di Jari Lanzoni
I RACCONTI DI MALIA

I
La terza casa oltre i magazzini dei Manzini, sul lato est del porto di Alesia, era completamente bianca. L’edificio appariva alto e curiosamente stretto, dotato di una sola stanza per ognuno dei tre piani. Non c’era alcuna insegna, non serviva, bastava attendere un poco dopo l’alba e si poteva vedere la porticina in legno schiudersi, poi una figura alta a magra che legava sullo stipite due frasche di ulivo, per poi rientrare con passo leggero.
A quel punto, in ordine, tutta la piccola fila di popolani che era in attesa faceva capolino sull’uscio. Spesso si trattava di marmaglia che era rimasta seduta per ore, respirando rabbiosamente fino all’acidosi e tamponandosi una ferita, altre volte una madre con un bambino pallido, o un neonato magrissimo. Vagabondi, disperati, bravacci, prostitute, contadini senza un soldo. Tutti loro potevano entrare nella casa dei Fratelli Giano, se con ordine, silenzio e pazienza. Lo sapevano tutti.
“Valeria di Pozzo” disse uno dei Fratelli, Polluce, mentre una ragazza giovanissima entrava nella stanza color latte, stringendo al seno una bambinetta di nemmeno due anni. “Di Pozzo come il marito, Varrone di Pozzo. Alto, barba scura. Maniscalco.”
“La piccola Vegelia” disse l’altro, Castore ovviamente, senza nemmeno guardarla, ma indicandole uno sgabello di legno su cui sedersi. “Ha i capelli del padre ma si schiariranno dopo il terzo anno.”
Valeria si era fatta sfilare la bambina tra le braccia e ora si stringeva le braccia al petto. Le dita intrecciate non riuscivano a nascondere un certo tremore.
“Non è malata” disse con la voce rotta dall’umiliazione. “Ho sentito che qui aiutate…”
“Ti sembriamo forse dei filantropi?” chiosò Polluce.
Lei scosse il capo. Guardando le loro schiene. Mai il viso o gli occhi. La stanza in cui sedeva aveva le pareti scaffalate, piene di vasi, vasetti, cartocci ingialliti, tazze di peltro colme di lunghi aghi, piccole fiasche, fogli di carta tenuti fermi da una sfera di metallo bianco, ninnoli, rotoli di erbe disseccate e pressate.
Castore e Polluce non guardavano mai i loro ospiti improvvisati, lo sapevano tutti. Ma questo non rendeva più sopportabile l’angoscia di Valeria. I due fratelli erano alti e magri, pelle candida come il latte, e lo stesso per le le tuniche immacolate che si tenevano addosso, mani lunghe, dita sottili con falangi molto pronunciate, una spolverata di radi capelli bianchi alla sommità del capo. I loro occhi azzurrissimi vagavano continuamente sul soffitto, sui medicinali, sulla scarsa mobilia, sulla lettiga, ma mai, mai sul volto di un paziente. Nemmeno si guardavano tra loro. Mai. Alcuni avevano pensato che fossero ciechi, ma semplicemente vedevano diversamente, sentivano diversamente.
“Troppo magra” mormorò Polluce sfiorando il petto della bambina. “Le ossa non si formeranno bene. E’ sfinita, poco grasso, i muscoli sono deboli.”
Valeria tirò su con il naso. Gli occhi trattenevano a stento le lacrime. “Mio marito non è tornato quattro sere fa… ho chiesto a Marcello della Valle, ho sentito il sacer…”
“Carne, ma non subito” Castore sembrava leggere un elenco e non parlare con un altro essere umano. “Una pappa di miglio. Molta acqua.”
“Carne, non pensi ad altro” lo rimbeccò Polluce. “Verdure cotte, molto meglio.”
Castore si voltò verso una serie di scaffali. “Valeria hai due stanze nel vicolo del Gallo Rosso, tornaci in fretta” si umettò con la lingua la punta dell’indice sinistro. “Passerà una donna grassa tra due ore. Avrai verdura, olio, miglio, legna, tre pani. Raccontale chi passa sul pontile sopra di te e delle facce che vedi più spesso.”
“C’è un uomo che viene ogni due giorni e incontra una fantesca magra, prima scende da una carrozza e sarebbe utile sapere chi l’aspetta dentro la vettura” Polluce era dall’altra parte della stanza e trasse da una sacca squadrata di vimini un’ampolla piena di liquido verdastro. “Un cucchiaio di questo al giorno. Niente carne prima di tre giorni. Prendi l’acqua dal pozzo vicino ai verdurai, sono centosette passi in più per te ma è migliore rispetto alla fontana in fondo alla tua strada.
“Non capisco…” balbettò la donna, sfinita dopo giorni di fame. Attendeva il ritorno del marito dopo un lungo digiuno. La sua assenza le aveva fatte sprofondare nella fame. Alesia non era la loro città, nessuno le aiutava. Aveva usato le ultime risorse per nutrire la piccola Vegelia.
“La fontana è troppo vicino all’orinatoio e la usano per pulire le sozzure durante i giorni di mercato. Usi troppo quell’acqua.”
I due gemelli non badarono alla sua confusione. “La carne la porterà il Vecchio Gioacchino, non il figlio che ha lo stesso nome. Pollame. Il brodo aiuterà Vegelia. Avrai solo tre parti di carne alla settimana. Usala bene.”
Parole di ringraziamento stavano per sgorgare dalla bocca della giovane madre, le lacrime le stavano già rigando il viso. Non potè dire una sola parola. Castore la zittì con un gesto. Polluce le restituì Vegelia tra le braccia. Avrebbe fatto di tutto per loro. Ascoltato, visto e riferito di tutto, sempre.
Dopo che la ragazza fu uscita Polluce passò davanti alla porta andando a spostare un pesante vaso da cui provenivano sentori pungenti.
“Giovane con spalle robuste, quarto in fila, rigonfiamento del pugnale nello stivale destro” disse al fratello ruotando la testa verso un punto indistinto del soffitto. “Ottone di Castro, ventidue anni. Si copre l’arma secondaria con una mantelletta inutile. Una sorella artigiana sopra Altoborgo e un fratellastro ormai vecchio che si spacca la schiena al porto. Ottimi riflessi. Leggermente sbilanciato negli scarti laterali. Cercherà di aprirti la gola da sinistra a destra, alle spalle.”