LE CRONACHE DEI PRETORIANI NERI

6 – Il racconto di Mathos: Redde rationem

Infatti un subitaneo silenzio ci coglie mentre ci spostiamo, mentre i capelli si rizzano sulla nuca a ogni uomo della nostra compagnia. Ci geliamo sul posto, mentre un’ombra innaturale appare davanti a noi, bloccandoci il passo. Nessuno ha visto da dove sia venuta, è quasi come se si fosse materializzata dal nulla a sbarrarci la strada. Un essere oscuro, venuto dall’orrore prima della civiltà, dalla notte dei tempi a perseguitarci. L’ombra del lupo.

Altri non è che il licantropo, quello che già abbiamo abbattuto nel tempio maligno. E’ tornato a esigere vendetta. Lo si riconosce dalla grande cicatrice. Spicca anche alla scarsa luce della luna che filtra attraverso i rami degli abeti, dritti come alberi di grandi navi, proprio dove la lama di Maximus lo ha squarciato dalla spalla fino a metà del corpo.

Ah, ti ho già detto che era alto quanto un uomo portato sulle spalle da un altro uomo? No? Beh, lo era.

Il povero Siegfried, che a onor del vero fino ad allora si era mostrato sempre valente e stoico nel sopportare ogni avversità, fiero com’era di aver distrutto quella bestia immonda e feroce, strabuzza l’occhio superstite e prende a tremare come una foglia.

“E’ tornato dal mondo dei morti, è tornato dalle terre gelate di Hela per prendere la mia vita…” sussurra, mentre il mostro ci fissa con occhi di fuoco e si avvicina ringhiando. Non so se Siegfried se la sia fatta proprio addosso, ma di certo ci era molto vicino.

“Non prenderla troppo sul personale, ragazzo: questo ce l’ha con tutti noi. E se è tornato vuol dire solo che non l’abbiamo ucciso per bene. Queste cose guariscono dalle ferite dannatamente in fretta, accidenti a loro.”, gli dico. Le mie parole gli sono di ben poca consolazione.

Allora grido: “Sotto! Addosso, e questa volta ammazziamolo come si deve: facciamolo a pezzi!”

Siegfried e gli altri soldati restano paralizzati dal terrore, e anche Ezio che ormai ha perso ogni spirito combattivo. Invece è Sahura l’egiziano che sguaina la spada e corre contro la bestia insieme a noi cinque. Carichiamo ruggendo più forte del lupo, pur consapevoli delle torce dei paesani, che battono la foresta sempre più vicini. Dobbiamo finirla in fretta, o avremo addosso altra gente oltre a quel mostro. Oppure, se lo vedono, potrebbero darsela a gambe, chissà. Ma non stiamo a pensarci troppo: è l’ora dell’azione! Io e Maximus ci piazziamo davanti al licantropo, gli altri lo tempestano ai fianchi. L’Illirico mi ripara con lo scutum da un’artiglio, ne approfitto per colpire con la lancia. Quando il mostro si volta verso di me, rabbioso, è Maximus a ferire col gladio. Il colpo successivo fa a pezzi la mia pelta: uno scudo leggero, di solo cuoio, non è fatto per resistere a botte così. Gli artigli mi segnano il braccio sinistro attraverso ciò che resta dello scudo. Faccio un passo indietro e afferro la lancia a due mani, giocando con la punta attorno alle zampe anteriori di quella belva per attirare la sua attenzione. Tutti gli altri ne approfittano per ferirlo da ogni lato, ma pare di colpire un tronco d’albero o una pietra e non un essere vivente. Un colpo inaspettato manda a gambe all’aria Sahura. Il povero Egizio resta giù e striscia via come riesce, coperto da Vitruvio che gli si mette davanti a protezione. Maximus e la bestia lottano ringhiandosi contro faccia a faccia, o per meglio dire faccia a muso, in un turbine di zanne e acciaio con le schegge dello scutum che schizzano ovunque sulla neve. Ne approfitto per affondare la lancia nel petto del mostro, che non fa una piega e mi abbatte addosso una zampaccia pesante come la colonna di un tempio greco. In mancanza di scudo schivo, girando la spalla sinistra indietro – ci manca solo che mi colpiscano di nuovo lì! Il movimento porta avanti la spalla destra e ne approfitto per sferrare una stoccata dal basso. La botta è fortunata: la punta d’acciaio e argento acuminato entra dritta sotto la mandibola del mostro, facendosi strada attraverso il cervello fino a fermarsi alla calotta del teschio, la parte interna dico. Il licantropo sbocca sangue, che è rosso proprio come il nostro e cola abbondante per terra prima che l’essere vi si abbatta sopra. Io e Maximus ci spostiamo, che sennò ci sarebbe caduto addosso, e tutti tirano un profondo sospiro. La bestia non si muove più, a parte tremiti incontrollati. E la trasformazione: le ossa si deformano e rimpiccioliscono, gli arti mutano, la testa cambia, il pelo recede. Uno spettacolo orrendo, credi a me. Alla fine è un banale tipo biondo che giace ai nostri piedi, quello che avevamo visto apparire nel tempio al posto della fanciulla illusoria. Siamo tutti un bel po’ sollevati, adesso. Siegfried chiede, titubante: “Che facciamo, lo lasciamo qui… un’altra volta?”

