Per la Corona d'Acciaio - Per la Corona d'Acciaio
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I33 VALPERG

aprile 23, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

 

“I33. Valperg” dell’amico Michele Gonnella, primo esempio del genere “Sword & Apecar”, è il romanzo che mi ha accompagnato negli ultimi giorni di “arresti domiciliari pandemici”… e con grande divertimento! Assolutamente da non perdere per i praticanti di HEMA (“Historical European Martial Arts”, secocdo la denomiazione della famigerata Coalizione Nordeuropea, che nella regia lingua del nuovo regno d’Italia diventa “Scherma Storica”), ma non solo. Il romanzo prende le mosse in un retrogrado 2035 post-bellico da un paio di “sfigati” studiosi di archeologia sperimentale della Regia Università di Lucca che, per approfondire lo studio di un antico manuale di scherma e capire perché questo tratti solo dell’atipica (per tempi così remoti) disciplina di spada e brocchiero, iniziano a prendere lezioni di scherma storica da una maestra di arti marziali, Iride Santini detta “Santa”. L’I33 è un manoscritto realmente esistente, ad oggi il più antico disponibile, pubblicato in Italia da A. Morini e R. Rudilosso della Sala d’Arme Achille Marozzo per la casa editrice Il Cerchio. Le vicende dei nostri eroi si intrecciano con quelle degli antichi autori del manoscritto, in particolare la “Santa” Valperg, figlia di un crociato e di una strega convertita ma non pentita (nel ms reale effettivamente il maestro monaco guerriero viene raffigurato anche mentre insegna a una donna, chiamata “Valpurgis”). Per esigenze di trama il vero manoscritto viene retrodatato di qualche secolo, artificio necessario per situare la vicenda ai tempi in cui il cristianesimo lottava contro gli ultimi pagani (e soprattutto contro i loro Dei… o demoni che fossero) nelle terre del centro e nord Europa. L’autore ci narra, nel suo stile sempre ironico, pieno di brio e vivacità, come la strana famiglia di Valperg sia riuscita a prevalere nella sua lotta senza quartiere contro un’entità feroce e guerriera proveniente da un’altra dimensione, dai molti nomi (alcuni dei quali corrispondono a ben note divinità celtiche e germaniche). Parallelamente, il trio dei protagonisti del 2035 si trova ad affrontare una minaccia che è simile in modo inquietante a quella contro cui si è battuta l’antica suora guerriera. Lo scontro li condurrà in fuga su per i greppi abbandonati della Lucchesia collinare, frequentati solo da anziani relegati in ospizi e pochissimi abitanti. Per lo meno pochissimi abitanti umani. Al lettore scoprire se la moderna Iride “Santa” Santini saprà uguagliare le imprese di Santa Valperg, monaca, strega e guerriera. Fra botte da orbi, lame, brocchieri, demoni guerrieri, folletti schizzinosi e antichi manoscritti, il divertimento è assicurato.

 

Qui sotto: la copertina dell’edizione italiana del vero manoscritto I33, a cura di Andrea Morini e Riccardo Rudilosso per ed. Il Cerchio

 

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GIANO “IL BIDONE”

aprile 22, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

Giano, un bravaccio della Casa Tagliaferro tanto grasso quanto forte, è detto “Bidone”, e non a caso. L’unico dubbio è se il nomignolo si riferisca alla sua stazza – decisamente importante, ma che non limita la sua rapidità in combattimento – o alle sue altrettanto indubbie qualità di baro. Che tu giochi a carte, a dadi, a giochi di scacchiera, che tu scommetta su corse di cavalli o incontri di lotta, se accetti di giocare con Giano hai una sola certezza: tornerai a casa con le tasche vuote, e senza sapere bene il perché. Ma Giano non è abile solo a truccare la partita, lo è anche a giocare secondo le regole: in realtà bara solo… quando gli serve per vincere! Essere il “Bidone” è diventato una parte essenziale della sua identità a tal punto che nessuno ricorda il suo vero cognome. Fedelissimo della nota Casata di lenoni di Alesia, ricca ma famigerata, e in particolare di Rinaldo, appare solo come comparsa in “Per la Corona d’Acciaio”, senza che ne venga fatto il nome… perché Luce Selenides (è lei a incontrarlo) non lo conosce. Chi ricorda in quale occasione l’assassina si è imbattuta in un grosso sgherro pelato dei Tagliaferro? In “Contro Due Imperi” conosceremo Giano molto meglio. Attenti, però, a non scommettere mai contro di lui!

