LE CRONACHE DEI PRETORIANI NERI

5 – Il racconto di Mathos: Notturno Cherusco

Scende la sera, e ci troviamo a fermare i nostri passi davanti a un piccolo villaggio. Siamo stremati e le nostre provviste sono agli sgoccioli, ma non osiamo farci avanti. Infatti, è molto probabile che anche gli abitanti siano cultisti. Se non proprio tutti almeno alcuni di loro, forse molti. Ne basterebbe comunque anche solo uno per essere perduti: non ci vuole molto a richiamare sul posto tutte le squadre di ricerca sparse nei dintorni. Inoltre, se anche avessimo la fortuna che proprio tutti fossero alieni al culto con cui ci troviamo a combattere, di certo quelli là stanno battendo in primis i villaggi, più facili da controllare e dove è più probabile che un gruppo di persone decimato e allo stremo delle forze si vada a rifugiare.

Quindi decidiamo di starne alla larga, e però abbiamo bisogno di “prendere in prestito” un po’ di cibo, se non vogliamo digiunare da domani in poi.

Il paesino si presenta piuttosto misero: casette di legno, poco più che baracche, circondate da una palizzata di legno. L’ingresso, uno solo, è rivolto verso il lato da cui siamo sbucati: un portone di grosse assi di legno con ai lati due smilze torrette in cui c’è spazio per un solo arciere. All’interno notiamo una capanna un po’ più grande delle altre, probabilmente quella del capo-villaggio, e una molto lunga, che ha tutta l’aria di essere il magazzino degli attrezzi e delle provviste. Le altre case sono tutte uguali, grosso modo. Vediamo pochi uomini, il che ci conferma nell’idea che la maggior parte di questa gente sia in giro a cercare noi. Potrebbero anche essere semplicemente a caccia ma l’altra possibilità ci pare molto più probabile, perciò ci confermiamo nella nostra idea di non rivelare la nostra presenza. Quando cala il sole, davanti all’ingresso si piazzano due giovani, che prendono subito a chiacchierare fra loro e non prestano molta attenzione al bosco da cui noi li stiamo spiando. Hanno archi da poco, e rozze spade corte alla cintura.

Potremmo farli fuori facilmente, e senza troppo rumore, ma non possiamo essere sicuri che siano davvero nostri nemici, e non invece semplici sudditi dell’Imperatore.

Vedo che i miei compagni mi guardano. E va bene.

Rubare cibo da un villaggio non sarà una gran impresa eroica, magari è pure indegno di un Pretoriano Nero, ma quando la necessità spinge si fa questo e altro.

Lascio arco, freccie, scudo e lancia e tengo solo il mio caro pugnale. Mi avvio. Mi seguono Maximus e un paio di Cheruschi, che rimarranno fuori ad attendermi fuori dal villaggio. Di certo non mi porto quei bestioni pesanti e rumorosi in un’azione furtiva al di là della palizzata.

Prima faccio un giro completo attorno per sincerarmi della situazione. Si è fatto tardi, e tutto tace: tutti dormono, tranne quei due besughi davanti alla porta. Ovviamente non passo da davanti, ma dalla parte opposta. Lascio Maximus e i Cheruschi al limitare del bosco, poi corro, salto e mi aggrappo alla sommità della palizzata. Il dolore alla spalla, acuto come lo stridio di un’aquila, mi impedisce di tirarmi su: sento la carne della spalla riaprirsi e urlare. Mollo, e mi abbatto ai piedi del muro di assi. Mi giro, e intravedo il faccione dell’Illirico che sbuca preoccupato dalle frasche. Gli faccio cenno di non preoccuparsi, che va tutto bene. Per così dire.

Respiro. A fondo. Mi riprendo e mi rialzo. Maximus mi raggiunge comunque, sferragliando. Gli faccio cenno di fare piano, o sveglierà tutto il villaggio. Già che è venuto, prima di farlo tornare indietro mi faccio dare una mano con una buona spinta, e questa volta riesco a passare di là.

