovviamente quel che cercava. Intendiamoci, io adoro l’azione, ma essa non è il “cuore” di questo romanzo, che pure ne è pieno. Essa è piuttosto una gradita ancella di temi più profondi, e un’esca per convincere il lettore a specchiarsi nella vicenda. In altre storie, come quelle dei Pretoriani Neri, mi diverto a giocare con l’azione, e anche con la magia, con draghi e grifoni e navi volanti. Tuttavia non ritengo la magia un fattore indispensabile della letteratura fantastica. Un nume del Fantasy come Joe Abercrombie, pare pensarla come me su questo tema: indicatemi che magia si possa mai trovare, per esempio, nella “Trilogia del Mare Infranto”, di cui di recente ho consigliato la lettura.

“Per la Corona d’Acciaio” è qualcosa di diverso. Essere qualificato come “una sorta di Bernand Cornwell in un un contesto inventato”, come scrive questo lettore, è per me un grande complimento. In questa saga in effetti mi rifaccio non tanto al genere Fantasy, ma piuttosto a scrittori di avventura classica e di romanzi storici come appunto Cornwell, Perez Reverte, fino ai classici di Dumas, Salgari, London, Kipling, Conrad. Ma anche a scrittori “alti” (e forse più “noiosi”, da un punto di vista “di genere”) come Ernst Junger e Julien Gracq. Prosegue il lettore “non dovendo essere fedele alla storia reale, poteva evitare certe parti noiose, spesso necessarie in romanzi storici per essere fedeli, ma che qui potevano essere sostituite…” In effetti, come il lettore ha in parte intuito, “Per la Corona d’Acciaio” è assolutamente un romanzo storico, in essenza. Con tutte le esigenze di analisi storica e realismo che ciò comporta, e con l’unica differenza che tratta di una storia che avviene non nel nostro mondo ma in uno simile e parallelo. Come in Junger e Gracq, il contesto inventato è una scusa per poter variare gli avvenimenti liberamente servendo a uno scopo, nel mio caso parlare di fatti dell’anima e di leggi storiche che riguardano noi, il nostro mondo e la nostra condizione di esseri umani. La vicenda segue tutte le regole politiche, sociologiche ed economiche che condizionano la Storia, le dinamiche del potere e forse anche quelle del Fato, che i lettori scopriranno un po’ alla volta e che sono poi le stesse del mondo reale, non meno stringenti. Ecco perché era necessario un “rallentamento” dell’azione nella parte centrale, per poter dedicare spazio a un’analisi della situazione del regno di Malia e alle soluzioni (anche legislative e perfino fiscali) che i protagonisti adottano. Essi devono, infatti rimediare ai fattori che hanno portato alla caduta che essi si sono trovati a dover vivere, e porre in alto la “svolta” che la situazione politica richiede. Ugualmente c’era bisogno, in precedenza, di lasciare un po’ di spazio al sorgere nelle loro menti delle soluzioni che poi adotteranno: proprio come deve avvenire in un romanzo storico che funziona bene, se i protagonisti sono personaggi reali dotati di poteri decisionali, e realizzano appunto una svolta storica. La parte centrale del romanzo che tratta questi temi è stata particolarmente apprezzata da altri lettori, per aver affrontato il tema di come, una volta conquistato il potere, lo si vada a gestire, cosa che molti Fantasy (a volte con una visione un po’ più superficiale) trascurano. Quel che mi frustra nel romanzo storico vero e proprio è invece che il lettore possa già conoscere come la vicenda finirà, mentre a Malia le praterie del futuro sono aperte e la tensione è maggiore: qualunque cosa può accadere… e ne accadranno di ogni tipo! Tornando a noi, quindi, una critica dettata da aspettative “di genere” è “iuxta sua propria principia”, per me invece essa costituisce un grande complimento: con questa saga non voglio fare “letteratura di genere”, voglio fare letteratura! E credo che il genere Fantasy si presti a questo alto scopo (perdonatemi l’ambizione), quanto e più di altri.

Marco Rubboli

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ETERNAL WAR

marzo 25, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

In questo “Dantedì” 25 marzo 2020 vi parlo della mia lettura più recente: Eternal War di Livio Gambarini, ed. Acheron Books. Anche questo è un fantasy storico, sempre nel senso opposto al mio “Per la Corona d’Acciaio”: presenza di magia ed esseri fantastici ma in ambientazione reale, in questo caso ancora Firenze. La vicenda però si svolge parecchio tempo prima di quella di “Gens Arcana” di Cecilia Randall di cui vi ho parlato poco fa: non siamo infatti ai tempi di Lorenzo il Magnifico ma in quelli di Dante, e precisamente dalla battaglia di Montaperti a quella di Campaldino. L’autore ha osato molto: il protagonista è niente di meno che il poeta e guerriero Guido Cavalcanti! Ovviamente accanto a lui ci saranno i giovani Dante Alighieri e Beatrice, Lapo e Farinata degli Uberti e tanti altri personaggi di quell’epoca straordinaria. Accanto a loro, e parallelamente a loro, lottano sul piano dello Spirito i loro spiriti ancestrali: entità che vegliano ognuna su una specifica famiglia, composte dall’essenza di tutti i Pater Familias del passato. Nel loro mondo si muove una quantità infinita di entità come i Santi Patroni, i terrificanti Estinti dell’antica Roma, spiriti selvaggi, i Genii Loci di palazzi e case e perfino divinità pagane come le Muse. Ognuno di essi svolge un ruolo nella guerra eterna fra Guelfi e Ghibellini e nei conflitti che dividono fra loro le varie stirpi: si combatte tanto nel mondo visibile della Materia quanto in quello invisibile dello Spirito. In tutto ciò, fra battaglie, agguati e intrighi che sia uomini che spiriti si tendono l’un l’altro, spicca la figura eroica e magica di Guido Cavalcanti, su cui il suo spirito ancestrale Kabal ha scommesso tutto per riportare in auge la sua famiglia rovinata dalla sconfitta a Montaperti. Non mancheranno sorprese, scontri, amori e colpi di scena, e avremo il privilegio di assistere “in diretta” alla nascita del Dolce Stil Novo. La ciliegina sulla torta sono le citazioni dei sonetti del tempo, che mi hanno spinto a sfogliare di nuovo qualche bella pagina antica studiata molto, troppo tempo fa. Che ne dite, la sfida vi attira?

