LE CRONACHE DEI PRETORIANI NERI

Per l’inizio del racconto: La setta della Foresta Nera – Parte I e II – Per la Corona d’Acciaio (lacoronadacciaio.it)

3 – Il racconto di Mathos: il Cerchio e il Rito

Arriviamo a un villaggio, e finalmente alla sera l’oro e la birra di Ezio smuovono qualcosa: un vecchio gli rivela che in una zona a nord-est di lì si trova una piccola radura nel bosco con un cerchio di pietre e al centro un altare di pietra antico. Il luogo è abbandonato da tempo immemorabile, e la gente del luogo non sa che origina possa avere. Si dice anche però – gli confessa il vecchio – che a volte gente sconosciuta, non del villaggio, si sia vista da quelle parti di notte, in particolare nei periodi dei solstizi e degli equinozi. “Forse, chissà, vi svolgono riti antichi, magari proibiti… magari delle orge!” sussurra con alito alcolico il vecchio all’orecchio del falso mercante germanico.

Ormai per quella notte siamo accampati lì, ma decidiamo di muoverci all’alba e cercare il santuario. Non sarà mai troppo presto, perché ormai mancano solo due giorni al Solstizio d’Inverno.

Il giorno dopo, dopo un breve spostamento e qualche ricerca, troviamo il posto. Io naturalmente ero in avanscoperta. Sbuco tra le fronde cariche di neve molle e caduca e lo vedo. Faccio un fischio e richiamo gli altri, che accorrono.

Nella foresta si apre una radura all’incirca circolare, che da una parte all’altra sarà stata di un centinaio di passi, e nella radura c’è un cerchio di dodici pietre in piedi, quelle che Galli e Britanni chiamano menhir, mentre il cerchio lo definiscono cromlech, che poi vuol dire semplicemente “cerchio di pietre” nella loro lingua, o qualcosa del genere. In mezzo ai menhir si trova un altare di pietra, rozzamente squadrato. Io come sai di sette e religioni ne capisco il giusto, ma è chiaro che si tratta di un antico sito di qualche culto dimenticato. O forse non tanto dimenticato: il luogo è solitario, abbandonato da tempo e pieno di arbusti ed erbacce che qua e là sbucano dalla neve, ma una rapida ispezione mi permette di identificare le orme di parecchie persone, sia recenti che risalenti a mesi prima, e a più riprese. Uomini, donne. Non bambini. Riesco a trovare alcuni “sentieri”, più simili a piste di passaggio per i cinghiali che per esseri umani, che conducono alla radura da varie direzioni, da sud-ovest fino a sud-est. Ma non da nord. Esaminando l’altare troviamo vecchie tracce di sangue secco. Vecchie, non antiche. Qui hanno ucciso qualcosa, o qualcuno, pochi mesi fa, ne concludo.

Tutto quanto puzza di setta malefica da lontano un miglio.

E, come sai, a noi Pretoriani Neri questa puzza dà la voglia di usare ferro e fuoco per purificare.

Insieme a Ezio decidiamo come muoverci: mentre alcuni soldati Cheruschi con Maximus restano di vedetta nei pressi del campo, noi prima di tutto costruiamo rapidamente un campo stabile ben nascosto. Da una parte c’è un’asperità del terreno che forma quasi una cavità, dall’altra il luogo è reso invisibile da alti cespugli innevati. Le nostre tende, ammassate tutte insieme e di colore bianco come la la neve, risultano invisibili quasi fino a quando non ci inciampi sopra. Aggiungo il tocco finale: qualche ramo e rametto e qualche manata di terra sopra al telo, che lo rende indistinguibile dal resto del paesaggio. Poi ci rechiamo di nuovo alla radura. Ignoriamo il numero dei nemici, il che è una cosa pessima. Quindi troviamo dei luoghi dove appostarci: alcuni sopra gli alberi, dove possibile, altri a terra fra gli arbusti più fitti. I Cheruschi oltre a spade e scudi hanno dei giavellotti e delle frombole: dovranno bastare. Tireremo sui cultisti oppure usciremo allo scoperto solo al segnale di Ezio, mentre se risultano essere in troppi ce ne staremo buoni e cercheremo di fissare bene nella memoria le loro facce, per andarli a prendere in seguito uno per uno. Infine, provo a predisporre un paio di trappole all’interno del santuario. Prendo un menhir, quello posto a sud di fronte all’altare, e metto un paio di crucchi e l’egiziano a scavare dal lato interno, in maniera che una buona spinta dalla parte opposta possa farlo cadere su quell’ara primitiva. Poi scavo una trappola a un paio di passi dall’altare. Il terreno è pietroso ed è reso duro dal gelo, quindi lo scavo è lento e difficile: non si può certo pensare di costruire un trabocchetto per orsi, ma andiamo giù di un cubito abbondante e piantiamo dei bei rametti appuntiti sul fondo.