Scuoto la testa e gli prendo la spada dalle mani.

“No, questa volta no.”, dico.

Con un paio di fendenti gli spicco la testa dal corpo, facendo schizzare intorno sangue, carne e pezzi di vertebre.

“Vedrai che stavolta indietro non torna.”, lo rassicuro a questo punto alzando il mio macabro trofeo, che lo vedano tutti.

Sahura l’egiziano, che solo ora si sta rialzando, tutto sudato nonostante il freddo, si guarda intorno e chiede:

“E il sacerdote? Dov’è andato?”

Abbasso la testa del licantropo e sospiro forte.

Se l’è data a gambe. Adesso ci tocca corrergli dietro.

“Branoc, vieni con me?” chiedo, e il Britanno si passa una mano fra i capelli, esasperato.

“Sì, sì, andiamo noi.”

Publio interviene:

“Avete poco tempo. Vi aspetteremo qui finché potremo, ma se quelli del villaggio si avvicinano dovremo squagliarcela. Se vedete che ci mettete troppo lasciate perdere.”

Annuisco e partiamo. Di corsa. Neanche il tempo di tirare il fiato!

Le tracce del sacerdote in fuga sono chiare, sulla neve fresca. Procediamo spediti, a tratti perfino di corsa. Dopo un po’ riusciamo a sentire i suoi passi, il suo respiro. Lui sente i nostri e accelera. Macché. Ora lo vediamo. Lui si gira senza smettere di correre e ci vede. Ha il terrore negli occhi, ma è anche determinato. Capisco che non si lascerà prendere di nuovo facilmente. Vede un pietrone grigio, alla sua destra e devia deciso. Ci sbatte contro la testa a piena forza senza rallentare, anzi, al contrario: prende velocità proprio alla fine. Si schianta di faccia e cade all’indietro, di spalle, senza un gemito. Per Diana!

Lo raggiungiamo ma capiamo subito che non c’è molto da fare: è bello che andato. Peccato, perché potevamo farlo interrogare come i nostri esperti dell’Inquisizione sanno fare, ma ammetto che non mi è troppo dispiaciuto: era un bell’impiccio, quel tipo, e comunque non si meritava altro.

Né io né Branoc spiccichiamo parola: il fiato ci serve tutto, e poi c’è poco da dire. Torniamo sui nostri passi con un po’ più di calma, mica troppa però che abbiamo paura che gli altri siano costretti ad andarsene e non abbiamo una gran voglia di vagare da soli per quei boschi maledetti. Per fortuna quando torniamo sono tutti ancora lì, intorno all’uomo nudo e alla sua testa spiccata: i villici hanno fatto molte chiacchiere e poca strada, pare, e per lo più in direzione sbagliata.

Publio mi scruta con aria interrogativa, io scuoto la testa:

“Andato. Si è frantumato la testa contro un masso.”

“Contento lui…” rispose il decanus “E di questo cadavere cosa ne facciamo?”

Alzai le spalle. Ci pensai su, poi misi la testa ancora sanguinosa nella mia bisaccia:

“Il corpo lo lasciamo qui allo scoperto, così quelli del villaggio hanno un motivo in più per fermarsi e perdersi in chiacchiere invece che cercare noi. Questa invece ce la portiamo via, che non abbia l’idea di attaccarsi di nuovo al corpo. La gettiamo da qualche parte più avanti. ”

Siegfried mi lanciò uno sguardo riconoscente.

Quando stiamo per partire ho un’idea strana, che al momento non so perché mi pare una buona idea: prendo la ricca cintura decorata del povero Hildegard e la cingo al cadavere nudo del licantropo.

Chissà perché ho fatto un gesto simile, ripensandoci non saprei dirlo! Né sono in gradi di precisare che cosa mi aspettassi che gli abitanti del villaggio potessero essere indotti a pensare da un tale bizzarro ritrovamento, o come ciò potesse avvantaggiarci. Ma tant’è, e comunque più confusione di quella che per caso avevamo lasciato da quelle parti era difficile da realizzare anche volendolo.