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LA GIOSTRA DI FLORA – III

gennaio 27, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Parte Terza

Parte Terza

L’ultimo giorno la giostra non si svolgeva sulla piana fuori le mura come le fasi iniziali, ma nell’antico Teatro della città che si ergeva a metà strada fra il paese e l’Acropoli, scavato nel fianco della collina rocciosa di Ertapietra. Mi avevano riferito che il Teatro risaliva agli antichi Isolani che avevano colonizzato Tiria molto secoli or sono. Lo usavano per mettere in scena le loro tragedie. Poi con i Mitoien le gradinate più basse erano state rimosse e il Teatro era stato adibito anche ai giochi gladiatori e alle venazioni di belve feroci.

Galeazzo e io ci eravamo accodati ai Gallessani, così risalimmo le ripide vie della cittadella e ci arrampicammo sul sentiero sassoso che conduceva al Teatro, sempre seguendo la tetra testa di lupo in campo rosso dei Maravoy. Dietro di noi avanzavano gli alfieri dei Campofiorito, drappeggiati nelle loro vesti e bandiere bianche e rosse.

Poi mentre i contendenti entravano dalla porta principale che dava sulla scena con i loro paggi e scudieri, noi e tutti gli altri accompagnatori salimmo gli scalini sulla destra e prendemmo posto sulle gradinate.

Le enormi colonne della scena da lassù parevano svelte e snelle; fra l’una e l’altra si intravedeva il mare d’un blu scurissimo. Laggiù galleggiavano alla rada le galee dei nobili convenuti, circondate dalle barche dei pescatori quasi come imponenti cigni attorno a cui si accalchino degli anatroccoli. Dall’altro lato si poteva ammirare l’alto vulcano innevato che si innalzava a non troppa distanza, e che alcuni dei signori presenti al torneo avevano visitato a cavallo nei giorni precedenti la disfida, accompagnando le loro dame.

“Si dice in giro” mi informò Galeazzo “che in quell’occasione Lyonel Maravoy abbia potuto parlare a lungo con Demetra di Mykenes, e che sia lì che è scattato qualcosa fra i due. Qualcosa che però, a quanto pare, il padre della damigella Isolana non approva del tutto. Lyonel è un magnifico signore, un ottimo partito anche per una Principessa delle Isole. Però fra gli Isolani la distinzione fra nobili e popolani è molto più sfumata che da noi, figurarsi in confronto a quegli altezzosi Gallessani. Forse l’Autarca teme che la figlia possa essere considerata di rango inferiore dai nobilastri di Gallesse, e quindi disprezzata.”

Lo spazio disponibile per i cavalieri in lizza non era tanto vasto quanto nella piana, quindi avrebbero dovuto partire subito lanciati alla massima velocità: non c’era tempo per accelerare gradualmente, né per rimediare a un errore.

Per primo gareggiò Lyonel Maravoy contro un Principe Isolano: il figlio dell’Autocrate di Zakinthos. Si colpirono a vicenda sullo scudo, spezzando entrambe le lance, ma nessuno dei due cadde. Allora sguainarono le spade e presero a tempestarsi di colpi girandosi intorno. Ognuno tentava di mettersi in posizione di vantaggio, cercando il lato sinistro dell’avversario. Gli zoccoli dei destrieri tormentavano l’arena del campo, gli scudi si riempivano di ammaccature. A un certo punto Lyonel colpì l’Isolano al petto con lo scudo, precipitandolo giù di sella. Cavallerescamente l’Erede di Castelbrun scese anche lui e attese che l’altro si alzasse. Si affrontarono a piedi. La lotta non fu breve: entrambi erano giovani, abili e forti, e nessuno voleva cedere. Ma, preso dalla foga, il nobile di Zakinthos scoprì la mano tirando un mandritto. Maravoy fece scattare la sua lama, e gli inchiodò il palmo della destra. L’Isolano lasciò cadere la spada e alzò le braccia in segno di resa. Lyonel rinfoderò la sua lama e fu il primo a soccorrerlo. Non c’era sangue, ma il Principe di Zakinthos faceva fatica a chiudere le dita per il dolore della botta. Prima che il ferito fosse portato via il Gallessano andò ad abbracciarlo. Nessun rancore, erano entrambi gentiluomini e ognuno aveva potuto avere un assaggio del valore dell’altro.

Ancora una volta Lyonel prima di lasciare il campo camminò fino alla zona dove stavano i signori di Mykenes e rese omaggio alla damigella del suo cuore.

“Bello!” disse Galeazzo, quasi stendendosi sul marmo del sedile “Hai visto che ha imitato quello che hai fatto tu prima a Claudi? Sarà un ottimo allievo.”

“Io non ho tirato una punta, ma un colpo di filo falso.” puntualizzai.

“Bah, cambia poco, l’azione era quella.” rispose il mio amico con un gesto come a scacciare delle mosche fastidiose.

Fu la volta di altri combattenti, e poi toccò a Claudi de Naute-riu.

“Se vince, poi dovrà combattere col suo signore.” osservò Galeazzo.

Alzai un sopracciglio.

“Davvero? Non mi sembra una bella cosa. Non potevano smistarli in modo diverso?”

Lui fece spallucce.

“La scelta degli scontri è casuale: un sacerdote estrae a caso le sorti di ognuno.”

“I sacerdoti sono dei vecchi marpioni abili di occhio e di mano, e per lo più corrotti.” risposi, insinuando un dubbio sulla correttezza della scelta. Ne sapevo qualcosa, io, dei trucchi di Stregoni e sacerdoti.

