Giano, un bravaccio della Casa Tagliaferro tanto grasso quanto forte, è detto “Bidone”, e non a caso. L’unico dubbio è se il nomignolo si riferisca alla sua stazza – decisamente importante, ma che non limita la sua rapidità in combattimento – o alle sue altrettanto indubbie qualità di baro. Che tu giochi a carte, a dadi, a giochi di scacchiera, che tu scommetta su corse di cavalli o incontri di lotta, se accetti di giocare con Giano hai una sola certezza: tornerai a casa con le tasche vuote, e senza sapere bene il perché. Ma Giano non è abile solo a truccare la partita, lo è anche a giocare secondo le regole: in realtà bara solo… quando gli serve per vincere! Essere il “Bidone” è diventato una parte essenziale della sua identità a tal punto che nessuno ricorda il suo vero cognome. Fedelissimo della nota Casata di lenoni di Alesia, ricca ma famigerata, e in particolare di Rinaldo, appare solo come comparsa in “Per la Corona d’Acciaio”, senza che ne venga fatto il nome… perché Luce Selenides (è lei a incontrarlo) non lo conosce. Chi ricorda in quale occasione l’assassina si è imbattuta in un grosso sgherro pelato dei Tagliaferro? In “Contro Due Imperi” conosceremo Giano molto meglio. Attenti, però, a non scommettere mai contro di lui!
“Fabrizio stava ancora guardando fuori. Il pomeriggio era già diventato una notte d’ebano, nuvolosa e senza luna, e continuava a piovere a dirotto.
«L’accampamento è un mare di fango. Arriva quasi alle ginocchia, guarda.»
«Ci credo. È una nottata favorevole alla guerriglia di Ariete di Gransequoia: fossi in lui non me la lascerei sfuggire.»
Fabrizio si girò verso il compagno con gli occhi che brillavano di ammirazione. «È proprio in gamba, quel dannato. Questa mattina Temistokles ha detto che dovrebbe regnare lui, o qualcosa del genere. Sono in pochi a pensarla così, ma sono in molti a rispettarlo e a temerlo. E sono anche di più quelli che pensano che dovremmo lasciare in pace lui e i Gransequoia.»
Fabrizio si arrabattò nella tenda e alla fine riuscì a versare due coppe di vino caldo con pepe e chiodi di garofano.
«Contro i pensieri, niente di meglio dei bicchieri» disse, porgendo una coppa all’amico.
Vindice bevve un lungo sorso, poi poggiò la coppa, rigirò ancora una volta la spada tra le mani e la fece scivolare nel suo vecchio fodero di cuoio consunto.
…
«Fabrizio, io vado. Tu, in coscienza, puoi testimoniare che io questa notte non ho mai lasciato la tenda, vero?»
Fabrizio si strinse nelle spalle. «Se vuoi. Però dimmi dove vai.»
Vindice cominciò a spogliarsi, e indossò calze a brache nere e una giubba di lana dello stesso colore. Non tornò a indossare gli stivali ma rimase scalzo. Prese un pugnale.“
Illustrazione di Teresa Consalici
I RACCONTI DI MALIA
Ai piedi dell’Altopiano Centrale, il Feudo di Campofiorito si estendeva davanti ai loro occhi cosparso di querceti, castagneti e di macchie di agrifoglio e rosaspina, con piccoli borghi turriti e antichi manieri che sorgevano in cima ai poggi. Branchi di cavalli correvano liberi su vasti prati e nugoli di lepri correvano a nascondersi nei roveti di more che serpeggiavano a fondovalle, all’approssimarsi della carovana di muli del mercante Piero Briganti.
“Qui presto imperverserà la guerra: al di là di quei colli si trova il passo verso le Colline Occidentali. Non credo che i Duchi e le Città trovino un accordo con il Re: entrambi i bandi sono costretti dalle circostanze a dimostrarsi forti e inflessibili. Ci conviene muoverci in fretta.”
Nessuno, né Piero Briganti né il Griso, il bravaccio che comandava le guardie, trovò alcunché da obiettare o da aggiungere alle parole di Alberto, l’anziano capo dei mulattieri.
