LE CRONACHE DEI PRETORIANI NERI

Dopo la vittoria di Teutoburgo l’espansione dell’Impero non ebbe più limiti: con Germanico e gli Imperatori successivi il “limes” raggiunse gradualmente i monti Urali. Usammo poi i cavalieri germani per conquistare il regno dei Parti e ci spingemmo fino all’Arabia Felix e a Sud dell’Egitto. La guerra più dura che dovemmo affrontare tuttavia venne dall’interno: ai tempi dell’Insurrezione le Tenebre si sollevarono e reclamarono il dominio del mondo. I figli delle Tenebre non prevalsero, ma il prezzo da pagare fu alto. Oggi l’Impero si estende dall’India all’Hibernia, dagli altopiani d’Etiopia fino ai fiordi dell’Ultima Thule, però oltre i confini della sacra Italia il potere dell’Imperatore è limitato. A Lui restano poche armi per influenzare i Re che governano in suo nome: il denaro delle decime, le parole alate del Culto Imperiale, le coorti dei Pretoriani Aurei pronte a soccorrere i Regni minacciati. E noi, i Pretoriani Neri. Noi siamo l’Inquisizione, la mano sinistra dell’Imperatore, la lama nascosta degli Dei, la sentinella all’erta nel buio. Siamo i guardiani dei cancelli degli Inferi.”

Aurelius, XI Console Nero.

1. Il racconto di Lucrezio: Mathos il cacciatore

Contrariamente al mio solito, vi narrerò oggi non eventi che ho vissuto e a cui ho assistito in prima persona, ma le avventure riferite da un amico. Non amo raccontare storie sentite in giro, e questa sarà forse la prima e l’ultima volta che lo faccio. Infatti, gli avvenimenti che vedono coinvolta l’Inquisizione Imperiale già di per sè sono così spaventosi e bizzarri che non è facile crederci e, se si tratta di cose non vissute sulla propria pelle da chi le espone, la loro verosimiglianza è messa ad ancor più dura prova e possono sembrare quasi ridicole e del tutto prive di fondamento, come fole messe in giro da buontemponi. E però conosco Mathos da una vita e so che, oltre a essere un Pretoriano Nero intrepido e affidabile, è del tutto privo di fantasia. Quindi sono portato a credere alla sua versione dei fatti, che d’altro canto ho potuto verificare dalle testimonianze dei suoi contubernali e anche da una fonte indipendente che più tardi riprodurrò per intero, alla fine del racconto.

Ho conosciuto Mathos quando entrambi militavamo nei Pretoriani Aurei al fianco delle truppe dell’Etiopia contro le tribù situate più a sud, dedite alla più oscura stregoneria: io ero un Tribuno militare di classe equestre e lui un Centurione in un’altra Coorte.

Non vi dico la mia sorpresa quando ci ritrovammo, di nuovo fratelli d’arme ma questa nella Mano Sinistra dell’Imperatore, in una domus occulta dell’Inquisizione non lontano da Londinium.

Mathos, dovete sapere, è un abile cacciatore Numida, ma di quella parte della Numidia che confina col deserto più desolato e sterminato, laddove ben poche carovane si avventurano e il calore pare non tollerare che nessuna pianta o animale possa vivere. Mathos, nato da una feroce cacciatrice di quei luoghi e da un soldato Numida inviato a presidiare una fortezza ai margini del deserto, è cresciuto fin da piccolo passando lunghi periodi da solo nelle zone più aspre, e abbattendo ogni sorta di animali selvaggi come un gladiatore “venator” dell’arena. Taciturno e normalmente serio e sempre all’erta, quando – raramente – si sente davvero al sicuro insieme a vecchi compagni come me si lascia andare a sonore risate e grandi bevute. Fisicamente è un uomo alto, forte, dalla pelle molto scura e spessa come il cuoio, non del tutto nera come quella degli Etiopi ma quasi, con una gran barba corvina e denti bianchissimi, o forse così pare per il contrasto che fanno con il suo colore tanto bronzeo. Il suo grande arco composito e la sua lancia raramente falliscono il bersaglio, che sia in mischia o da lontano, ed è maestro nel trovare tracce e piste, camuffarsi nella natura e muoversi non visto. Un’altra cosa su cui è bene che vi avverta è che Mathos, contravvenendo allo spirito dell’Impero, non ritiene che gli uomini siano tutti uguali e ugualmente degni di rispetto, a tutte le latitudini. Considera invece quelli nati attorno al Mare Nostrum, come me e lui, superiori in modo innato a coloro che discendono dai popoli un tempo barbari dell’Europa settentrionale. Egli li ritiene civilizzati solo in superficie e non affidabili e, insomma, inferiori. Non mi dilungherò qui a raccontarvi degli sguardi di fuoco che si scambiarono lui e il mio buon amico Geata Suenus durante tutto il tempo in cui dovemmo stazionare insieme in quella “domus occulta”, impossibilitati a uscire e costretti in uno spazio così ridotto. Nonostante mi abbia fatto molto piacere rivedere il mio vecchio compagno d’armi, infatti, fu un sollievo quando il resto del suo contubernium arrivò a prenderlo, e partirono tutti quanti per la Gallia mentre noi dal canto nostro ci preparavamo a viaggiare verso ovest. Per cui, quello che leggerete di ingiurioso sui popoli nordici viene dalle sue labbra e non dal mio stilo, se non perché con questo scritto do conto del suo racconto tal quale lo ricordo, improperi compresi. Insomma, relata refero, non è colpa mia se Mathos ce l’ha coi Germani: se non vi sta bene vedetevela con lui e non con me, che non condivido affatto le sue idee e non c’entro nulla.