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LA GIOSTRA DI FLORA – I

novembre 29, 2019 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Parte Prima

I destrieri da guerra lanciati uno contro l’altro sudavano copiosamente sotto il sole spietato dell’isola di Tiria. I loro manti erano lucidi per lo sforzo. Anch’io ero madido. Mi asciugai la fronte col dorso della mano. Il cavaliere a sinistra era un Gallessano, sullo scudo una testa di lupo nera in campo rosso. Da destra si precipitava contro di lui il figlio di un ricchissimo mercante locale, un tale Salvatore Ranieri originario proprio di lì, di Ertapietra. Sulla sua rotella la testa feroce di una Furia dai lunghi canini. Il Gallessano all’ultimo si spostò di lato, e si scontrarono con un gran fragore. Avevo visto quello spettacolo parecchie volte, ma non cessavo di stupirmi della violenza degli urti che i contendenti si scambiavano. Solo l’abilità dei migliori armaioli poteva impedire che questi cavalieri morissero come mosche quando praticavano la loro attività preferita. Io, dal canto mio, avrei preferito affrontare dieci sgherri armati in un vicolo che fare una roba del genere. La lancia del mercante strisciò sullo scudo del Gallessano e aprì una sorta di cicatrice color acciaio sul muso del lupo che vi era raffigurato. Ma l’arma di quel Lyonel Maravoy invece colse il suo avversario in pieno petto, appena sopra al bordo della rotella. Per un istante l’asta di legno di frassino arrivò a curvarsi, mentre il pubblico tratteneva il fiato. Poi la cinghia sottopancia del cavallo del contendente locale cedette, e lui fu proiettato indietro. Salvatore Ranieri cadde nella polvere con tutta la sella. Maravoy si ritrovò lanciato avanti, ma subito tirò le redini di lato, fece girare il destriero su se stesso e balzò giù. Non si curò di armarsi ma accorse presso il suo avversario, per controllare se fosse ancora vivo. Quello era scosso, ma stava già cercando di liberarsi delle staffe e rialzarsi. Il Gallessano gli porse una mano però l’uomo di Tiria lo scacciò via, quasi in malo modo. Ranieri non aveva intenzione di arrendersi, anche se sul suo pettorale era evidente una grande ammaccatura centrale. Strano che non si fosse rotto delle costole, pensai, era stato fortunato. Mentre il giovane arrancava per rialzarsi Maravoy tornò al suo destriero ed estrasse la spada, il cui fodero era fissato alla sella. Fece un paio di molinelli per sgranchirsi il polso, che doveva aver subito il contraccolpo della botta di lancia, e si mise in guardia protendendo lo scudo. Aspettò con calma che il suo avversario fosse pronto. Intanto intorno a loro si andavano radunando giudici di gara, sergenti e araldi. I duellanti iniziarono a studiarsi, scambiandosi qualche colpo cauto. Il giovane mercante fece una finta sopra lo scudo e tagliò un mandritto alle gambe, ma Lyonel Maravoy balzò indietro sottraendosi al colpo. Poi fu lui ad attaccare: tentò di girare prima a sinistra e poi a destra dell’avversario rifilandogli al contempo ben quattro botte, che però il contendente locale riuscì sempre a parare o a schivare. Dopo aver ripreso fiato il ricco mercante si lanciò avanti con un roverso alto. Scelta infelice, osservai fra me e me. Il Gallessano ne approfittò subito: parò di spada, spinse l’arma di Salvatore Ranieri alla propria destra senza lasciarla andare, fece un passo avanti col piede sinistro e colpì di punta all’interno del braccio destro del mercante. La lama, pur smussata, si infisse nel bicipite. Il pubblico poté vedere la giubba imbottita del cavaliere di Ertapietra intridersi di sangue, che poi stillò a terra in grosse gocce. Due sergenti si gettarono in mezzo impugnando le partigiane e li separarono. Era finita. Maravoy alzò le braccia in segno di trionfo. Il perdente si tolse l’elmo rivelando un’espressione di dispetto, poi fu costretto a stringere la mano al vincitore, sia pure con una stizza che non tentò affatto di celare. Anche se lo sconfitto era un mio compatriota, o quasi, la sua scortesia mi aveva spinto a parteggiare per lo straniero. Così, pur senza esultare troppo, mi concessi un sorriso di soddisfazione. Ad ogni modo Maravoy si era dimostrato superiore sia a cavallo che a piedi, aveva meritato la vittoria e i festeggiamenti che i suoi vassalli gli stavano tributando in quel momento. In realtà per un popolano era già molto essere arrivato fino a quel punto della giostra: quel giovane mercante poteva essere contento della propria abilità con le armi. Un po’ meno della mancanza di gentilezza che lo aveva contraddistinto. A lui sarebbero state riservate adesso le cure del cerusico.

Messer Maravoy fece allora qualcosa di inaspettato: estrasse da una borsa della sella un drappo di tessuto prezioso con il blasone dei Conti di Castlebrun e camminò verso il palco dove stavano gli spettatori della nobiltà.

Poi lo baciò, e lo lanciò a una giovane dama. Era un gesto molto impegnativo. Mi sforzai di vedere chi fosse, ma era troppo lontano. Però ero curioso, quindi mi feci largo tra la folla.

La damigella che stringeva il drappo era una bellezza, aveva lunghi capelli castani e grandi occhi azzurri. Aveva le guance un po’ arrossate. Comprensibile. Il padre della fanciulla, al suo fianco, era rigido come una statua di pietra. A giudicare dalle vesti dovevano essere originari di Tiria oppure Isolani. Ma perché stare a fare illazioni? C’era un araldo proprio lì alla mia portata.

“Scusate, signore, sapete dirmi per caso chi sia quella damigella a cui il nobile Maravoy ha porto omaggio?”

L’araldo, secco e rugoso come una vecchia tartaruga, mi squadrò come se fossi uno straccione.

“Ma certo. E’ Demetra di Mykenes, figlia dell’Autarca. Non vedete le loro insegne?”

Come no, certo che le vedo. Ma non sono un araldo. Vengo dall’Altopiano Centrale e non sono mica tenuto a conoscere tutte le stirpi delle infinite Isole che costellano il mare, no?