Come a rimarcare le loro preoccupazioni poterono avvistare di frequente, da lungi, gruppi di esploratori a cavallo. Molti portavano armature sulle quali il sole si rifletteva da lontano. Era cavalleria pesante, quindi, forse addirittura nobili.
Procedettero perciò di buon passo diretti verso la cittadella Ducale, senza perdere nella locanda che trovarono sulla strada più tempo di quello strettamente necessario a cenare e trascorrervi la notte.
Durante la mattinata del secondo giorno la via smise di snodarsi fra colli sempre più bassi e prima di mezzogiorno divenne una strada dritta in un paesaggio piatto, fra campi coltivai e pascoli. Lì i villaggi erano più grandi e fitti, cinti da mura di mattoni. Il sole aveva preso ad abbassarsi e tingersi del color delle arance quando, da una leggera foschia che si era alzata dalla terra, si riuscì a intravedere la cittadella. Un’alta muraglia di mattoni rossicci racchiudeva un grosso borgo. Svettavano oltre l’altezza delle mura svariate case-torri di importanti Baroni, e su tutto si alzava il bianco castello del Duca.
“E’ tutto fatto di pietra bianca portata dalle colline.” spiegò Piero “La Casa Ducale non si poteva abbassare a costruire usando i mattoni come tutti gli altri. Il denaro non gli è mai mancato, ai Duchi, e così hanno fatto questa follia. E’ stato ai tempi del nonno di Invitto, il Feudatario attuale.”
“Invitto di nome e di fatto!” esclamò il Griso, tutto gongolante.
All’occhiata interrogativa di Mario il mulattiere Alberto spiegò: “Il Duca è uno dei migliori giostratori del Regno, e ha vinto parecchi tornei. Però non è vero che non sia mai stato sconfitto: qualche volta anche lui si è trovato col culo per terra.”
“Bah, molto raramente.” interloquì il Griso.
“Poche volte.” concesse Alberto.
Piero non partecipava più alla conversazione. I suoi occhi, bramosi e preoccupati al tempo stesso, erano fissi sulla cittadella dove doveva smerciare le sue mercanzie. Era teso come un segugio nel momento cruciale della caccia.
Alle porte furono fermati dalla guardie.
Freya è una guerriera nordica, la Principessa di un piccolissimo regno dei Popoli del Mare costituito – come è costume da quelle parti – da un solo grande villaggio fortificato e dalle gelide terre circostanti. Orgogliosa e testarda quanto abile nel maneggiare le armi, è solita seguire il padre nelle sue razzie lungo le coste dell’Impero Dosthan e dell’Isola delle Brine. Bionda e con gli occhi azzurri come è tipico della sua stirpe, ha un corpo forgiato dal mare e dall’acciaio. Gli angoli degli occhi segnati da qualche ruga precoce causata dal vento e dal sale danno all’espressione del suo viso, altrimenti perfetto, una sfumatura crudele. I nostri lettori hanno fatto la sua conoscenza proprio alla fine di “Per la Corona d’acciaio”, nel momento in cui uno scontro disastroso ha cambiato per sempre la sua vita. Nel resto della saga avrà un ruolo di primo piano.