Se qualcuno ci cade dentro di sicuro non morirà, ma potrebbe spezzarsi una caviglia o rimanere con il piede o il polpaccio trafitto. Ciò potrebbe diventare un’opportuna distrazione o introdurre un evento inaspettato in uno scontro e, se pure avvenisse nel caso in cui decidessimo di non intervenire, non necessariamente ci costringerebbe a entrare in azione.

Tornato al campo, vedo che i soldati Cheruschi si sono conciati in un modo che li mimetizza nella foresta quanto il sottoscritto potrebbe passare inosservato nell’isola dei biondi Geati: un disastro. Per fortuna abbiamo dei mantelli di color verde scuro, su cui mi affretto a piazzare rami e arbusti: in poco tempo li rimedio al punto che se si abbassano e si sistemano vicini a un cespuglio o accanto a un tronco risultano quasi del tutto invisibili, con un po’ di aiuto da parte del buio che sta rapidamente prendendo possesso del bosco man mano che il sole va calando nel cielo. Fra una cosa e l’altra, infatti, si è fatta decisamente l’ora di muoversi, così andiamo.

Ci sistemiamo tutt’attorno alla radura, ben infrattati e nascosti, chi in cima a un albero chi acquattato a terra in un punto propizio. Io, dopo qualche difficoltà con quel tronco tutto dritto senza grossi appigli, riesco a salire su un grosso albero e mi cammuffo tra i rami, trovando una posizione quasi comoda dove attendere. Stringo in mano l’arco e incocco la prima freccia. Annuso l’aria, e ci trovo già il profumo della notte. Una luna di latte, quasi piena, spande la sua luce mistica e dolce su quel paesaggio nordico, reso arcano da quel cerchio di monoliti.

Non passa molto tempo che si inizia a udire un lontano salmodiare. Non capisco le parole perché sono in lingua barbara, ma appena quelli si avvicinano un po’ riesco a capire che cantano in un qualche dialetto germanico. Vedo Publio che mi fa segnali sbucando dal suo cespuglio, poi torna giù tra le fronde: arrivano. E infatti eccoli: due file di incappucciati con in mano delle torce, preceduti da un vecchio con una gran barba grigia e una lunga veste pure color cenere. Saranno poco più di venti, di certo non arrivano a trenta, uomini e donne pressapoco in egual numero. In mezzo alle due colonne di fedeli intenti al canto c’è una ragazza bionda con un vestito bianco e una corona di foglie secche e bacche tra i capelli. Sai che non vado matto per le nordiche, ma devo ammettere che lei era una vera bellezza. Camminando su uno stretto sentiero passano proprio in mezzo fra me e Publio, senza vederci, ed entrano nella radura.

Non pare proprio che portino armi, a meno che non le celino sotto le vesti. Il sacerdote sì, invece: ha in mano uno scramasax, un lungo coltello a un solo filo tipico di quelle lande. Un’arma rozza, ma efficace. In mano a un mago, un necromante o un sacerdote, un coltello è sempre un cattivo segno: significa che ci sarà un sacrificio e, non essendoci sul posto agnelli, vacche o altri animali, per la bella ragazza in bianco butta male, penso. Sempre senza smettere di cantare, il sacerdote entra per primo nel cerchio di pietre e si mette di fronte all’altare. Lo posso vedere in faccia, adesso, e noto che ha lineamenti feroci e lo sguardo del fanatico. La folla si dispone a nord, alle sue spalle, mentre la ragazza con movimenti lenti e aggraziati sale sull’altare e vi si stende sopra, del tutto docile. Se lui pare un fanatico, tanto più deve esserlo lei, per donare la vita in quel modo a divinità oscure assetate di giovane sangue umano. Ma questo non vuol dire che si debba o si possa lasciarglielo fare. Magari l’hanno drogata, indottrinata, minacciata, chissà. In ogni caso, le leggi umane umane e quelle divine ci impongono di interrompere l’adunata blasfema di quei pazzi e salvare la fanciulla, che lei lo voglia o meno. Anche perché il suo sangue potrebbe essere usato per evocare qualche entità che non deve camminare su questo mondo, o compiere incantesimi proibiti dalle conseguenze difficilmente calcolabili.