Atterro, ammortizzo l’urto piegando le gambe e mi ritrovo acquattato all’ombra della palizzata. Resto lì, fermo, e studio la situazione. Nulla. Silenzio. Scatto fino a mescolarmi con la tenebra di un’abitazione, poi un’altra. Il magazzino è lì, davanti a me. Lo raggiungo. Ascolto.

Ecco, quel che sento è inaspettato: nel magazzino c’è una coppia che ci dà dentro, e mica poco!

Lei geme e dice cose in lingua locale, lui sbuffa come un mantice e chissà con quali porcate risponde.

Insomma, si capisce che si stanno divertendo un mondo. Con un pizzico d’invidia per quel crucco – beato lui, che la fanciulla a giudicare dalla voce sembra che valga la pena – attendo con pazienza che finiscano.

Alla fine, con degli ululati che neanche il mannaro dell’altra sera, finiscono. Però…

Dopo qualche moina che conclude il momento di intimità, alla fine si decidono ad accomiatarsi, fra risatine e lazzi. Lei sta cercando di rivestirsi mentre il bellimbusto la boicotta scherzosamente nel suo intento. La porta si apre, io mi faccio piccolo nell’ombra, e la fanciulla esce, seminuda, con parte delle vesti in braccio e una pelliccia sulle spalle. A vederla, anche solo di spalle, sembra reggere il confronto con l’idea che mi ero fatto di lei dalla voce. Aspetto ancora, che esca anche lui. Niente. Ma dannazione, se ne vuole andare, ‘sto tipo? Macchè. Dopo un po’ inizia a russare.

Perplesso, medito sul da farsi.

Non posso mica attendere lì che il bell’addormentato si svegli: potrei dover aspettare anche fino a essere sorpreso dall’aurora.

Decido di provare a entrare furtivamente, prendere un paio di sacchi di provviste e svignarmela alla chettichella. Se si sveglia peggio per lui, tanto quasi di sicuro è uno del culto.

Dentro è ancora più scuro che fuori, ovviamente: la luce della luna filtra fra le assi sconnesse appena a sufficienza per non dover girare a tentoni. Mi muovo solamente vicino alla porta, in punta di piedi. C’è un mucchio di sacchi, sembra farina. Se ne prendo uno potrebbe anche bastare. Provo ad afferrarlo, ma il rumore è sufficiente perché il tipo si scuota e apra gli occhi. Mi immobilizzo. Quello mormora: “Helga?”

Decisamente no, non sono Helga. Non potrei mai passare per Helga, nemmeno in quell’oscurità. Lui se ne rende conto, si spaventa, si mette a frugare tra le sue cose e trova uno scramasax, ma prima di poterlo sfoderare si trova pure un uomo nero addosso. Lottiamo per un breve istante, poi il mio pugnale gli entra nel cuore. Gli metto una mano sulla bocca e lo accompagno verso le porte dell’Ade, più delicatamente che posso.

“Mi dispiace.”, dico. Non so se quel giovane parla latino, ma lo dico lo stesso. Non che faccia una gran differenza. Non provo nessuna gioia per quell’atto. Di solito è così, uccidere non mi fa piacere. A volte un po’ sì, lo ammetto: quando si tratta di un necromante o un vampiro o un bastardo assassino di quelli più spregevoli. A volte, invece, è solo una dura necessità.

Meglio sbrigarsi e andarsene, prima di essere costretto a fare altri danni. Prendo su il mio sacco di farina, ci aggiungo della carne secca e qualche salume e formaggio che trovo qua e là e sono pronto a squagliarmela. Quand’ecco che… dei passi! Passi leggeri, femminili. Che sia di nuovo quella Helga, che magari non ne ha avuto abbastanza e torna a prendere il resto? Mi pareva che fosse sufficiente, per una notte! Mollo il cibo e mi piazzo dietro la porta. L’uscio si schiude ed entra una biondina, nuda ma avvolta in una coperta. Ma… non è Helga! E, per Diana, sembra che io abbia appena fatto un brutto dispetto a una buona fetta delle ragazze di questo villaggio!

Scruta nell’oscurità e sussurra: “Hildegard, bist du hier? Ich bin Erkenhild…”, che sarebbe tipo: “Hildegard, sei qui? Sono Erkenhild”.