Mentre le torce e le voci furibonde della gente del villaggio si avvicinano, ci affrettiamo a mettere tutte le miglia possibili fra noi e loro, sempre dirigendoci a ovest.

Il timore che ci spingeva era anche che i villici avvertissero i cultisti che già erano sulle nostre tracce, e per loro sarebbe stato facile capire chi era il responsabile di tutto quel subbuglio. E se l’uomo-lupo era stato in grado di trovarci, magari seguendo il nostro odore – che si era fatto ormai insopportabile anche ai nostri stessi nasi – allora anche altri avrebbero potuto farlo. Sempre che non avessero già seguito lui da presso, e non fossero già nelle vicinanze.

Non ci trovarono.

All’alba eravamo ormai distanti, non senza aver fatto nottetempo una breve pausa per rifocillarli col bottino della mia incursione e gettare la testa del lupo mannaro in un crepaccio.

Siamo ai bordi della Foresta Nera, ormai. Forse ne siamo addirittura già usciti, dai miei calcoli.

Il sole sorse alle nostre spalle illuminando un vasto prato, dall’altra parte del quale si innalzava un’antica torre d’avvistamento romana. Roba vecchia, costruita dai nostri avi quando ancora il limes passava da quelle parti. Eppure sembrava abitata: c’era un filo di fumo che usciva da un comignolo in cima, e qualcuno aveva liberato dalla neve un ampio spazio intorno alla costruzione. Beh, Publio mi lancia un’occhiata. Non c’è bisogno di dire nulla, fra noi: ho già capito.

Mi libero delle mie poche cose depositandole a terra e filo via pancia a terra, correndo da un cespuglio all’altro. In pochi istanti sono sotto alla torre. Il pianterreno non ha finestre, e così fino a una discreta altezza. Lassù in cima invece qualcuno spalanca le imposte. Mi rincantuccio nell’ombra ma nessuno guarda fuori. L’arrampicata è facile e breve, e sbircio dentro dalla finestra aperta. C’è solo un vecchio germano dai capelli bianchi, con una corta barbetta e occhi azzurri circondati di rughe. Ha l’aria inoffensiva e non pare molto robusto. Ha la sua età, poi: non certo un ragazzo nel pieno delle forze. Non mi pare una minaccia. Scendo, e torno a riferire.

Decidiamo di presentarci al vecchio Cherusco in pace, sperando che non sia anche lui un dannato cultista. Tanto ormai siamo quasi fuori dalla grande foresta, e anche se ci dovesse segnalare non farebbero in tempo a fermarci: ancora non si vede in giro anima viva e però ora che il cielo si è schiarito possiamo vedere in lontananza, oltre i boschetti sparsi e i campi coltivati, una città. Civiltà, finalmente!

Bussiamo, con le armi ben riposte nei foderi. Quello si affaccia alla finestra, si stupisce e quasi grida: “Arrivo!”

Sentiamo i suoi passi affrettati per le scale, e il portone si apre. Entriamo in fretta, ringraziandolo. Meno stiamo allo scoperto meglio è: non è detto che il nemico non tenti un ultimo, disperato agguato.

Il vecchio di chiama Uli, ed è un Germano, un Cherusco.

Ci offre un’infusione di erbe e del pane con salsicce e formaggio. Tu lo sai quanto si è grati per un piccola cosa come quella, quando si è in una situazione così difficile in cui ti pare ormai che tutto il mondo sia contro di te e ti perseguiti, e la tensione e la stanchezza si combattono nel tuo animo e nelle tue membra. Parliamo con Uli, come tra semplici esseri umani. Lui, di soppiatto, sbircia le nostre ferite, il sangue rappreso che si è seccato sui vestiti, gli scudi graffiati e le armi ammaccate. Il suo sguardo è pieno di pietà e comprensione. E’ un vecchio soldato ormai ritiratosi, Uli, e ci capisce. Salta fuori che ha combattuto sul Limes degli Urali, in un contingente inviato dal Principe fin laggiù come proprio apporto alla causa di noi tutti. Ha incrociato la sua lama con quelle degli Unni, molti anni fa, e frapposto il proprio scudo fra quei mostri e il pacifico popolo dell’Impero.