Ma questo tu e io lo sappiamo anche troppo bene, vero?

Avevamo visto abbastanza, era arrivato il momento di bloccare qualunque cosa stesse avvenendo laggiù.

Fu Maximus a dare il segnale: entrò nella radura di corsa da sud-ovest con lo scudo proteso e la spada in mano insieme ai tre o quattro soldati Cheruschi che si erano nascosti vicino a lui, gridando:

“Fermi! Per l’Imperatore!”

Stavo per balzare giù per unirmi a loro, quando il sacerdote alzò le braccia. I cultisti scomparvero nel nulla, senza lasciare traccia. La fanciulla non era più una fanciulla ma un Germano grande e grosso, che si alzò di scatto in piedi sull’altare e si liberò della veste, mentre il suo corpo iniziava a mutare, crescere e coprirsi di peli, la testa a cambiare forma tra gli scricchiolii delle ossa che si spostavano per ridisporsi in maniera diversa. In pochi istanti al posto della bionda c’era un biondo, e poi non c’era nemmeno più il biondo ma un enorme lupo nero a due zampe!

I Cheruschi frenarono la loro corsa, come anche gli altri della nostra compagnia che stavano per intervenire da ogni lato. Maximus invece non rallentò nemmeno. Lui e la bestia si stavano per investire a vicenda ma Maximus quasi all’ultimo scartò e si gettò contro il menhir. Il pietrone si smosse – ricordi la trappola che avevo preparato? Maximus sì, lui se l’è ricordata – e cadde giù, dritto verso il lupo. Quello tentò di schivare, ma ci riuscì solo in parte, ricevendo un colpo “di striscio” che gli tirò via pelle e carne da una spalla. Poi il menhir si abbatè sull’altare, lanciando schegge e polvere tutt’intorno,e rimase di sbieco lì, a opportuna profanazione del tempio. Il lupo però prontamente girò intorno alla pietra caduta e saltò verso il nostro compagno, che gli si scagliò contro: si scontrarono in un impatto brulicante di zanne, artigli e lame.

Corni da caccia risuonarono nelle tenebre, e urla di guerra esplosero nell’aria gelida della notte tutt’intorno a noi, alle nostre spalle!

Dietro di me ne vedo accorrere due, armati di asce e giavellotti. Tendo l’arco e tiro sul primo, senza nemmeno pensarci. La freccia lo coglie al petto, poco sotto la clavicola. L’uomo cade a terra gridando, ma il suo compagno mi cerca con lo sguardo e mi vede, arrampicato lassù sull’albero. Carica il giavellotto all’indietro per lanciarmelo contro mentre io preparo la seconda freccia, e capisco che tireremo allo stesso tempo. Più veloce di entrambi però è stato Publio, che è emerso dal suo cespuglio roteando la frombola e lo ha colto sulla nuca, mandandolo lungo disteso per terra privo di sensi. Mentre lui finisce entrambi i crucchi io balzo a terra. Ai margini della radura è tutto un combattimento fra i nostri Cheruschi e i guerrieri nemici che arrivano da ogni lato alla spicciolata, mentre Maximus e due dei suoi compagni, quel Siegfried e l’egiziano, affrontano il licantropo. Cheruschi, Romani e cultisti Germani si affrontavano senza risparmiarsi, spargendo sangue sulla neve ormai pesta e sozza del santuario… il sangue che aveva visto Branoc nel suo delirio! Branoc però non ebbe tempo e modo di riflettere sulla cosa, dato che era ingaggiato da un paio di avversari. Il sacerdote, invece, com’è usanza della sua genìa, tentò subito di squagliarsela, indietreggiando verso nord dove il campo pareva meno affollato. Cadde però nella mia seconda trappola, ferendosi la caviglia contro i paletti appuntiti che avevo piazzato. Vitruvio e un paio di Cheruschi ne approfittarono per lanciarsi su di lui. Lo afferrarono, lo tirarono su, gli tolsero di forza il coltello e iniziarono a trascinarlo via verso il bordo della radura, Dal bosco però emersero due guerrieri nemici, che si piazzarono fra loro e la salvezza.