A volte quelli di Tiria erano fastidiosi: tendevano a considerare la loro isola il centro del mondo e loro stessi gli unici esseri umani perfetti. Chi si ritiene perfetto non potrà mai migliorare, l’avevo imparato a mie spese molto tempo prima, all’accademia di scherma a Novafortia. Gli uomini di Tiria non si ritenevano né Maliani né Isolani ma in qualche modo credevano di stare al di sopra di entrambi. Erano in realtà semplicemente una via di mezzo tra i due.

Comunque mi tenni per me la rispostaccia che avrei potuto dare e tornai a girarmi verso la lizza.

Mentre scudieri e paggi portavano via cavalieri, armi e cavalli da guerra si iniziò a preparare il campo per l’ultimo scontro della giornata, che vedeva ancora in lizza un cavaliere di Castelbrun. Era il giovanissimo Barone Claudi de Naute-riu, l’ultimo straniero ancora rimasto in gioco oltre al suo signore che aveva appena vinto lo scontro, e a un Principe Isolano. I cavalieri di Castelbrun si erano fatti valere al di là di ogni aspettativa. Altri Gallessani, Dosthan, Isolani e uomini dell’Ovest erano stati riportati alle loro tende con fratture e lesioni. Quelli feriti in modo più lieve si assiepavano dall’altra parte dello steccato, per assistere agli scontri di chi era stato più fortunato di loro. La giostra dedicata alla Dea Flora, che si teneva ogni tre anni a Ertapietra, aveva sempre avuto fama di essere tra le più dure. Oltre ai migliori campioni delle giostre dell’intero Continente, alcuni dei quali vivevano vagando di continuo di torneo in torneo, di giostra in giostra, si presentava un gran numero di cavalieri da tutte le Terre Meridionali di Malia, dalle altre Isole e, com’era naturale, da Tiria stessa.

Tamburi e chiarine iniziarono a suonare, annunciando il combattimento. Il diciassettenne Barone di Naute-riu affrontava un cavaliere di Rocciarossa, un Feudo sulla Costa del Tramonto. Era costui un certo Marco Sarti, un veterano che aveva giostrato in giro per tutta Malia. Io avevo visto entrambi tirare di spada: Claudi in addestramento presso la sua tenda, un paio di giorni prima, e Marco Sarti in un torneo ad Altarocca tre anni fa. Perciò ero certo che se fossero giunti alle spade l’esperto uomo di Rocciarossa avrebbe potuto battere senza troppi problemi il sia pur valoro Gallessano. Riconobbi il blasone rosso e oro del signore di Rocciarossa, che il cavaliere suo vassallo portava in campo con onore anche quel giorno.

Dall’altra parte veniva avanti Naute-riu, con la visiera dell’elmo alzata a mostrare i tratti piacevoli e regolari del volto. Ognuno dei due aveva già eliminato cinque avversari, a quel punto. Il vincitore dello scontro sarebbe entrato fra gli otto migliori del torneo, e all’indomani avrebbe avuto l’occasione di battersi ancora per il primo posto. I destrieri sbuffavano, inquieti. Il sole aveva preso ad abbassarsi sull’orizzonte ma il caldo era ancora asfissiante.

Al segnale degli araldi il Gallessano abbassò la visiera ed entrambi i cavalieri diedero di sprone. Quando furono vicini Sarti abbassò la lancia spostandola a sinistra e si piegò. In quel modo, alzando l’arma all’ultimo momento avrebbe scostato l’arma del Gallessano alla propria destra mandandola fuori bersaglio, mentre la sua avrebbe centrato l’avversario in pieno. Una manovra ardita. Ma quando il Maliano alzò la lancia Claudi de Naute-riu abbassò la sua, la passò sotto a quella di Sarti e tornò a rialzarla all’interno, trasportandogli l’arma nemica fuori dalla linea. Colse il Maliano alla spalla sinistra, rovesciandolo a terra. Sarti cadde di sella fra il rumoreggiare della folla. Quando il giovanissimo Claudi frenò il suo bianco destriero e gli applausi cessarono, si udirono le grida di dolore del cavaliere di Rocciarossa. Lo soccorsero. Non c’era sangue, ma lui si rotolava per terra e non smetteva di gridare. Anche il Gallessano scese di sella e si tolse l’elmo, preoccupato.

I medici liberarono Sarti dello spallaccio, che aveva una bella ammaccatura, e poi di tutta la parte superiore dell’armatura. Dovettero togliergli anche la giubba imbottita e la camicia, e a quel punto si vide che, sotto a un vasto livido nerastro, la spalla era lussata. Aiutarono Marco Sarti a mettersi in ginocchio, poi uno dei medici gli tirò forte un braccio e l’altro operò sul deltoide ricollocando l’osso nella sua sede.

Il cavaliere respirò forte. Il suo corpo muscoloso e cosparso di cicatrici era tutto sudato e lucido, per la gioia delle dame presenti.

Quando riuscì ad alzarsi si prese anche lui un applauso dal pubblico.

Claudi gli sorrise, rassicurato:

“Spada?”

Quello fece cenno di no e scosse la testa.

“Non oggi, mio signore. Un altro giorno sarò felice di accontentarvi, ma per oggi ho già ricevuto la mia lezione. Siete stato incredibile con la lancia, complimenti.”

“Grazie a voi, è stato un onore incontrarvi sul campo.”

Si strinsero la mano.

Era finita.

La gente iniziò ad allontanarsi a piccoli gruppi, in attesa che calasse il sole e l’aria rinfrescasse. Allora sarebbero iniziate le danze, le bevute e i corteggiamenti. Io bighellonai un po’ in giro, fino a che mi parve di vedere tra la folla il cappuccio di una cappa che mi parve di riconoscere. Non era possibile. Non potevano avermi seguito fino a lì, così lontano dalla mia terra. Eppure, se non proprio lui, ero sicuro che fosse uno di loro.

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FIAT LUX

maggio 29, 2019 by Marco Rubboli Nessun commento

 di Caterina Franciosi

I RACCONTI DI MALIA

 

La brezza del porto di Alesia spettinava la sua chioma color del fuoco.