Come sanno i miei trenta lettori di solito recensisco opere di autori italiani: trovo che sia più utile indirizzare i trenta di cui sopra verso romanzi o antologie meritevoli ma che al tempo stesso non godano già di grande fama e successo di pubblico, e d’altra parte non mi sembra appropriato che il sottoscritto si metta a recensire (e quindi in un certo qual modo giudicare) i classici e i grandi autori del passato. Abercrombie però con questa trilogia che ho appena finito si merita davvero una menzione. Avevo letto “Il mezzo Re” l’anno scorso, e me lo ero proprio gustato. Il romanzo è ambientato nel Mare Infranto, una regione popolata di regni “vichinghi” che sono sorti sulle rovine di acciaio, vetro e cemento dell’antico popolo degli elfi. E’ la storia del mite principe Jarvi, secondogenito del re del Gettland che anela a una vita tranquilla come “ministrante”, ossia membro di una casta dedita alla conoscenza e a consigliare ai regnanti l’ambigua via del male minore e del bene maggiore. Jarvi infatti ha una malformazione al braccio sinistro, di dimensioni ridotte e atrofizzato, che gli proibisce una carriera da guerriero. Tuttavia il destino e macchinazioni machiavelliche di cui non è cosciente lo catapulteranno per strade del tutto diverse e molto pericolose, fra incursioni, pirati, schiavi e re guerrieri, costringendolo a cambiare e indurirsi. Non vi posso dire di più, perché i colpi di scena non mancano. Finita la lettura mi ero precipitato ad acquistare gli altri due volumi: “Il mezzo mondo” e “La mezza guerra”, i quali tuttavia mi sono subito stati requisiti dai figli, che nel frattempo avevano letto il primo romanzo. Nel frattempo, come succede, la fila degli altri libri da leggere era cresciuta. Ho ripreso la trilogia in questi giorni e me la sono tracannata furiosamente. Un aspetto veramente interessante, che mi ha colpito, è che ogni volume è scritto dal punto di vista di uno o più personaggi diversi dal protagonista del precedente: nel secondo seguiamo l’aspirante guerriera Thorn Bathu, incline a cacciarsi nei peggiori guai possibili, e il suo ingenuo avversario/amico Brand, salvati entrambi da morte certa proprio per opera di Jarvi, che li trascinerà fino ai confini del mondo. Nel terzo invece il punto di vista principale è quello della principessa adolescente Skara, signora di un regno devastato e occupato dal nemico, e di Raith, un giovane assassino albino del popolo Vanster, potente ma infido alleato di Skara e del Gettland. Ogni volta i protagonisti dei romanzi precedenti sono ben presenti, ma vengono visti dai nuovi personaggi in una luce di spietata venerabilità per la gloria delle imprese passate: essi ne percepiscono – dall’esterno – i lati più minacciosi e feroci, non sono consapevoli dell’umanità di quelli che considerano possenti e feroci eroi, e di come anche loro si sono trovati in precedenza (e continuano anche ora a trovarsi) a subire i loro stessi dubbi e patemi.
Se nei primi due romanzi l’aspetto del viaggio di formazione modello Odissea prevale su quello bellico, nel terzo (come annunciato dal nome del libro) tutti i nodi vengono al pettine e il Mare Infranto brucia nel più grande conflitto dai tempi della caduta dei misteriosi ed estinti elfi, il cui “segreto”, intuito da tempo, verrà del tutto svelato.
Non posso chiudere senza segnalare l’analisi profonda e spietata della psiche umana, delle dinamiche sociali e soprattutto del potere che si trova in questa trilogia, temi sui quali provo una profonda comunanza con quanto espresso dall’autore, e che cerco di affrontare anche nei miei scritti. Un’altra somiglianza è che anche qui il lettore non troverà traccia di magia, mostri e simili: ci sono solo uomini e donne a confronto con situazioni estreme e con le bestie più pericolose di tutte: i loro simili.
Vi si trovano, su questi temi, parecchi aforismi e perle di spietata saggezza dei popoli del Mare Infranto che da soli varrebbero a consigliare la lettura. Ve ne voglio proporre qui solo alcuni fra i tanti:
“Lasciamo che Padre Pace versi lacrime sui metodi. Madre Guerra sorride dei risultati.”
“Il mondo è pieno di mostri. Forse la cosa migliore che possiamo sperare è avere quello più terribile dalla nostra parte.”
“Il segreto per mantenere l’autorità è dare solo gli ordini che sai verranno obbediti.”
“Una buona spada si sguaina di rado.”
“La fiducia è come il vetro. Gran bella cosa, ma solo uno sciocco vi appoggia un fardello pesante.”
“L’uomo che trova da combattere ovunque molto presto si ritroverà con un combattimento di troppo.”