Io nel frattempo ero sceso dall’albero e cercavo di andare verso il centro per dar man forte a Maximus, ma mi vidi attraversare la strada da un nemico che sopraggiungeva in quel momento, e che non mi scorse. D’istinto tirai e lo colsi con la mia freccia al ventre. Poi senza fermarmi mi misi l’arco a tracolla e gli diedi il colpo di grazia col pugnale, passandogli accanto, poi impugnai la lancia, imbracciai la pelta e insieme a Publio irruppi nella radura.

Lì era tutto un macello, un ammazza-ammazza fra i nostri e i cultisti. Quelli non parevano mai smettere di arrivare, accompagnati e spronati dal suono di molti corni che veniva dal più folto della selva. Ma quanti erano? Branoc stava guidando i Cheruschi verso il centro, in modo da radunarsi e poter meglio resistere all’attacco che proveniva da ogni direzione. Maximus era ferito solo leggermente, grazie all’usbergo, e così l’egiziano, mentre Siegfried aveva lunghi graffi sul volto e sul collo e sanguinava pure da una gamba. Il lupo mannaro dal canto suo aveva tagli di spada su tutto il corpo, e il suo rosso liquame maledetto colava sulla neve da ogni lato. Mi gettai verso di loro, sempre seguito da Publio, per dare il mio contributo alla lotta. Non ci pensai affatto allora ma dopo me lo sono chiesto: combattere un licantropo si considera un duello o una caccia, secondo te, Lucrezio? In realtà per me non fa molta differenza: è sempre solo una tacca in più sulla mia lancia. Quella volta non la ottenni, la tacca, perché prima che potessi arrivare a tiro Maximus colse la bestia con un fendente micidiale, che la aprì dalla clavicola fino a mezzo il petto. Eppure quella cosa non cadde, ma rispose con un’artigliata che il nostro amico riuscì a stento a schivare. Siegfried però, che a dir la verità stava mostrando un coraggio da leone, si trovò l’avversario di spalle e ne approfittò per tirargli una stoccata. Il colpo non mi parve così ben riuscito, anzi la spada scivolò via dopo essersi aperta la strada sul lato della nuca del licantropo, ma ad ogni modo il lupo a quel punto si fermò, esitò, cacciò una specie di guaito e crollò, io credo più per la botta fortissima di Maximus che per il graffio di Siegfried. Fra l’altro alle bestie di quel tipo l’acciaio fa poco o niente mentre soffrono parecchio l’argento, come molti altri Figli delle Tenebre. Ed è per questo che le lame di noi Pretoriani Neri sono forgiate in una lega di acciaio e argento. Il vanaglorioso Cherusco però cacciò un urlo di trionfo, e alzò il brando al cielo come se avesse ucciso il mostro lui da solo. E infatti non si fece scrupolo a gridarlo, quasi incredulo della propria vittoria: “Wafna! L’ho ucciso! Ho ucciso il mostro, avete visto? L’ho fatto io! E’ morto, l’ho ucciso io!”

Maximus non reagì affatto, se non con un sorrisetto ironico che gli si disegnò di sbieco sul volto.

Io, che stavo correndo verso di loro, vidi che dall’altra parte, a nord, la via era sbarrata solo da quel paio di guerrieri nemici con cui se la stavano vedendo Vitruvio e i suoi compagni. Altri due Cheruschi stavano già accorrendo da quella parte. Indicai quella direzione a Maximus con la lancia e lui gridò: “Di qua! Seguitemi tutti!” La maggior parte dei Cheruschi si sganciò dalla mischia e lo seguì, da ogni direzione. Arrivammo tutti insieme addosso a quei due, che cercarono di darsi alla fuga ma vennero falciati in corsa.

Prima di abbandonare la radura mi girai indietro.

