“I principi del mare” di Andrea Gualchierotti, pubblicato da Edizioni Il Ciliegio vi trascina nel mondo dei poemi epici omerici, seguendo la vicenda del principe Alkas, fratello di uno dei Proci massacrati da Ulisse al suo ritorno a Itaca. La storia di Alkas non è solo piena di avventure, viaggi per mare, intrighi, azione e meraviglie, ma è anche portatrice del sapore di quelle terre ed epoche arcaiche: vi dona il gusto salmastro degli spruzzi d’acqua marina sul volto di marinai diretti verso l’ignoto, sponde selvagge e sconoscute e soprattutto personaggi e vicende degne del mito e della tragedia greca, come l’affascinante regina-strega Calliroe. Questa coprotagonisa in particolare ha la forza oscura, sensuale e dannata di una Medea o una Circe, e sovrasta con la sua nera stregoneria e le sue trame su ogni altro personaggio, Alkas compreso.
Ma parliamo dello stile di scrittura: coerentemente con l’ambientazione spesso si ha addirittura la sensazione di leggere in realtà non un romanzo scritto in lingua italiana, ma la traduzione di un testo originale in greco antico, tanto gli stilemi e le costruzioni dell’epica sono entrati nel sangue dello scrittore. Non che manchi la scorrevolezza, tutt’altro: il lettore non si annoierà nemmeno per un secondo, ma pur procedendo speditamente nello svolgimento dei fatti si può godere di tutta l’atmosfera del mondo antico. Ho pensato spesso, mentre assaporavo questa particolare scrittura, alle considerazioni di Borges sulle pseudo-traduzioni: il grande maestro argentino parlava infatti del fascino aggiuntivo che le traduzioni traggono dai modi di dire, le frasi idiomatiche e anche i proverbi di una lingua straniera, che – al contrario di quelli tipici della nostra lingua, a cui siamo abituati – appaiono originali, inusitati e pieni di fascino. Pensiamo per esempio a quanto scontata suoni la frase “era fra l’incudine e il martello” in italiano, e quanto invece fascinosa ed evocativa la traduzione letterale dallo spagnolo “era fra la spada e la parete”. Ugualmente, da uno spagnolo sarebbe giudicata molto espressiva e colorita la traduzione dall’italiano “estaba entre el yunque y el martillo”, mai sentita nella sua lingua. Per la saga di “Per la Corona d’Acciaio” infatti ho preso in prestito frasi idiomatiche e proverbi da varie lingue neolatine e dialetti, o ne ho inventati di sana pianta, per dare un’impronta originale alla lingua del Regno di Malia. Invece in questo caso è l’attrazione del greco antico sulla scrittura di questo romanzo che ci dona tutto il fascino di un’altruità tanto lontana da noi nel tempo quanto familiare, almeno per chi come me si sia dovuto cimentare in gioventù con la traduzione da quella antica e splendida lingua.
Dopo avervi consigliato calorosamente questa lettura, chiudo con un’ultima notazione, c’è infatti un altro aspetto che voglio segnalare: la presenza costante della religione di quei tempi, che nasce dalla mescolanza di riti e credenze di popoli diversi, sia ellenici arcaici che barbari, dove la magia, il sacrificio di sangue, divinità spesso feroci marcano la vita e la morte con una forza e una vitalità assolute. Nel più profondo di selve oscure e antri ctonii intravediamo con terrore quel che è nascosto e pure fa parte della religione antica: l’orrore metafisico di un universo dominato in origine non dalla luce di Apollo nè dalla giustizia di Zeus ma da belve immortali assetate di sangue, orrore rinnovato in epoche più recenti da un geniale visionario come Lovecraft. Ci viene così svelato il nostro stesso cuore di tenebra, che i secoli hanno tramutato in miti erroneamente creduti familiari e gentili quando invece, a ben guardare, la tenebra domina e il sangue gronda copioso in ognuno di essi. Nè, quando ci si lascia alle spalle la soglia di casa, è possibile ai mortali tornarvi: dopo lunghe peregrinazioni se si ha la fortuna di sopravvivere si scopre sempre che il posto che chiamavamo casa non è più lì ad attenderci, come anche noi non siamo più le stesse persone che un giorno si sono avventurate in mare. Eppure con un po’ di aiuto da parte del caso o del Fato, la forza di un eroe può provare a contrapporsi a mostri e avversari, perfino alle truculente macchinazioni di potenti streghe e alla fame di divinità oscure. Se non altro, sarà allora possibile, forse, accompagnarsi ad altri raminghi per intraprendere nuove imprese. Sottrarsi al fango primordiale da cui proveniamo non è cosa da poco ma nemmeno un’impresa del tutto impossibile, e non è un caso se proprio dal mondo ellenico ha preso l’avvio quel processo che oggi ancora alcuni di noi osano chiamare “civilizzazione”.
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