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ARRUOLATO!

aprile 12, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Ai piedi dell’Altopiano Centrale, il Feudo di Campofiorito si estendeva davanti ai loro occhi cosparso di querceti, castagneti e di macchie di agrifoglio e rosaspina, con piccoli borghi turriti e antichi manieri che sorgevano in cima ai poggi. Branchi di cavalli correvano liberi su vasti prati e nugoli di lepri correvano a nascondersi nei roveti di more che serpeggiavano a fondovalle, all’approssimarsi della carovana di muli del mercante Piero Briganti.

“Qui presto imperverserà la guerra: al di là di quei colli si trova il passo verso le Colline Occidentali. Non credo che i Duchi e le Città trovino un accordo con il Re: entrambi i bandi sono costretti dalle circostanze a dimostrarsi forti e inflessibili. Ci conviene muoverci in fretta.”

Nessuno, né Piero Briganti né il Griso, il bravaccio che comandava le guardie, trovò alcunché da obiettare o da aggiungere alle parole di Alberto, l’anziano capo dei mulattieri.

Come a rimarcare le loro preoccupazioni poterono avvistare di frequente, da lungi, gruppi di esploratori a cavallo. Molti portavano armature sulle quali il sole si rifletteva da lontano. Era cavalleria pesante, quindi, forse addirittura nobili.

Procedettero perciò di buon passo diretti verso la cittadella Ducale, senza perdere nella locanda che trovarono sulla strada più tempo di quello strettamente necessario a cenare e trascorrervi la notte.

Durante la mattinata del secondo giorno la via smise di snodarsi fra colli sempre più bassi e prima di mezzogiorno divenne una strada dritta in un paesaggio piatto, fra campi coltivai e pascoli. Lì i villaggi erano più grandi e fitti, cinti da mura di mattoni. Il sole aveva preso ad abbassarsi e tingersi del color delle arance quando, da una leggera foschia che si era alzata dalla terra, si riuscì a intravedere la cittadella. Un’alta muraglia di mattoni rossicci racchiudeva un grosso borgo. Svettavano oltre l’altezza delle mura svariate case-torri di importanti Baroni, e su tutto si alzava il bianco castello del Duca.

“E’ tutto fatto di pietra bianca portata dalle colline.” spiegò Piero “La Casa Ducale non si poteva abbassare a costruire usando i mattoni come tutti gli altri. Il denaro non gli è mai mancato, ai Duchi, e così hanno fatto questa follia. E’ stato ai tempi del nonno di Invitto, il Feudatario attuale.”

“Invitto di nome e di fatto!” esclamò il Griso, tutto gongolante.

All’occhiata interrogativa di Mario il mulattiere Alberto spiegò: “Il Duca è uno dei migliori giostratori del Regno, e ha vinto parecchi tornei. Però non è vero che non sia mai stato sconfitto: qualche volta anche lui si è trovato col culo per terra.”

“Bah, molto raramente.” interloquì il Griso.

“Poche volte.” concesse Alberto.

Piero non partecipava più alla conversazione. I suoi occhi, bramosi e preoccupati al tempo stesso, erano fissi sulla cittadella dove doveva smerciare le sue mercanzie. Era teso come un segugio nel momento cruciale della caccia.

Alle porte furono fermati dalla guardie.

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FREYA DI SNORRISHEIM

aprile 8, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

Freya è una guerriera nordica, la Principessa di un piccolissimo regno dei Popoli del Mare costituito – come è costume da quelle parti – da un solo grande villaggio fortificato e dalle gelide terre circostanti. Orgogliosa e testarda quanto abile nel maneggiare le armi, è solita seguire il padre nelle sue razzie lungo le coste dell’Impero Dosthan e dell’Isola delle Brine. Bionda e con gli occhi azzurri come è tipico della sua stirpe, ha un corpo forgiato dal mare e dall’acciaio. Gli angoli degli occhi segnati da qualche ruga precoce causata dal vento e dal sale danno all’espressione del suo viso, altrimenti perfetto, una sfumatura crudele. I nostri lettori hanno fatto la sua conoscenza proprio alla fine di “Per la Corona d’acciaio”, nel momento in cui uno scontro disastroso ha cambiato per sempre la sua vita. Nel resto della saga avrà un ruolo di primo piano.