Dall’altra parte, a sud, ci saranno stati almeno trenta nemici, fra loro due sacerdoti in grigio armati di scramasax, e continuavano ad arrivare guerrieri da ogni dove. I sacerdoti si avviarono verso l’altare semidistrutto e levarono in alto i coltelli assetati di morte. Quattro dei nostri soldati giacevano a terra morti e altri due, feriti, erano stati presi prigionieri e venivano trascinati a viva forza dai loro compatrioti verso il sacrificio. Non c’era nulla da fare per loro, purtroppo: tentare di salvarli sarebbe stato un inutile suicidio. Sono quelli i momenti peggiori della guerra contro le tenebre Lucrezio: non quando ti tremano le mani prima di una battaglia, non quando affronti a viso aperti orrori da toglierti il sonno per anni, ma quando sei costretto ad abbandonare qualcuno a un destino tanto atroce, che nessuno dovrebbe affrontare.

Però una piccola vendetta sono riuscito a prendermela, per quei poveracci trascinati verso una morte orrenda: un tiro fortunato ha colto uno dei due vecchi gufacci proprio nel petto, e lo ha mandato a incontrare i suoi Dei maledetti prima di quanto lui non pensasse.

Trascinandoci dietro di peso l’altro sacerdote, quello ferito alla gamba che avevamo catturato, ci tuffammo nella foresta. Lui brancicava e sgambettava invano per opporsi ai due grossi Cheruschi che lo portavano ma poteva fare ben poco, e ce lo portammo via con noi senza che ci rallentasse nemmeno.

Lì nel bosco le ombre erano molto più fitte, e non ci fu facile identificare i nemici che correvano fra gli alberi diretti verso la radura. Ma loro non si aspettavano di trovarci lì, e pensavano che fossimo ancora all’interno del tempio. Noi sì, noi lo sapevamo che c’era gente nel bosco, che filava in direzione opposta a noi. Un paio di cultisti ricevettero il bacio della morte prima ancora di rendersi conto di cosa li avesse colpiti, altri due o tre riuscirono a squagliarsela gettandosi di lato nella boscaglia prima di essere colpiti. Procedevamo in formazione serrata, di corsetta, con il bravo Siegfried che non la piantava più di vantarsi coi compagni per aver abbattuto il licantropo con le sue stesse mani. Ora: era notte, nella foresta più fitta, io ero avvolto nel mantello scuro intessuto di rami, e con la mia pelle scura e l’abilità di muovermi in silenzio e individuare belve nella vegetazione, mi trovavo del tutto a mio agio. L’unico problema era la neve, che rifletteva candida la luce lunare, ma potevo benissimo passare per un arbusto qualunque.

Afferrai Branoc per un braccio:

“Ci vediamo al campo, se ci perdiamo, no?”

“Certo, ma..”

“Vado in retroguardia, per rallentarli. Li sento, che ci stanno dando la caccia. E io vado a dar la caccia a loro.”

Il Britanno annuì e corse via, mentre io mi appostavo acquattandomi presso a un albero.