Luce si passò la mano fra i capelli e si accorse che stavano diventando di nuovo troppo lunghi. Sbuffò. Avrebbe dovuto tagliarli ancora, fosse solo per far dispetto a sua sorella Erinne. La volta precedente si era limitata a bagnarli, a raccoglierli in una coda bassa e a tranciarli di netto alla base con un paio di forbici. Era rimasta piuttosto soddisfatta del risultato, ma Erinne non era stata dello stesso avviso. Era quasi svenuta quando era rientrata a casa e aveva visto la sua nuova pettinatura. Luce si lasciò scappare una risatina ricordando come sua sorella aveva continuato a prenderla a male parole per tutto il tempo in cui l’aveva costretta a stare seduta al tavolo della cucina mentre cercava di rimettere a posto quel disastro.

Quante storie per un taglio di capelli. Come se poi non le fossero ricresciuti. D’altronde, non poteva aspettarsi altro da sua sorella, sempre così bella e profumata.

Luce scivolò tra la gente senza farsi notare, osservando il dondolio delle barche ormeggiate alle banchine, pronte a ripartire l’indomani mattina sfruttando i primi soli primaverili. I mercanti e i pescatori avevano ripreso la loro piena attività dopo i lunghi mesi invernali, in cui la fredda morsa del gelo pareva congelare ogni cosa.

Ma per Luce quella non era stata una bella giornata. Affatto. Era uscita alla ricerca di un lavoro, ma anche quel pomeriggio si era limitata a collezionare l’ennesimo insuccesso. Da quando Erinne le aveva proposto di prendere in considerazione l’idea di collaborare con la famiglia Tagliaferro e Luce aveva replicato con parole irripetibili, sua sorella aveva perso le staffe e le aveva dato un ultimatum.

“Badiamo a te fin da troppo tempo,” aveva sentenziato settimane prima. “Essere una damigella dei Tagliaferro non è quello che pensi tu, ma cercare di spiegartelo è solo fiato sprecato. Perciò ora arrangiati e trovati un lavoro per conto tuo.”

“E la mamma lo sa che mi stai dicendo questo?” aveva ribattuto Luce senza fare una piega.

Erinne l’aveva solo guardata.

“È meglio che ti trovi un lavoro onesto. E che abbandoni il giro della gentaglia che frequenti, non credere che non sappiamo quello che fai.”

E così era cominciata la sua avventura alla ricerca di un’occupazione qualsiasi giù al mercato di Alesia, ma a quanto pareva nessuno voleva saperne di lei. Chi non poteva permettersi di pagarla, chi non ne aveva la benché minima intenzione, chi l’avrebbe invece coperta di monete sonanti in cambio di servizi se possibile ancora più disgustosi di quelli dei Tagliaferro.

Il mercante grasso e sudato con cui aveva discusso poche ore prima le aveva praticamente riso in faccia.

“Ma dove credi di andare con quelle gambette rinsecchite?” le aveva detto sprezzante davanti a tutti. “Ragazzina, io scarico casse di pesce e barili di birra tutto il santo giorno. Cosa me ne faccio di un esserino come te?”

Luce si era trattenuta dal saltargli alla gola e se ne era andata tra gli sghignazzi degli uomini.

“Ciccione,” aveva bofonchiato una volta fuori dalla loro portata. “Ti ci vedo proprio a faticare tutto il giorno, come no.”

Eppure quelle parole avevano continuato a ronzarle nelle orecchie. Quel grassone era stato un villano, certo, ma le aveva rivolto la domanda chiave.

Che cosa sapeva fare lei?

Si allontanò tra le viuzze della periferia a testa bassa, avvolta dal chiacchiericcio dei passanti, riflettendo. Non era brava in alcun tipo di arte, questo era certo. Nel corso degli anni, Erinne aveva tentato – invano – di insegnarle a suonare qualche strumento musicale o qualche canzone, oppure ancora a muovere qualche passo di danza. Nemmeno di ricamare se ne parlava. Luce trattenne una risata, cominciava a capire la disperazione della sorella.

Eppure qualcosa doveva esserci, per gli Dèi. A parte quello, ecco.

Sfruttando le prime ombre della sera, Luce imboccò uno stretto vicolo laterale e si arrampicò su per la parete della casa disabitata alla sua destra, sfruttando inferriate e cornicioni. In un attimo, si ritrovò sul tetto, accucciandosi per ammirare dall’alto lo splendore della città. Il Palazzo di Re Tiberio IV Alesiade si stagliava imponente contro l’orizzonte. Se solo avesse potuto, Luce lo avrebbe distrutto fino all’ultima pietra, fosse stato solamente per annientare suo padre e tutta quella cricca di nobili. Padre… se così poteva definire l’uomo con cui sua madre l’aveva involontariamente concepita. Non voleva nemmeno pronunciare il suo nome. Gli sarebbe bastato alzare un dito per aiutarle, invece si era limitato a prendere ciò che più che gli aggradava in quel momento per poi metterle da parte una volta che ne aveva avuto abbastanza. Come tutti quei ricconi spocchiosi e arroganti suoi amici, del resto. Non era giusto.

Come non era giusto che quei mercanti ciccioni le ridessero in faccia. Se solo avesse avuto qualcosa… Un arco, una balestra…

La gente non faceva caso a lei. Se Luce decideva di non farsi notare era in grado di mimetizzarsi ovunque, come un’ombra tra le ombre. Era in grado di spaventare persino Erinne. Se solo avesse avuto un’arma tra le mani, tutti quei buffoni avrebbero riso molto meno.

Ma erano solo sogni. Uccidere non era sempre così facile – e nemmeno troppo conveniente. Se i Ronconieri l’avessero catturata, sarebbe finita sulla forca in un battito di ciglia.

Luce scivolò verso il bordo del tetto e si incantò dinanzi agli ultimi raggi di sole che incendiavano le nubi più basse a Ovest. Il profumo di carne speziata della locanda poco distante le fece brontolare lo stomaco. Chissà cosa aveva preparato Erinne per cena. Quella sera non lavorava, la mamma non c’era e –

Luce inorridì.

Quella sera la mamma non c’era, Erinne non lavorava e aveva invitato amici per cena. E si era raccomandata di non fare tardi.