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GUGLIELMO CARONTE

marzo 31, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

Questo bravaccio quarantenne fedele alla Casa Tagliaferro, di mente sveglia e arguta, è un esperto avvelenatore. Conoscitore di ogni sorta di intrugli velenosi dagli effetti più diversi (tra cui quelli che usa l’assassina Luce Selenides per i suoi dardi, da quelli soporiferi o paralizzanti fino ai più letali), è anche un abile arciere. Infine, è un raffinato conoscitore di vini e di gastronomia, forse l’altra faccia della medaglia della sua conoscenza di pozioni tossiche di ogni tipo. Non esagera mai col bere, al contrario è sempre molto attento a centellinare e degustare quantità di alcolici decisamente ridotte. Il suo comportamento guardingo nei confronti delle amate bevande si spiega con una fase della sua vita nella quale, a causa di una tragedia che lo aveva distrutto, si era ritrovato ridotto a un barbone alcolizzato. Fu il vecchio Astore Tagliaferro a salvarlo a viva forza da quella caduta rovinosa, e da allora la sua devozione per la famiglia Tagliaferro è diventata d’acciaio. Fisicamente è un tipo smilzo, con capelli ormai radi e una barbetta a pizzo color pel di carota.

 

 

 

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IL PONTE E LA SCALA

marzo 30, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

 

“Saranno almeno trecento passi, forse di più. Una caduta in verticale bella lunga, non credi?”

Mario si trasse indietro dallo strapiombo e il Griso sogghignò.

“Lascialo stare, Griso! Lui fa la discesa per la prima volta, tu invece l’avrai già affrontata in trenta viaggi.” disse Piero.

“Trentadue.” puntualizzò il Griso.

“Vuoi che racconti come te la sei fatta nelle brache la prima volta?”

Il bravo lanciò uno sguardo di fuoco a Piero. Ma il mercante era il suo padrone. Così, nonostante il cattivo latte che doveva aver succhiato da sua madre, il bravo si morse la lingua e se ne stette zitto. Alberto, il vecchio capo mulattiere, rise di gusto.

“Anch’io mi ricordo!”

“Fottiti, Alberto! A te posso dirlo.”

Il bravaccio era risentito perché quei due gli avevano rovinato il gioco.

Mario, dal canto suo, era pronto a difendersi da solo e non fu grato più di tanto dell’aiuto che gli era venuto dal suo capo.

La carovana di muli di Piero Briganti stava affacciata proprio sul bordo settentrionale dell’Altopiano Centrale. Quelle che vedevano laggiù in basso, invece, erano le terre del Ducato di Campofiorito. Pareva quasi di vederle disegnate su una mappa, da lì, mentre il vento soffiava tra i capelli di quelli che si avvicinavano al precipizio.

“Uh, senti come ulula!” commentò a voce alta uno dei mulattieri più giovani.

“Fa sempre così, qui, sempre. Non smette mai. E’ l’aria che viene da sotto e quando urta il fianco dell’Altopiano viene su gridando e prende velocità. Senti come tira: pare quasi che se uno si tirasse di sotto potrebbe andare in su invece che cadere, da quanto è forte. Questa parte del tragitto ti fa cacare sotto ma è uno spettacolo.” Alberto sorrideva, sornione.

Mario deglutì, ma poi cercò di mostrarsi all’altezza.

“E noi da dove passiamo, per scendere? O dobbiamo davvero buttarci e il vento ci depositerà di sotto senza farci alcun danno?”

Alberto gli fece un occhiolino: “Sì, magari. A dire la verità c’è una vecchia leggenda…”

Piero, il mercante che pagava il soldo di tutti, lo zittì:

“E basta con tutte le tue leggende, vecchio. Non c’è tempo adesso, sennò facciamo notte a metà della scalinata e siamo fritti.”

Fu la volta del carrettiere di abbozzare.

“D’accordo, hai ragione Piero. Te la racconto un’altra volta, Mario. Magari stasera, quando saremo giù.”

Poi Piero si rivolse a Mario:

“Comunque da qui non si vede ma c’è un passaggio, anche se non è certo agevole. Vedrai. Dobbiamo proseguire mezzo miglio verso Est. Andiamo.”

“Vedrai.” gli ripeté il Griso all’orecchio mentre gli passava accanto.