Non passò che qualche istante quando riuscii a percepire un’ombra in movimento: un esploratore dell’avanguardia nemica. Tesi l’arco, e quello cadde senza il tempo di cacciare nemmeno un lamento. Dovevo muovermi, non potevo perdere del tutto il gruppo. Mi spostai quindi, appostandomi dietro a un arbusto più indietro. Un paio di cultisti venivano avanti insieme, a poca distanza l’uno dall’altro, uno a destra e uno a sinistra. Presi di mira il più vicino, mi alzai e tirai. Quello gridò e si accasciò a terra. L’altro però mi vide. Tirai di nuovo, cogliendolo a una coscia, lui però scagliò il gavellotto. Dannazione, Lucrezio, con tutta quell’agitazione e in tutto quel buio non me ne ero reso conto e li avevo fatti venire troppo sotto, un errore da pivello! Il giavellotto solcò l’aria della notte e mi colse alla spalla sinistra, che tenevo avanzata per tirare. La punta oltrepassò il muscolo deltoide e sbucò dall’altra parte. Repressi il grido in un sommesso ruggito per non attirarmi addosso tutta l’allegra compagnia dei cultisti. Il Germano ferito arrancava per allontanarsi, mentre chiamava aiuto. Tesi di nuovo l’arco e lo trafissi alla schiena. Poi corsi via, cercando di tenere il giavellotto più fermo possibile con la mano. Per gli Dei, Lucrezio, quanto faceva male! Ma lì non potevo rimanere nemmeno un momento, se volevo sopravvivere a quella brutta avventura. Andai verso la nostra compagnia, che non doveva essere ancora molto lontana. A un certo punto però fui costretto a fermarmi, paralizzato dal dolore: l’asta ballonzolava lacerandomi la carne sempre più. Riuscii in qualche modo a spezzarla, provocandomi ancora altra sofferenza e altri danni al muscolo della spalla. Di nuovo dovetti soffocare un urlo stringendo i denti, il sudore che mi colava dalla fronte. Almeno adesso il pezzetto di asta rimasto e la punta che mi usciva da dietro la spalla restavano ferme quando correvo. Mi preoccupava la sottile striscia di sangue che mi lasciavo dietro, facile da seguire anche alla luce della luna se fra i cultisti c’era qualche cacciatore esperto. E c’era di sicuro, essendo quelli abitanti delle foreste. In qualche modo raggiunsi la colonna dei superstiti, che ora marciava a passo spedito. Vitruvio senza fermarsi prese un panno e iniziò a comprimerlo sulla ferita, tutt’intorno a ciò che restava del giavellotto. Il sangue non si fermò del tutto, ma quasi. Faceva male come le torture del Tartaro, ma il braccio riuscivo a muoverlo, più o meno. Girammo di largo deviando verso ovest, sempre accompagnati dal suono dei corni di quelli che ci inseguivano. Sentii Siegfried bestemmiare e sibilare: “Ma quanti sono quei maledetti? Quella dannata setta si è diffusa come un fuoco tra le stoppie.”

Aveva ragione. Il seme della follia aveva trovato terreno fertile fra quelle popolazioni ignoranti e superstiziose, ancora legate a credenze tribali pur dopo tanti secoli di tentativi di civilizzazione.

Il campo non era lontano, lo avevamo piazzato a meno di un’ora di marcia, e riuscimmo a raggiungerlo schivando le squadre di ricerca, anche grazie a un paio di pugni in faccia da parte di Maximus che convinsero il nostro prigioniero a smetterla di cercare di attirare l’attenzione dei suoi. Anche lo sguardo truce e minaccioso dell’uomo nero – io – contribuì a farlo star zitto. Non aveva mai visto un Numida, quel provinciale, e pareva avere di me un sacro terrore. Buh!

Arriviamo al campo. Mentre Vitruvio finalmente mi estrae il giavellotto dalla spalla, e io riesco non so come a non svenire, gli altri buttano in tutta fretta le provviste sul carro di Ezio. Poi ci buttano sopra anche me a causa della ferita, anche se volendo potrei camminare, e partiamo. Il carro con le sbarre per traporto prigionieri lo lasciamo lì, per i cultisti. Per quel che mi interessa ci si possono chiudere dentro a chiave e poi dare fuoco a quella paglia lurida su cui noialtri abbiamo dovuto dormire per tante notti. Alcuni cavalli li lasciamo andare, prendiamo solo i più docili e robusti, e i muli. Ezio non dice più niente, pare in preda allo sconforto e alla disperazione. Adesso è chiaro a tutti che lo hanno preso per il naso per mesi, attirando lui, e noi con lui, in quel trabocchetto a bella posta. Anche il vecchio che gli ha indicato la posizione del tempio doveva essere d’accordo. I cultisti hanno perso molti uomini nello scontro, oltre al lupo mannaro, ma hanno ucciso quattro soldati nella mischia e si sono procurati due Cheruschi del Principe per il sacrificio. Sei caduti in totale. Nessun Pretoriano, almeno, e forse sacrificare noi a qualche divinità proibita era l’obiettivo principale del culto. Nessun Pretoriano perduto… finora, penso, tastandomi la ferita che brucia e pulsa come l’ingresso del dannatissimo Ade. Adesso abbiamo due compiti: il primo è raggiungere un luogo civilizzato e denunciare la setta, in modo da scatenare una campagna di distruzione su vasta scala e purificare la zona, l’altro è fare in modo che nessun altro della nostra compagnia ci lasci la pelle. I corni si fanno sempre più vicini, sempre più minacciosi. Partiamo.

Parte successiva:

La setta della Foresta Nera – Parte IV – Per la Corona d’Acciaio (lacoronadacciaio.it)

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