Scese dal tetto e corse verso casa. Sua sorella l’avrebbe ammazzata. Ecco un’altra cosa in cui non era brava: tenere a mente gli impegni mondani.

Erinne era furiosa.

“Dove sei stata?” le sibilò non appena le aprì la porta di casa.

“Fuori,” rispose Luce, sgusciando sotto il suo braccio teso. “A cercare lavoro, come mi hai detto tu.”

Erinne fece per tirarle un ceffone e la strattonò dentro.

“Più tardi facciamo i conti, io e te,” le soffiò all’orecchio mentre la conduceva in sala da pranzo.

Attorno al tavolo erano già seduti tre uomini che a Luce fecero subito una pessima impressione.

“Oh, ecco finalmente l’altra splendida signorina Selenides.”

Rinaldo Tagliaferro si alzò e le andò incontro, prendendole una mano tra le proprie per baciarla. Luce trattenne a stento l’impulso di ritrarla, ma la sua espressione doveva essere palese, tanto che Rinaldo sogghignò e le strizzò l’unico occhio che aveva.

“Grazie per essere venuta,” le disse, scostandole la sedia. “Stavamo giusto discutendo di noiosissimi affari. Posso presentarti i miei amici, Giuliano Terrabuona e Santo Dal Rio?”

I due energumeni seduti dall’altra parte del tavolo si alzarono, fecero un breve inchino a Luce e non ripresero posto fino a quando non lo fece anche lei. Erinne le riempì il piatto di stufato senza parlare e Luce colse l’occasione al volo per evitare di rispondere e limitarsi ad un vago cenno del capo.

“Allora, dove sei stata tutto il giorno?” Rinaldo si accomodò e le rivolse un sorrisetto. “Stai facendo ammattire tua sorella, lo sai?”

Luce scrollò le spalle, fissando il fondo del piatto.

“Non è colpa mia se là fuori sono un branco di incivili,” fu la secca risposta.

Rinaldo scoppiò a ridere e riprese a mangiare.

Luce rimase a sedere fra loro, sentendosi più fuori posto che mai, desiderando di trovarsi altrove. Le loro chiacchiere sugli ultimi avvenimenti della città, su chi avesse cercato di infilzare o far arrestare chi, la lasciavano completamente indifferente e la annoiavano a morte. Ascoltava solo a metà i loro discorsi, che per lei avevano lo stesso valore della spazzatura. Ogni parola che usciva dalla bocca dei Tagliaferro per lei era immondizia, ma questo era meglio non dirlo. Ma come accidenti faceva Erinne a lavorare per loro?

“Questo stufato è semplicemente delizioso!” commentò Rinaldo pulendo il fondo del piatto con una fetta di pane. “Non è vero, ragazzi?”

I due scagnozzi annuirono. Luce scoccò loro un’occhiata di sottecchi mentre portava via i piatti sporchi e li riponeva nell’acquaio. Non avevano l’aria particolarmente intelligente, ma erano grossi abbastanza da far passare a chiunque la voglia di infastidire Rinaldo. Con due così alle spalle, anche da lontano sarebbe stato difficile colpire il giovane rampollo dei lenoni di Alesia.

“Luce, vuoi un po’ di frutta?”

Erinne le porgeva il vassoio dalla soglia della porta.

“No, grazie,” rispose da sopra la spalla. “Sto bene così. Finisco di lavare questa roba.”

Erinne scrollò le spalle e tornò in sala. Le risate degli ospiti erano allegre e sembravano anche sincere, ma forse era solo grazie alla bottiglia di vino ormai vuota sulla tavola. Nonostante ciò, l’atmosfera per Luce era soffocante. Di nuovo, desiderò essere altrove, lontana dal quel mondo sporco e contorto in cui – suo malgrado – era nata. Le mancava l’aria alla gola e avrebbe dato qualsiasi cosa per tornarsene di nuovo tra le vie della città, dove nessuno sapeva di lei. Dove nessuno voleva qualcosa da lei.

Mai come in quel momento desiderò essere libera. Libera di tornare a casa all’ora che preferiva – o di non tornarci affatto. Libera di essere chiunque volesse, di nascondersi o meno agli occhi degli altri, di parlare solo con chi fosse di suo gradimento. Libera di non rendere conto ad anima viva delle proprie azioni, se non a sé stessa.

“Scendo a prendere una boccata d’aria.”

Luce abbandonò i piatti nell’acquaio e corse giù, fuori, in strada, dove c’era aria. Respirò a fondo i profumi della sera, già carichi delle prime promesse estive. Si appoggiò al muro del palazzo e rilassò la testa contro la pietra, ma la quiete non durò a lungo. Con gli occhi chiusi, sentì il portone aprirsi accanto a lei con un cigolio dei cardini.

“Erinne, lo so che sei fuori di te, ma dammi un momento.” si lamentò Luce senza muoversi.

Una risata mascolina le fece spalancare gli occhi all’istante. Rinaldo Tagliaferro le stava davanti a braccia conserte, un sorriso sbilenco sul volto sfregiato.

“Oh, sei tu. Scusami.”

“Sei scappata?” Rinaldo si appoggiò al muro vicino a lei. “Le nostre chiacchiere ti hanno provata così tanto?”

“No, io – ”

“Sai,” la interruppe Rinaldo dandole una pacca sul braccio. “È davvero un peccato che ci odi così tanto. Una come te sarebbe… speciale. Non solo per il nome che porti, ma perché c’è qualcosa in te. Qualcosa che accomuna te ed Erinne a vostra madre, mio padre me l’ha sempre detto.”

Luce si staccò dal muro e lo fronteggiò.

“Scordatelo,” disse a voce bassissima. “Non farò mai parte delle puttane dei Tagliaferro. Piuttosto la morte. La mia o quella di tuo padre, se mai si azzardasse a toccarmi con quelle luride mani.”

“Suvvia, suvvia,” rispose Rinaldo con un blando cenno della mano. “Non volevo farti arrabbiare.”

Cominciò ad accarezzarsi il mento con la punta delle dita e rimase a scrutarla a lungo con uno strano scintillio negli occhi.

“E adesso cosa c’è?” sbottò Luce.