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ETERNAL WAR

marzo 25, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

In questo “Dantedì” 25 marzo 2020 vi parlo della mia lettura più recente: Eternal War di Livio Gambarini, ed. Acheron Books. Anche questo è un fantasy storico, sempre nel senso opposto al mio “Per la Corona d’Acciaio”: presenza di magia ed esseri fantastici ma in ambientazione reale, in questo caso ancora Firenze. La vicenda però si svolge parecchio tempo prima di quella di “Gens Arcana” di Cecilia Randall di cui vi ho parlato poco fa: non siamo infatti ai tempi di Lorenzo il Magnifico ma in quelli di Dante, e precisamente dalla battaglia di Montaperti a quella di Campaldino. L’autore ha osato molto: il protagonista è niente di meno che il poeta e guerriero Guido Cavalcanti! Ovviamente accanto a lui ci saranno i giovani Dante Alighieri e Beatrice, Lapo e Farinata degli Uberti e tanti altri personaggi di quell’epoca straordinaria. Accanto a loro, e parallelamente a loro, lottano sul piano dello Spirito i loro spiriti ancestrali: entità che vegliano ognuna su una specifica famiglia, composte dall’essenza di tutti i Pater Familias del passato. Nel loro mondo si muove una quantità infinita di entità come i Santi Patroni, i terrificanti Estinti dell’antica Roma, spiriti selvaggi, i Genii Loci di palazzi e case e perfino divinità pagane come le Muse. Ognuno di essi svolge un ruolo nella guerra eterna fra Guelfi e Ghibellini e nei conflitti che dividono fra loro le varie stirpi: si combatte tanto nel mondo visibile della Materia quanto in quello invisibile dello Spirito. In tutto ciò, fra battaglie, agguati e intrighi che sia uomini che spiriti si tendono l’un l’altro, spicca la figura eroica e magica di Guido Cavalcanti, su cui il suo spirito ancestrale Kabal ha scommesso tutto per riportare in auge la sua famiglia rovinata dalla sconfitta a Montaperti. Non mancheranno sorprese, scontri, amori e colpi di scena, e avremo il privilegio di assistere “in diretta” alla nascita del Dolce Stil Novo. La ciliegina sulla torta sono le citazioni dei sonetti del tempo, che mi hanno spinto a sfogliare di nuovo qualche bella pagina antica studiata molto, troppo tempo fa. Che ne dite, la sfida vi attira?

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ZAPPA E SPADA

marzo 18, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

“Zappa e spada”, ed. Acheron. Questo è stato il libro che mi ha accompagnato nella mia settimana di ferie agostane, e infatti ora lo vedete disfatto, poveretto, dai voli aerei con ritardo, le spiagge irraggiungibili, i labirinti e le stradine da capre di Creta. Ma questo stato pietoso, trasandato come il “Biondo” della trilogia dei dollari, gli si addice trattandosi di “spaghetti fantasy”. Un’antologia di racconti davvero godibile, dal primo all’ultimo. Vi troviamo un fantasy spietato, affamato, popolano e popolaresco, decisamente nostrano. Questa antologia ha dato origine al movimento di “Ignoranza Eroica”. Ci sono interessanti esperimenti linguistici “così in alto come in basso”, per esempio nei racconti di Luca Mazza e di Michele Gonnella, e poi ancora magia e orrore, turpitudini, intrighi ed eroismo disperato. Difficile fare una classifica: posso dire che ho apprezzato molto i racconti dell’amico Jari Lanzoni e di E.T.A. Hoffman ma sinceramente non ne ho trovato nessuno che mi abbia deluso: tutti bravi, ad ennesima controprova che le nostre penne non hanno nulla da invidiare a quelle forestiere e meriterebbero più attenzione! Mi è sorto spontaneo il confronto con alcune mie creazioni nella saga di “Per la Corona d’Acciaio”. Nel romanzo e nella maggior parte dei miei racconti l’ottica principale è quella – comunque privilegiata – di nobili, mercanti, mercenari e assassini d’élite, mentre il punto di vista della soldataglia comune e dei contadini comincerà ad apparire nel seguito “Contro Due Imperi”. Certo, perfino i miei soldatacci e contadini sono un po’ meno “sporchi, brutti e cattivi” rispetto ai ceffi che troverete in questo volume (assomigliano più ai vecchi contadini che ho conosciuto nella vita reale che ai messicani degli “spaghetti western”), e difficilmente a Malia avrete a che fare con la magia oppure con orrori che non siano opera degli uomini. Ma una certa affinità e direi quasi parentela è abbastanza chiara, quindi non stupitevi se ho voglia di manifestare qui il mio apprezzamento.

