Quando si combatteva faccia a faccia con una spada in mano, le battaglie e le guerre non erano certo più piacevoli e umane che ai nostri giorni: immaginate orde di gente che si fa a pezzi a vicenda, con armi non dissimili a quei machete con cui ancora di recente ci si è trucidati nelle guerre civili di alcuni paesi africani. In battaglia poi si colpisce alle spalle, ai fianchi, ci si accanisce in due o più contro un avversario isolato: non è come in duello, dove almeno accanto al sangue c’è l’onore.

In “Il ritorno di Beorhtnoth”, poemetto di Tolkien sulla battaglia di Maldon fra Sassoni e Norreni, quando lo stolto cantore Totta, osservando il macello che vede attorno a sé commenta “Un tristo massacro davver questo scontro”, l’indurito veterano Tída risponde “È questa la guerra. Peggior non è oggi, di quelle che canti…”.

La distruzione, la morte e l’orrore caratterizzano la guerra dall’alba dei tempi (perfino gli scimpanzé combattono spietate guerre tribali) fino alla fine della storia, qualunque essa possa essere.

Però fino a che si combatteva a breve distanza con armi da taglio e da botta, ognuno aveva la scelta se calare la mano o no: ogni guerriero poteva scegliere liberamente se graziare o uccidere un prigioniero inerme o, in particolare, i civili della parte avversa. Si poteva decidere consapevolmente, con tutte le conseguenze del caso, se essere Uomini oppure Orchi.

La tecnologia però ha portato a qualcosa di diverso: la possibilità di uccidere e distruggere su vasta scala e a grandi distanze mediante artiglieria, bombe, missili e quant’altro.

Tolkien in una lettera scritta durante la Seconda Guerra Mondiale dice che l’Occidente ha scelto di combattere l’Oscuro Signore usando l’Anello, facendo riferimento alla tecnologia e in particolare all’aviazione militare in cui pure all’epoca combatteva suo figlio. Forse non c’era molta scelta, ma dato che si è usato l’Anello sarà meglio porre sempre molta attenzione all’Ombra che rischia di trasformare il portatore in ciò che ha combattuto. Non a caso perfino il Presidente “Ike” Eisenhower se ne uscì con quella famosa frase in cui dichiarava che, una volta sconfitto il fascismo (e poi il comunismo, possiamo aggiungere oggi), occorreva fare attenzione al “fascismo interno”, e in particolare all’apparato militare-industriale.

Sotto il punto di vista delle stragi di civili, il periodo peggiore è stato proprio il XX secolo, coi suoi bombardamenti a tappeto in cui, magari per distruggere una fabbrica di armi o un’acciaieria, si radeva al suolo un’intera città. In seguito l’uso di armi sempre più precise, chirurgiche e “intelligenti”, in mano a potenze a volte dotate di una certa vergogna davanti alla propria opinione pubblica, ha limitato sempre più – ma non eliminato – i numeri dei “danni collaterali” (in realtà bisogna tenere presente che si tratta sempre di persone reali, con una vita, affetti ecc.).

Purtroppo i civili continuano a morire ancora oggi, sotto missili imprecisi o deviati dalla contraerea, perché si trovano a vivere troppo vicino a obiettivi militari o ancora perché gente senza scrupoli li usa come “scudi umani” e l’altra parte non ha scrupoli sufficienti per rinunciare a infliggere il colpo.

In realtà se guardiamo al passato, anche in tempi remoti c’erano “danni collaterali”: Giuseppe Flavio per esempio nella Guerra Giudaica parla delle terribili macchine da guerra dei Romani, che spargevano il terrore coi loro sibili e rombi ed erano capaci di abbattere interi edifici all’interno delle città assediate con un colpo solo… edifici pieni di civili inermi, naturalmente.

Eppure allora il fenomeno era molto più limitato: in quelle epoche quando un civile moriva di solito era perché qualcuno aveva deciso che così doveva essere e qualcuno aveva calato una spada sul suo capo. Non c’era possibilità di errore, ma tutta intera la macchia cadeva sui colpevoli.

La possibilità di scelta fa una differenza abissale nella responsabilità, nel far ricadere il sangue delle vittime sulla testa degli assassini.

E’ pur vero che chi sferra un colpo a un bersaglio militare pur sopportando la possibilità che periscano anche degli innocenti si assume una responsabilità tremenda, che fa rabbrividire gli Uomini degni di questo nome. E nessuno sa che effetto possa fare un gesto simile agli occhi degli Dei.

Ma c’è di peggio: la guerra può sconvolgere la mente, una spirale di violenza subita e inflitta, la perdita dei compagni, tutto ciò può accecare i soldati facendo sì che sfoghino la loro frustrazione sui civili in un impulso cieco, come si è visto per esempio nei famigerati rastrellamenti dei villaggi nella guerra del Vietnam.

Eppure, ancora non abbiamo toccato, con queste azioni esecrabili e terrificanti, il fondo dell’abisso.

Infatti c’è chi pianifica e decide freddamente, scientemente e in piena consapevolezza di uccidere appositamente vecchi e bambini e madri, non importa per quale “nobile causa” o per quale rancore o a causa di quale presunta oppressione. Questo oggi avviene ancora, più raramente nelle guerre convenzionali (eppure ne abbiamo avuto ancora di recente testimonianze orrifiche, nella pulizia etnica e nell’intento deliberato di terrorizzare la popolazione mediante omicidi di massa), ma più di sovente nel terrorismo, in cui i carnefici ammazzano le loro inermi vittime civili a sangue freddo, in piena consapevolezza, faccia a faccia con pugnali o fucili d’assalto oppure lasciando accanto a loro uno zaino esplosivo.

Se, tornando alle idee di Tolkien (con cui concordo), si ha il diritto di difendersi non solo con la guerra aperta ma anche con la guerriglia contro le forze avversarie, facendo uso di imboscate, travestimenti, tranelli e altre azioni furtive, rivolgere le armi contro i civili invece non è moralmente giustificabile in nessun caso. Questo è un comportamento che non ha remissione, tantomeno se si parla di un’intera, deliberata strategia.

Se, come diceva il Professore, dentro ognuno di noi c’è sempre anche una parte di Orco, di certo chi si macchia di tali delitti rinuncia alla propria umanità e abbraccia per intero l’appartenenza alle schiere dannate degli Orchi.

 

 

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