Chiudiamo con una nota di ottimismo, merce rara nel Mare Infranto:
“Offri agli uomini l’occasione per essere migliori, e la maggior parte di loro vorrà coglierla.”, e “Non si cambia il giorno di ieri. Puoi solo cercare di fare meglio domani”.
Perché tutto sommato in fondo la vita umana non è altro che “Da nulla a nulla. Ma quale viaggio, dall’uno all’altro!”
Questo bravaccio quarantenne fedele alla Casa Tagliaferro, di mente sveglia e arguta, è un esperto avvelenatore. Conoscitore di ogni sorta di intrugli velenosi dagli effetti più diversi (tra cui quelli che usa l’assassina Luce Selenides per i suoi dardi, da quelli soporiferi o paralizzanti fino ai più letali), è anche un abile arciere. Infine, è un raffinato conoscitore di vini e di gastronomia, forse l’altra faccia della medaglia della sua conoscenza di pozioni tossiche di ogni tipo. Non esagera mai col bere, al contrario è sempre molto attento a centellinare e degustare quantità di alcolici decisamente ridotte. Il suo comportamento guardingo nei confronti delle amate bevande si spiega con una fase della sua vita nella quale, a causa di una tragedia che lo aveva distrutto, si era ritrovato ridotto a un barbone alcolizzato. Fu il vecchio Astore Tagliaferro a salvarlo a viva forza da quella caduta rovinosa, e da allora la sua devozione per la famiglia Tagliaferro è diventata d’acciaio. Fisicamente è un tipo smilzo, con capelli ormai radi e una barbetta a pizzo color pel di carota.
I RACCONTI DI MALIA
“Saranno almeno trecento passi, forse di più. Una caduta in verticale bella lunga, non credi?”
Mario si trasse indietro dallo strapiombo e il Griso sogghignò.
“Lascialo stare, Griso! Lui fa la discesa per la prima volta, tu invece l’avrai già affrontata in trenta viaggi.” disse Piero.
“Trentadue.” puntualizzò il Griso.
“Vuoi che racconti come te la sei fatta nelle brache la prima volta?”
Il bravo lanciò uno sguardo di fuoco a Piero. Ma il mercante era il suo padrone. Così, nonostante il cattivo latte che doveva aver succhiato da sua madre, il bravo si morse la lingua e se ne stette zitto. Alberto, il vecchio capo mulattiere, rise di gusto.
“Anch’io mi ricordo!”
“Fottiti, Alberto! A te posso dirlo.”
Il bravaccio era risentito perché quei due gli avevano rovinato il gioco.
Mario, dal canto suo, era pronto a difendersi da solo e non fu grato più di tanto dell’aiuto che gli era venuto dal suo capo.
La carovana di muli di Piero Briganti stava affacciata proprio sul bordo settentrionale dell’Altopiano Centrale. Quelle che vedevano laggiù in basso, invece, erano le terre del Ducato di Campofiorito. Pareva quasi di vederle disegnate su una mappa, da lì, mentre il vento soffiava tra i capelli di quelli che si avvicinavano al precipizio.
“Uh, senti come ulula!” commentò a voce alta uno dei mulattieri più giovani.
“Fa sempre così, qui, sempre. Non smette mai. E’ l’aria che viene da sotto e quando urta il fianco dell’Altopiano viene su gridando e prende velocità. Senti come tira: pare quasi che se uno si tirasse di sotto potrebbe andare in su invece che cadere, da quanto è forte. Questa parte del tragitto ti fa cacare sotto ma è uno spettacolo.” Alberto sorrideva, sornione.
Mario deglutì, ma poi cercò di mostrarsi all’altezza.
“E noi da dove passiamo, per scendere? O dobbiamo davvero buttarci e il vento ci depositerà di sotto senza farci alcun danno?”
Alberto gli fece un occhiolino: “Sì, magari. A dire la verità c’è una vecchia leggenda…”
Piero, il mercante che pagava il soldo di tutti, lo zittì:
“E basta con tutte le tue leggende, vecchio. Non c’è tempo adesso, sennò facciamo notte a metà della scalinata e siamo fritti.”