Perché quando l’uomo con la zappa incontra l’uomo con la spada…

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LA GIOSTRA DI FLORA – III

gennaio 27, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Parte Terza

Parte Terza

L’ultimo giorno la giostra non si svolgeva sulla piana fuori le mura come le fasi iniziali, ma nell’antico Teatro della città che si ergeva a metà strada fra il paese e l’Acropoli, scavato nel fianco della collina rocciosa di Ertapietra. Mi avevano riferito che il Teatro risaliva agli antichi Isolani che avevano colonizzato Tiria molto secoli or sono. Lo usavano per mettere in scena le loro tragedie. Poi con i Mitoien le gradinate più basse erano state rimosse e il Teatro era stato adibito anche ai giochi gladiatori e alle venazioni di belve feroci.

Galeazzo e io ci eravamo accodati ai Gallessani, così risalimmo le ripide vie della cittadella e ci arrampicammo sul sentiero sassoso che conduceva al Teatro, sempre seguendo la tetra testa di lupo in campo rosso dei Maravoy. Dietro di noi avanzavano gli alfieri dei Campofiorito, drappeggiati nelle loro vesti e bandiere bianche e rosse.

Poi mentre i contendenti entravano dalla porta principale che dava sulla scena con i loro paggi e scudieri, noi e tutti gli altri accompagnatori salimmo gli scalini sulla destra e prendemmo posto sulle gradinate.

Le enormi colonne della scena da lassù parevano svelte e snelle; fra l’una e l’altra si intravedeva il mare d’un blu scurissimo. Laggiù galleggiavano alla rada le galee dei nobili convenuti, circondate dalle barche dei pescatori quasi come imponenti cigni attorno a cui si accalchino degli anatroccoli. Dall’altro lato si poteva ammirare l’alto vulcano innevato che si innalzava a non troppa distanza, e che alcuni dei signori presenti al torneo avevano visitato a cavallo nei giorni precedenti la disfida, accompagnando le loro dame.

“Si dice in giro” mi informò Galeazzo “che in quell’occasione Lyonel Maravoy abbia potuto parlare a lungo con Demetra di Mykenes, e che sia lì che è scattato qualcosa fra i due. Qualcosa che però, a quanto pare, il padre della damigella Isolana non approva del tutto. Lyonel è un magnifico signore, un ottimo partito anche per una Principessa delle Isole. Però fra gli Isolani la distinzione fra nobili e popolani è molto più sfumata che da noi, figurarsi in confronto a quegli altezzosi Gallessani. Forse l’Autarca teme che la figlia possa essere considerata di rango inferiore dai nobilastri di Gallesse, e quindi disprezzata.”

Lo spazio disponibile per i cavalieri in lizza non era tanto vasto quanto nella piana, quindi avrebbero dovuto partire subito lanciati alla massima velocità: non c’era tempo per accelerare gradualmente, né per rimediare a un errore.

Per primo gareggiò Lyonel Maravoy contro un Principe Isolano: il figlio dell’Autocrate di Zakinthos. Si colpirono a vicenda sullo scudo, spezzando entrambe le lance, ma nessuno dei due cadde. Allora sguainarono le spade e presero a tempestarsi di colpi girandosi intorno. Ognuno tentava di mettersi in posizione di vantaggio, cercando il lato sinistro dell’avversario. Gli zoccoli dei destrieri tormentavano l’arena del campo, gli scudi si riempivano di ammaccature. A un certo punto Lyonel colpì l’Isolano al petto con lo scudo, precipitandolo giù di sella. Cavallerescamente l’Erede di Castelbrun scese anche lui e attese che l’altro si alzasse. Si affrontarono a piedi. La lotta non fu breve: entrambi erano giovani, abili e forti, e nessuno voleva cedere. Ma, preso dalla foga, il nobile di Zakinthos scoprì la mano tirando un mandritto. Maravoy fece scattare la sua lama, e gli inchiodò il palmo della destra. L’Isolano lasciò cadere la spada e alzò le braccia in segno di resa. Lyonel rinfoderò la sua lama e fu il primo a soccorrerlo. Non c’era sangue, ma il Principe di Zakinthos faceva fatica a chiudere le dita per il dolore della botta. Prima che il ferito fosse portato via il Gallessano andò ad abbracciarlo. Nessun rancore, erano entrambi gentiluomini e ognuno aveva potuto avere un assaggio del valore dell’altro.

Ancora una volta Lyonel prima di lasciare il campo camminò fino alla zona dove stavano i signori di Mykenes e rese omaggio alla damigella del suo cuore.