“Oh, nulla,” rispose Rinaldo senza cambiare espressione. “Stavo solo pensando che ti credo, sai?”

“Credi a che cosa?”

“A quello che hai appena detto.”

Luce incrociò le braccia sul petto.

“E conosco un lavoro che potrebbe fare al caso tuo,” continuò il giovane davanti a lei.

“Ma non mi dire.”

“Potrà sembrarti strano, ma non abbiamo a che fare solo con allegre damigelle.” Anche Rinaldo si allontanò dalla parete e prese a girarle intorno in un modo che a Luce ricordò uno squalo con la propria preda. “Forniamo diversi servizi, se così possiamo chiamarli. Servizi ai quali non sei del tutto estranea.”

“Senti, spiegati o me ne torno di sopra,” gli disse Luce portandosi fuori dalla sua orbita e cominciando ad innervosirsi seriamente.

“Saresti una perfetta sicaria, Luce Selenides.”

Luce si immobilizzò e sentì la mascella scivolare verso il basso.

“Io – cosa?”

“È un lavoro duro. Rischioso. Ma paga bene, se sei brava.”

“Stai scherzando. Io non vado in giro ad ammazzare la gente.”

“No?” Rinaldo portò il naso all’altezza dei suoi occhi. “Ne sei davvero sicura?”

Luce deglutì. Rinaldo sapeva. Sapeva che aveva già ucciso una volta: Flavio, quell’uomo disgustoso. Ed era perfettamente consapevole del fatto che non fosse nemmeno lontanamente pentita.

Anche quel giorno avrebbe voluto fargliela vedere a quel ciccione borioso, e come a lui, anche a tanti altri, tutte le volte che non avevano esitato a farsi beffe della sua famiglia. O che avevano cercato di approfittarsi di lei solo perché era una ragazza.

“Lo immaginavo.”

Rinaldo si tirò indietro, senza staccare gli occhi dai suoi. Luce era disorientata. Non sapeva cosa rispondere, voleva fuggire e allo stesso tempo la proposta di quel farabutto aveva mosso qualcosa dentro di lei.

“Non mi starai dicendo che c’è un precettore che ti insegna ad ammazzare la gente,” disse, cercando di ritrovare un contegno.

Rinaldo scosse il capo.

“Non si diventa assassini. Lo si è e basta. E tu lo sei, ce l’hai nel sangue, Luce Selenides.”

“Io – ”

“Non negarlo, perché l’ho visto nel tuo sguardo fin dal primo momento. Ti ho osservata, insieme a tua sorella. Ti ho fatta seguire da certi miei collaboratori, per essere certo di non sbagliare. E io sbaglio raramente.”

Il volto di Rinaldo aveva perso ogni traccia di ilarità.

“Non voglio lavorare per voi,” ribatté Luce, testarda.

“Non lavorerai per noi, non se non lo vorrai perlomeno,” rispose Rinaldo, alzando gli occhi al cielo. “Sarai libera di scegliere cosa fare della tua vita. Io ti sto solo dando un’opportunità per non sprecare il tuo talento.”

Luce lo guardò a lungo, meditando sulle sue parole.

“Non credere che sarà facile.” Rinaldo si strinse nella cappa scura e si diresse verso il portone, passandole accanto. “Dovrai studiare, imparare ad usare le armi, scoprire quale sarà la più congeniale per te. Non basta ciò che hai imparato dai tuoi amici del quartiere.”

“Chi?”

La domanda di Luce rimase sospesa fra di loro come una nuvola oscura. Rinaldo si fermò e voltò solo il viso verso di lei, il sorriso mellifluo che si allargava di nuovo sulle sue labbra.

“Conosco gente che farebbe al caso tuo. Ti darei i nomi e da lì la scelta sarebbe solo tua. Potresti decidere che non fa per te, che preferisci trovarti un marito e crescere dei figli, oppure scegliere di dedicarti anima e corpo a questa vita. Insomma, sono affari tuoi. Ma il mio consiglio è quello di darti almeno un’opportunità.”

Luce aprì la bocca per ribattere, ma Rinaldo alzò una mano e la interruppe.

“Non serve che mi rispondi adesso. Prenditi il tuo tempo per pensarci. Lascerò i nomi a Erinne, se mai fossi interessata.”

Rinaldo si allungò verso di lei e le diede un buffetto sulla guancia, scomparendo oltre il portone un attimo dopo.

Senza fiato, spossata come dopo una lunga corsa, Luce rimase lì a guardare la bocca scura del palazzo, ad ascoltare il proprio respiro affannoso nell’immobilità della notte. Sopra di lei, una grande luna piena, unica testimone dei segreti che si annidavano negli anfratti più oscuri del suo cuore.

POSTFAZIONE DI MARCO RUBBOLI

La cara amica Caterina Franciosi ci regala con questo racconto uno squarcio sulla prima giovinezza dell’assassina Luce Selenides di Alesia, una dei personaggi più amati nella saga. Luce non ha avuto una vita facile e al tempo di questo racconto, all’età di quattordici anni, ha già ucciso almeno un uomo (come lei stessa ci racconta nel romanzo). Tuttavia, ancora non ha  scelto di fare della morte la sua professione.

Il racconto di Caterina si svolge proprio nel momento di questo bivio cruciale nella vita di Luce. L’invito a cena che sua sorella maggiore Erinne rivolge al coetaneo Rinaldo Tagliaferro (un altro dei nostri protagonisti), segnerà il destino di Luce. Se Erinne avesse saputo prima l’esito di quell’invito, di certo non lo avrebbe mai fatto.

Veniamo poi a sapere che Luce, oltre ad apprendere varie arti di combattimento dai suoi amici cattivi del quartiere, avrà un precettore di tiro consigliatole da Rinaldo stesso: una figura misteriosa molto importante per lei, ma che per ora rimane nell’ombra.

Ancora un grazie di cuore a Caterina per la sua partecipazione al progetto di questa saga. Conto di poter sfoggiare in futuro anche altri piccoli o grandi contributi provenienti dalla penna di amici scrittori… e magari anche qualcosa d’altro di Caterina, se a lei piacesse. Elelai!