Fu la volta del carrettiere di abbozzare.
“D’accordo, hai ragione Piero. Te la racconto un’altra volta, Mario. Magari stasera, quando saremo giù.”
Poi Piero si rivolse a Mario:
“Comunque da qui non si vede ma c’è un passaggio, anche se non è certo agevole. Vedrai. Dobbiamo proseguire mezzo miglio verso Est. Andiamo.”
“Vedrai.” gli ripeté il Griso all’orecchio mentre gli passava accanto.
Astolfo è un Maestro d’Armi con licenza dell’Accademia di Scherma di Alesia. E’ anche un assassino. Per molto tempo è stato un sicario prezzolato, ed è spesso considerato il migliore in città. L’unica in grado di insidiare il suo primato è la sua amica d’infanzia Luce Selenides. Legato alla Casa Tagliaferro, è passato alla Compagnia Maravoy per gentile concessione di Rinaldo Tagliaferro, amico di Vindice. La Condotta aveva bisogno di un Maestro d’Armi e Astolfo ha ricoperto quel ruolo volentieri. Solo Vindice, nella Compagnia, sa delle sue qualità di sicario e può usufruirne in caso di necessità. Astolfo, atletico, piuttosto alto (ma non come il cugino Diomede) e con un pizzetto nero a punta, è dotato di grande agilità, destrezza e precisione, sa usare ogni tipo di arma e il suo sangue freddo è invidiato da molti. Non ha scrupoli ma nemmeno nessun istinto sadico: uccide solo quando gli viene ordinato e quando è necessario. Preferisce, se non è indispensabile, non ammazzare i vecchi amici.
Bozzetto di E.R.
In questo “Dantedì” 25 marzo 2020 vi parlo della mia lettura più recente: Eternal War di Livio Gambarini, ed. Acheron Books. Anche questo è un fantasy storico, sempre nel senso opposto al mio “Per la Corona d’Acciaio”: presenza di magia ed esseri fantastici ma in ambientazione reale, in questo caso ancora Firenze. La vicenda però si svolge parecchio tempo prima di quella di “Gens Arcana” di Cecilia Randall di cui vi ho parlato poco fa: non siamo infatti ai tempi di Lorenzo il Magnifico ma in quelli di Dante, e precisamente dalla battaglia di Montaperti a quella di Campaldino. L’autore ha osato molto: il protagonista è niente di meno che il poeta e guerriero Guido Cavalcanti! Ovviamente accanto a lui ci saranno i giovani Dante Alighieri e Beatrice, Lapo e Farinata degli Uberti e tanti altri personaggi di quell’epoca straordinaria. Accanto a loro, e parallelamente a loro, lottano sul piano dello Spirito i loro spiriti ancestrali: entità che vegliano ognuna su una specifica famiglia, composte dall’essenza di tutti i Pater Familias del passato. Nel loro mondo si muove una quantità infinita di entità come i Santi Patroni, i terrificanti Estinti dell’antica Roma, spiriti selvaggi, i Genii Loci di palazzi e case e perfino divinità pagane come le Muse. Ognuno di essi svolge un ruolo nella guerra eterna fra Guelfi e Ghibellini e nei conflitti che dividono fra loro le varie stirpi: si combatte tanto nel mondo visibile della Materia quanto in quello invisibile dello Spirito. In tutto ciò, fra battaglie, agguati e intrighi che sia uomini che spiriti si tendono l’un l’altro, spicca la figura eroica e magica di Guido Cavalcanti, su cui il suo spirito ancestrale Kabal ha scommesso tutto per riportare in auge la sua famiglia rovinata dalla sconfitta a Montaperti. Non mancheranno sorprese, scontri, amori e colpi di scena, e avremo il privilegio di assistere “in diretta” alla nascita del Dolce Stil Novo. La ciliegina sulla torta sono le citazioni dei sonetti del tempo, che mi hanno spinto a sfogliare di nuovo qualche bella pagina antica studiata molto, troppo tempo fa. Che ne dite, la sfida vi attira?