“Bello!” disse Galeazzo, quasi stendendosi sul marmo del sedile “Hai visto che ha imitato quello che hai fatto tu prima a Claudi? Sarà un ottimo allievo.”

“Io non ho tirato una punta, ma un colpo di filo falso.” puntualizzai.

“Bah, cambia poco, l’azione era quella.” rispose il mio amico con un gesto come a scacciare delle mosche fastidiose.

Fu la volta di altri combattenti, e poi toccò a Claudi de Naute-riu.

“Se vince, poi dovrà combattere col suo signore.” osservò Galeazzo.

Alzai un sopracciglio.

“Davvero? Non mi sembra una bella cosa. Non potevano smistarli in modo diverso?”

Lui fece spallucce.

“La scelta degli scontri è casuale: un sacerdote estrae a caso le sorti di ognuno.”

“I sacerdoti sono dei vecchi marpioni abili di occhio e di mano, e per lo più corrotti.” risposi, insinuando un dubbio sulla correttezza della scelta. Ne sapevo qualcosa, io, dei trucchi di Stregoni e sacerdoti.

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LA GIOSTRA DI FLORA – I

novembre 29, 2019 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Parte Prima

I destrieri da guerra lanciati uno contro l’altro sudavano copiosamente sotto il sole spietato dell’isola di Tiria. I loro manti erano lucidi per lo sforzo. Anch’io ero madido. Mi asciugai la fronte col dorso della mano. Il cavaliere a sinistra era un Gallessano, sullo scudo una testa di lupo nera in campo rosso. Da destra si precipitava contro di lui il figlio di un ricchissimo mercante locale, un tale Salvatore Ranieri originario proprio di lì, di Ertapietra. Sulla sua rotella la testa feroce di una Furia dai lunghi canini. Il Gallessano all’ultimo si spostò di lato, e si scontrarono con un gran fragore. Avevo visto quello spettacolo parecchie volte, ma non cessavo di stupirmi della violenza degli urti che i contendenti si scambiavano. Solo l’abilità dei migliori armaioli poteva impedire che questi cavalieri morissero come mosche quando praticavano la loro attività preferita. Io, dal canto mio, avrei preferito affrontare dieci sgherri armati in un vicolo che fare una roba del genere. La lancia del mercante strisciò sullo scudo del Gallessano e aprì una sorta di cicatrice color acciaio sul muso del lupo che vi era raffigurato. Ma l’arma di quel Lyonel Maravoy invece colse il suo avversario in pieno petto, appena sopra al bordo della rotella. Per un istante l’asta di legno di frassino arrivò a curvarsi, mentre il pubblico tratteneva il fiato. Poi la cinghia sottopancia del cavallo del contendente locale cedette, e lui fu proiettato indietro. Salvatore Ranieri cadde nella polvere con tutta la sella. Maravoy si ritrovò lanciato avanti, ma subito tirò le redini di lato, fece girare il destriero su se stesso e balzò giù. Non si curò di armarsi ma accorse presso il suo avversario, per controllare se fosse ancora vivo. Quello era scosso, ma stava già cercando di liberarsi delle staffe e rialzarsi. Il Gallessano gli porse una mano però l’uomo di Tiria lo scacciò via, quasi in malo modo. Ranieri non aveva intenzione di arrendersi, anche se sul suo pettorale era evidente una grande ammaccatura centrale. Strano che non si fosse rotto delle costole, pensai, era stato fortunato. Mentre il giovane arrancava per rialzarsi Maravoy tornò al suo destriero ed estrasse la spada, il cui fodero era fissato alla sella. Fece un paio di molinelli per sgranchirsi il polso, che doveva aver subito il contraccolpo della botta di lancia, e si mise in guardia protendendo lo scudo. Aspettò con calma che il suo avversario fosse pronto. Intanto intorno a loro si andavano radunando giudici di gara, sergenti e araldi. I duellanti iniziarono a studiarsi, scambiandosi qualche colpo cauto. Il giovane mercante fece una finta sopra lo scudo e tagliò un mandritto alle gambe, ma Lyonel Maravoy balzò indietro sottraendosi al colpo. Poi fu lui ad attaccare: tentò di girare prima a sinistra e poi a destra dell’avversario rifilandogli al contempo ben quattro botte, che però il contendente locale riuscì sempre a parare o a schivare. Dopo aver ripreso fiato il ricco mercante si lanciò avanti con un roverso alto. Scelta infelice, osservai fra me e me. Il Gallessano ne approfittò subito: parò di spada, spinse l’arma di Salvatore Ranieri alla propria destra senza lasciarla andare, fece un passo avanti col piede sinistro e colpì di punta all’interno del braccio destro del mercante. La lama, pur smussata, si infisse nel bicipite. Il pubblico poté vedere la giubba imbottita del cavaliere di Ertapietra intridersi di sangue, che poi stillò a terra in grosse gocce. Due sergenti si gettarono in mezzo impugnando le partigiane e li separarono. Era finita. Maravoy alzò le braccia in segno di trionfo. Il perdente si tolse l’elmo rivelando un’espressione di dispetto, poi fu costretto a stringere la mano al vincitore, sia pure con una stizza che non tentò affatto di celare. Anche se lo sconfitto era un mio compatriota, o quasi, la sua scortesia mi aveva spinto a parteggiare per lo straniero. Così, pur senza esultare troppo, mi concessi un sorriso di soddisfazione. Ad ogni modo Maravoy si era dimostrato superiore sia a cavallo che a piedi, aveva meritato la vittoria e i festeggiamenti che i suoi vassalli gli stavano tributando in quel momento. In realtà per un popolano era già molto essere arrivato fino a quel punto della giostra: quel giovane mercante poteva essere contento della propria abilità con le armi. Un po’ meno della mancanza di gentilezza che lo aveva contraddistinto. A lui sarebbero state riservate adesso le cure del cerusico.