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Blog: https://salottoletterario20.blogspot.com/

Pagina Facebook: https://www.facebook.com/ilsalottoletterario

Instagram: caterinafranciosi

 

Luce Selenides

 

Regno di Malia

 

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Trenta monete per Mario

aprile 12, 2019 by Marco Rubboli Nessun commento

 

Mario era solo, senza soldi, in una città di cui a volte stentava a capire il dialetto. Aveva appena finito il suo ultimo tozzo di pane e si trascinava per i vicoli bui cercando un angolo dove poter gettare lo zaino e accoccolarsi a dormire. All’indomani avrebbe dovuto assolutamente andarsene. Contava di fare a piedi la strada per le Colline Occidentali attraverso i boschi, procurandosi il cibo giorno per giorno con l’arco e un po’ di fortuna. Una volta arrivato là, in una regione più prospera rispetto a quell’Altopiano dimenticato dagli Dei e dagli uomini, avrebbe trovato qualcosa da fare. Se non come mercenario… qualsiasi cosa. Dal facchino al marinaio all’apprendista in qualche bottega: gli sarebbe andato bene tutto pur di riuscire a sfamarsi. Dopo essere giunto a Poggiomerlato con Valerio, il mercante di smeraldi, aveva incassato la paga che gli spettava e si era congedato, in attesa che scoppiasse la guerra tra il Ducato e Biancacava. Si era proposto alla milizia del Duca, e là un sergente aveva segnato il suo nome promettendogli che in caso di conflitto sarebbe stato arruolato senz’altro. Invece che dichiararsi subito guerra, però, il Duca di Poggiomerlato e il Senato di Biancacava avevano intavolato lunghe trattative, durante le quali Mario era rimasto in trepida attesa e aveva consumato tutte le sue risorse. Alla fine il Duca e la Città avevano trovato un accomodamento pacifico. E lui era rimasto fregato. Perfino le sue vecchie scarpe da città aveva dovuto vendere, tenendosi solo gli stivali.
Si stese sotto un portico, con solo la sua coperta a separarlo dalla fredda pietra, e tentò di addormentarsi. C’era quasi riuscito quando fu risvegliato dallo sferragliare di una carrozza nobiliare, che si fermò a poca distanza dal suo giaciglio improvvisato. Un servo basso e grassottello saltò giù, con un’aria piuttosto intimorita. Un uomo si sporse verso di lui senza scendere. Era un giovane gentiluomo dalla veste elegante. Mario sporse la testa da sotto la coperta che lo ricopriva interamente, per osservare meglio.
“Queste sono trenta monete d’oro per madonna Altera. Portaglieli tu e torna subito indietro. Io ti aspetterò qui.” ordinò il cicisbeo.

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LA VIA DI MARIO L’AVVENTURIERO

marzo 15, 2019 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Avrebbero seguito per un lungo tratto l’antica Via degli Dei costruita dagli antichi Mitoien, lastricata di grandi pietre piatte con l’erba che cresceva selvaggia negli spazi tra l’una e l’altra. Poi tra un paio di giorni la strada avrebbe piegato verso Sud e l’avrebbero lasciata per prendere la pista in terra battuta che portava a Poggiomerlato. Il mercante di smeraldi Valerio Bruni, i suoi due bravacci e Mario, tutti e quattro a cavallo, erano partiti di buon mattino da Grottapuledro e non si erano fermati che per un pranzo frugale, freddo, verso mezzogiorno. La preziosa mercanzia che trasportavano era tanto piccola che doveva stare da qualche parte in un sacchetto nascosto addosso a Valerio, anche se nessuno tranne il mercante di gemme lo sapeva per certo. Quindi chi li avesse visti avrebbe anche potuto scambiarli per un gruppo di cacciatori… o di tagliagole, dato che erano tutti arrmati fino ai denti. Oltre a Mario e Valerio c’erano i due sgherri di quest’ultimo: Gino e Marziale. Il primo era un ceffo azzimato di mezza età dai folti baffi neri, il secondo un tipo basso e tarchiato, sbrigativo, che non parlava quasi affatto ma in compenso sorrideva spesso. Chissà perché, faceva venire in mente a Mario certi centurioni Mitoien tozzi e robusti che si vedevano in antichi bassorilievi. Per esempio quelli raffigurati sull’arco di trionfo a Selenia: gente solida, che aveva conquistato il mondo a furia di addestramento pesante e urlacci. Valerio aveva detto che c’erano stati anche altri due uomini d’arme con lui, prima, ma poi costoro avevano ricevuto un’offerta migliore e lo avevano mollato di punto in bianco.

“Per mia fortuna”, rifletté Mario, che aveva rimediato in quel modo un bell’ingaggio.

La via si snodava sul fondovalle in mezzo a colline rocciose coperte di boschi, tra forre ombrose e polverosi calanchi.

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Casa Montebrumoso

maggio 11, 2018 by Marco Rubboli Nessun commento

Araldica: pegaso nero rampante in campo bianco (realizzata da Lara Gramigni).

Il Ducato più potente della regione delle Colline Brumose dopo Vignanera, costituito da colline e rilievi più alti e più aspri di quelli circostanti.
In particolare il castello Ducale sorge su una vera e propria montagna sita in mezzo a questa zona, isolata dalla lunga catena delle Montagne Bianche ma quasi una loro estrema propaggine che sbuchi a una certa distanza circondata da poggi minori.
Nelle sue terre più basse si produce il nobile e forte vino rosso di Montebrumoso.

Famiglia Ducale:

Duca Andrea.
Taciturno ma intelligente e cauto, piuttosto basso ma agile, con lunghi capelli neri e occhi grigi, viso magro. Porta un’armatura di un cupo color grigio ferro.

“Andrea di Montebrumoso invece, un guerriero prudente e accorto ma non meno valente, era il meno alto dei tre, sulla trentina e forse qualche anno in più. Lunghi capelli neri incorniciavano un viso magro sempre ben rasato e due ferrigni occhi grigi” “E infine, dopo un minuto, Andrea di Montebrumoso, in una cupa armatura color grigio ferro come i suoi occhi inquietanti.”

 

 

 

 

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