Così il seduttore del paese di chiamava Hildegard, pare. Mi diranno poi che il nome in lingua germanica significa qualcosa come “verga magica da battaglia”. Insomma, nomen omen, come si suol dire!

Non vorrei proprio uccidere anche Erkenhild oltre al suo ganzo… beh non solo il suo. Ma lei vede il corpo esanime di Hildegard e non posso nemmeno lasciare che dia l’allarme, o sono spacciato. Siamo tutti spacciati. Così la colpisco forte alla nuca col pomolo del pugnale, e grazie agli Dei cade svenuta.

Ci sono diverse corde nel magazzino, così non mi è difficile legarla per bene, e farle passare anche una grossa cima attraverso la bocca in modo che non possa gridare se anche si dovesse svegliare a breve, cosa che non pare probabile.

Mi chiedo se per caso non l’ho colpita troppo forte, ma sento che respira così mi tranquillizzo. Uccidere le donne mi dispiace anche di più che uccidere gli uomini. E, anche se forse non è un sentimento nobile, uccidere le donne belle mi dispiace ancora di più: mi pare un brutto spreco, uno sputare in faccia agli Dei che le hanno create per la gioia nostra, e anche loro. Loro di chi? Delle donne stesse, no? O degli Dei, dici? Beh, di entrambe le categorie, forse, oltre a noi uomini: pare che anche gli Dei non le disdegnino, se dobbiamo dare retta ai miti.

Insomma mi stai distraendo, con questi discorsi da lupanare, Tribuno!

Prima di uscire mi cade lo sguardo sulla cintura del malcapitato Hildegard, che spicca sul cumulo dei suoi vestiti. E’ una cintura di gran qualità: di cuoio spesso, ricoperta da placche d’argento sbalzate, e con una fibbia elegantemente lavorata a motivi vegetali. Davvero bella. Non so perché, penso che potrebbe esserci di una qualche utilità e la prendo, agganciandomela in vita. Tanto rubare per rubare…

Me la batto, correndo via basso sotto i raggi inclinati della luna che sta ormai per tramontare. Raggiungo il limitare del villaggio sul retro, mi nascondo. Temo che quella Erkenhild si svegli e riesca a farsi sentire. Oppure che una terza fanciulla vada a trovare quel fortunello di Hildegard, a questo punto, e che trovi la sua rivale nuda e legata e il ragazzo morto.

Niente. Ho fortuna. Faccio un fischio acuto per avvisare Maximus che sono arrivato. Devono essere preoccupati: ho tardato un sacco di tempo. L’Illirico risponde al fischio. E’ vicino, appena oltre la palizzata. Lancio il sacco di pane al di là e capisco che lo prendono al volo, perché non lo sento urtare il terreno. Poi l’altro sacco, quello più piccolo coi salumi e la carne. Infine balzo, mi appendo alla staccionata, mi isso a cavalcioni e riesco a lasciarmi cadere fuori, in salvo. Mi accolgono con pacche sulle spalle e strette di mano. In effetti si erano preoccupati: in mia assenza avevano cominciato a girare vicino al villaggio inquieti, chiedendosi se dovessero intervenire. Ma hanno avuto fiducia e hanno aspettato, e hanno fatto bene. Rientriamo sotto l’ombra protettiva degli alberi, carichi di cibo e rinnovate speranze. Non sappiamo che un’ordalia finale ci attende proprio nella foresta.

Raggiungiamo gli altri, e rimando a dopo le spiegazioni: sarà meglio allontanarsi di lì prima possibile perché in qualunque momento gli abitanti possono scoprire che qualcosa di molto strano è avvenuto stanotte nel loro villaggio, dico.

“Poi mi racconti, però!” insiste Publio, io gli strizzo un occhio e rispondo: “Promesso. Ora muoviamoci.”

Non passa molto tempo che dal villaggio iniziano ad arrivare rumori inequivocabili. La luce di molte torce illumina la notte ma noi siamo a una certa distanza e dovremmo essere in salvo, almeno per ora. Infatti, non era da quella gente che proveniva la vera minaccia.

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