Messer Maravoy fece allora qualcosa di inaspettato: estrasse da una borsa della sella un drappo di tessuto prezioso con il blasone dei Conti di Castlebrun e camminò verso il palco dove stavano gli spettatori della nobiltà.

Poi lo baciò, e lo lanciò a una giovane dama. Era un gesto molto impegnativo. Mi sforzai di vedere chi fosse, ma era troppo lontano. Però ero curioso, quindi mi feci largo tra la folla.

La damigella che stringeva il drappo era una bellezza, aveva lunghi capelli castani e grandi occhi azzurri. Aveva le guance un po’ arrossate. Comprensibile. Il padre della fanciulla, al suo fianco, era rigido come una statua di pietra. A giudicare dalle vesti dovevano essere originari di Tiria oppure Isolani. Ma perché stare a fare illazioni? C’era un araldo proprio lì alla mia portata.

“Scusate, signore, sapete dirmi per caso chi sia quella damigella a cui il nobile Maravoy ha porto omaggio?”

L’araldo, secco e rugoso come una vecchia tartaruga, mi squadrò come se fossi uno straccione.

“Ma certo. E’ Demetra di Mykenes, figlia dell’Autarca. Non vedete le loro insegne?”

Come no, certo che le vedo. Ma non sono un araldo. Vengo dall’Altopiano Centrale e non sono mica tenuto a conoscere tutte le stirpi delle infinite Isole che costellano il mare, no?

A volte quelli di Tiria erano fastidiosi: tendevano a considerare la loro isola il centro del mondo e loro stessi gli unici esseri umani perfetti. Chi si ritiene perfetto non potrà mai migliorare, l’avevo imparato a mie spese molto tempo prima, all’accademia di scherma a Novafortia. Gli uomini di Tiria non si ritenevano né Maliani né Isolani ma in qualche modo credevano di stare al di sopra di entrambi. Erano in realtà semplicemente una via di mezzo tra i due.

Comunque mi tenni per me la rispostaccia che avrei potuto dare e tornai a girarmi verso la lizza.

Mentre scudieri e paggi portavano via cavalieri, armi e cavalli da guerra si iniziò a preparare il campo per l’ultimo scontro della giornata, che vedeva ancora in lizza un cavaliere di Castelbrun. Era il giovanissimo Barone Claudi de Naute-riu, l’ultimo straniero ancora rimasto in gioco oltre al suo signore che aveva appena vinto lo scontro, e a un Principe Isolano. I cavalieri di Castelbrun si erano fatti valere al di là di ogni aspettativa. Altri Gallessani, Dosthan, Isolani e uomini dell’Ovest erano stati riportati alle loro tende con fratture e lesioni. Quelli feriti in modo più lieve si assiepavano dall’altra parte dello steccato, per assistere agli scontri di chi era stato più fortunato di loro. La giostra dedicata alla Dea Flora, che si teneva ogni tre anni a Ertapietra, aveva sempre avuto fama di essere tra le più dure. Oltre ai migliori campioni delle giostre dell’intero Continente, alcuni dei quali vivevano vagando di continuo di torneo in torneo, di giostra in giostra, si presentava un gran numero di cavalieri da tutte le Terre Meridionali di Malia, dalle altre Isole e, com’era naturale, da Tiria stessa.