Quando ha lasciato le truppe dei Cheruschi è venuto a vivere in quella torre abbandonata, un residuo delle vecchie fortificazioni Imperiali che munivano quello che un tempo era il confine. Lo ha fatto perché i suoi figli ormai erano grandi e sposati e sua moglie era stata reclamata da Ade anni prima. Ha lavorato sodo per sistemare l’antica torre, ed è fiero del risultato: in effetti l’ambiente è pulito e accogliente. Poi ci mostra, con orgoglio, delle cose che ha trovato in giro durante i lavori, poste in una specie di altarino. C’è un pugio di modello vecchio, che non si usano più da secoli fatti così, un paio di hymantes da pugilato che sembrano vecchie mummie da quanto sono incartapecoriti, e soprattutto un gran numero di statuette di terracotta. Altro non sono che i Penati di legionari che sono stati di stanza nella torre, e che li hanno persi o più probabilmente sono morti facendo il loro dovere, difendendo quella postazione proprio contro i Cheruschi antichi, antenati di Uli. L’altarino è adornato di fiori freschi e candele profumate. Il veterano è solito rendere omaggio così ai caduti di quei tempi remoti. Una brava persona, Uli. Sì, anche se è un fottuto Germano è una brava persona. Ridi, Tribuno? Cosa stai dicendo? Ebbene sì, è vero, durante il racconto mi sono ammorbidito nei confronti dei crucchi, così come è successo, in parte, durante la nostra avventura laggiù. Certo, penso ancora che siano, come dicono i Greci, dei mizo-barbaroi. Degli zucconi palliducci senza criterio, beoni e ottusi. Ma sono anche coraggiosi e corretti nel fare il loro dovere: quei soldatini inesperti alla fine nonostante le normali paure e titubanze sono rimasti al loro posto contro nemici in sovrannumero, incantesimi illusori e mostruosità ancestrali della foresta. Penso a quel pallone gonfiato di Siegfried che, non potendosi più vantare di aver ammazzato il licantropo, ha iniziato a inorgoglirsi per aver perso l’occhio in combattimento – fatto ineguagliato fra i soldati Cheruschi d’oggigiorno – e di assomigliare tutto al dio Wotann con quella benda sull’orbita vuota e la barba lunga che gli era cresciuta, ed era felice come un bambino di poter mostrare i segni evidenti della sua prodezza. Penso a Ezio, che dopo la batosta dell’errore che aveva fatto trascinandoci tutti in una trappola, si è riscattato obbedendo agli ordini di Publio con pazienza e disciplina, passando sopra alla tristezza e al disonore. Penso spesso, infine, anche al vecchio Uli, che ci ha ospitato e ha rischiato la vita per aiutarci, perché alla fine gli abbiamo chiesto di andare lui al posto nostro in città a cercare rinforzi, e noi siamo rimasti barricati in casa sua fino al loro arrivo. E lui, che non aveva nessun vincolo nei nostri confronti e aveva già combattuto per l’Impero quando gli era stato chiesto nella sua ormai lontana giovinezza, ha accettato senza pensarci un momento, totalmente incurante del rischio di imbattersi in qualche cultista lungo la strada, o perfino fra i soldati della guarnigione locale. E sì, pensando a tutti loro capisco perché anche quella stirpe alla fine ha trovato posto fra le schiere dei cittadini di Roma: cives romanus sum lo possono dire anche loro,  nonostante i capelli slavati, la pelle pallida e rosa e le lentiggini.

La faccio breve. Uli va e torna coi rinforzi: un robusto drappello di cavalieri Cheruschi con anche dei begli animali già sellati pronti per noi. Non sono mai stato così felice di vedere una masnada di crucchi come in quel momento, credi a me!

Una volta raggiunta la delegazione dei Pretoriani Neri più vicina si è mossa tutta l’Inquisizione in massa, come è uso fare in quei frangenti, con navi volanti, draghi, grifonieri, fanteria e cavalleria pesante, fuoco greco e tutto quello che ci vuole, e il nostro ruolo è diventato quello di guide e testimoni. Non so se alla fine i cultisti sono stati presi proprio tutti fino all’ultimo, ma ti garantisco che è stata fatta una bella pulizia.

Ecco, il mio racconto finisce qui, Lucrezio.

E questa, che vedi qui sull’asta della mia lancia, è la tacca più profonda fra tutte quelle che vi ho inciso. Sta lì in ricordo dell’abbattimento del licantropo più grosso che io abbia mai visto, e che ho avuto il privilegio di rispedire nel Tartaro con le mie mani per conto del buon Cerbero, che da sempre campeggia sui nostri vessilli. Perché noi gli rispediamo indietro tutti quelli che sfuggono alla sua guardia, che gli Dei li maledicano, e in condizioni tali che non possano più tornare, come ho fatto io con quel coso peloso lì.

 

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