Tamburi e chiarine iniziarono a suonare, annunciando il combattimento. Il diciassettenne Barone di Naute-riu affrontava un cavaliere di Rocciarossa, un Feudo sulla Costa del Tramonto. Era costui un certo Marco Sarti, un veterano che aveva giostrato in giro per tutta Malia. Io avevo visto entrambi tirare di spada: Claudi in addestramento presso la sua tenda, un paio di giorni prima, e Marco Sarti in un torneo ad Altarocca tre anni fa. Perciò ero certo che se fossero giunti alle spade l’esperto uomo di Rocciarossa avrebbe potuto battere senza troppi problemi il sia pur valoro Gallessano. Riconobbi il blasone rosso e oro del signore di Rocciarossa, che il cavaliere suo vassallo portava in campo con onore anche quel giorno.

Dall’altra parte veniva avanti Naute-riu, con la visiera dell’elmo alzata a mostrare i tratti piacevoli e regolari del volto. Ognuno dei due aveva già eliminato cinque avversari, a quel punto. Il vincitore dello scontro sarebbe entrato fra gli otto migliori del torneo, e all’indomani avrebbe avuto l’occasione di battersi ancora per il primo posto. I destrieri sbuffavano, inquieti. Il sole aveva preso ad abbassarsi sull’orizzonte ma il caldo era ancora asfissiante.

Al segnale degli araldi il Gallessano abbassò la visiera ed entrambi i cavalieri diedero di sprone. Quando furono vicini Sarti abbassò la lancia spostandola a sinistra e si piegò. In quel modo, alzando l’arma all’ultimo momento avrebbe scostato l’arma del Gallessano alla propria destra mandandola fuori bersaglio, mentre la sua avrebbe centrato l’avversario in pieno. Una manovra ardita. Ma quando il Maliano alzò la lancia Claudi de Naute-riu abbassò la sua, la passò sotto a quella di Sarti e tornò a rialzarla all’interno, trasportandogli l’arma nemica fuori dalla linea. Colse il Maliano alla spalla sinistra, rovesciandolo a terra. Sarti cadde di sella fra il rumoreggiare della folla. Quando il giovanissimo Claudi frenò il suo bianco destriero e gli applausi cessarono, si udirono le grida di dolore del cavaliere di Rocciarossa. Lo soccorsero. Non c’era sangue, ma lui si rotolava per terra e non smetteva di gridare. Anche il Gallessano scese di sella e si tolse l’elmo, preoccupato.

I medici liberarono Sarti dello spallaccio, che aveva una bella ammaccatura, e poi di tutta la parte superiore dell’armatura. Dovettero togliergli anche la giubba imbottita e la camicia, e a quel punto si vide che, sotto a un vasto livido nerastro, la spalla era lussata. Aiutarono Marco Sarti a mettersi in ginocchio, poi uno dei medici gli tirò forte un braccio e l’altro operò sul deltoide ricollocando l’osso nella sua sede.

Il cavaliere respirò forte. Il suo corpo muscoloso e cosparso di cicatrici era tutto sudato e lucido, per la gioia delle dame presenti.

Quando riuscì ad alzarsi si prese anche lui un applauso dal pubblico.

Claudi gli sorrise, rassicurato:

“Spada?”

Quello fece cenno di no e scosse la testa.

“Non oggi, mio signore. Un altro giorno sarò felice di accontentarvi, ma per oggi ho già ricevuto la mia lezione. Siete stato incredibile con la lancia, complimenti.”

“Grazie a voi, è stato un onore incontrarvi sul campo.”

Si strinsero la mano.

Era finita.

La gente iniziò ad allontanarsi a piccoli gruppi, in attesa che calasse il sole e l’aria rinfrescasse. Allora sarebbero iniziate le danze, le bevute e i corteggiamenti. Io bighellonai un po’ in giro, fino a che mi parve di vedere tra la folla il cappuccio di una cappa che mi parve di riconoscere. Non era possibile. Non potevano avermi seguito fino a lì, così lontano dalla mia terra. Eppure, se non proprio lui, ero sicuro che fosse uno di loro.

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