Comunque, quella prima sera in cui ci rivedemmo ci versammo del vino e ci mettemmo a parlare dei vecchi tempi, e anche delle più recenti missioni dell’uno e dell’altro. Nessuno dei due raccontò come era arrivato al punto di dedicare la propria intera esistenza alla grande caccia dell’Impero contro i Figli delle Tenebre, rinunciando ad avere una vita propria. Si tratta di eventi di solito molto personali, e che nessun Pretoriano Nero prova piacere a rivangare.

Mathos mi raccontò, invece, ciò che ho deciso di lasciare nero su bianco su questo rotolo di papiro, che riporrò in un luogo sicuro insieme a quelli che contengono le mie proprie imprese durante questa guerra contro il Male sempre in agguato, che pare non aver mai fine.

2. Il racconto di Mathos – Missione nella Foresta Nera

Nelle selve e nelle foreste più oscure e desolate, fra alberi secolari e antiche rovine dimenticate, tendono ad annidarsi i Figli delle Tenebre e i loro adoratori, e non solo presso il Limes dell’Impero o al di fuori di esso, ma anche all’interno delle terre che conoscono la luce eterna di Roma. Le frange più retrive e isolate dei popoli e delle tribù che un tempo hanno praticato riti oscuri e sacrifici umani a divinità assetate di sangue non facilmente abbandonano le loro deprecabili abitudini, e tendono a ritornarvi in occasione di siccità, carestie e pestilenze, come se le antiche divinità dei loro barbari antenati potessero proteggerli da quei mali, sia pure a un prezzo disumano, e così cadono nella trama degli inganni di quelle entità e le fortificano compromettendo la sicurezza di tutti. Se la pace dell’Imperatore e le preghiere dei sacerdoti e la giustizia dei principi locali non riescono a tenere lontano da quegli incolti il ritorno all’adorazione dell’Ombra, allora, figli miei, sarà vostro dovere proteggerli da loro stessi, purificando col ferro e col fuoco fino a che ogni vestigio dei culti proibiti e degli esseri maligni che essi venerano non sarà estirpato, e il sereno dominio dell’Impero e dell’Olimpo non saranno stati riprostinati.”

Balarus, X Console Nero

“Ecco, ti stavo dicendo, Lucrezio… insomma arriva questo Tribuno e ci spedisce senza tante spiegazioni da Roma direttamente verso nord, pure se era ormai autunno inoltrato e l’inverno era alle porte. Insomma, sai che io sopporto bene il caldo ma il freddo mica tanto, e già la prospettiva di andare verso nord in quel periodo non mi piaceva affatto. Le “provocatrici” del nostro contubernium erano impegnate altrove in una missione diversa quindi partiamo in tutta fretta solo noi cinque: io, Vitruvio, quel bestione di Massimo l’Illirico, Branoc il britanno e ovviamente Publio, il nostro decanus.

Com’è come non è, a un certo punto salta fuori che la nostra destinazione è la Germania. Immagina che giubilo per il sottoscritto. Sì, ce le hanno dette un po’ alla volta le cose, come se così le cattive notizie facessero meno male.

Arriviamo ad Aliso, e lì ci doveva raggiungere un certo Ezio, anche lui un Pretoriano Nero ma originario del posto. Quando si presenta… beh avrei voluto picchiarlo subito, senza nemmeno farlo parlare: pareva un vero barbaro, con quei capelli biondicci, la pelle color rosa-maiale, la barba lunga a treccine, con dei ninnoli appesi a quelle stupide treccine che nemmeno una meretrice delle peggiori. Per fortuna ci ha parlato Publio, che sa essere diplomatico al punto giusto, e io mi sono limitato a grugnire in disparte. Deve essersi accorto lo stesso che lo guadavo male, perché cercò di giustificare il suo aspetto da barbaro adducendo la necessità di farsi passare per un mercante locale. Non lo so, magari invece si trovava bene ad andare in giro così. Sta di fatto che da lì in poi, seguendo il piano di quel bellimbusto, le cose hanno iniziato ad andare sempre peggio.

In pratica, si trattava di questo: il sospetto dell’Inquisizione era che vi fosse una setta dedita a culti proibiti che in segreto praticava riti tribali blasfemi nel folto della Foresta Nera, evocando oscure divinità ancestrali. Dato che, per le genti della selva che ancora oggi ricopre quella vasta regione, il Solstizio d’Inverno è una data sacra, il proposito di Ezio era recarsi in quelle terre in incognito in quei giorni e coglierli sul fatto. Il sovrano locale, il Principe dei Cheruschi, ci aveva messo a disposizione quindici soldati dei suoi, come appoggio. Erano tutti Germani di primo pelo, tranne uno che non era meno inesperto degli altri ma almeno era un egiziano, un tale Sahura, che non saprei dire come fosse finito dalla terra del sacro Nilo in quel posto dimenticato dagli Dei e dagli uomini. Non era un granché come forza di intervento, tanto più che si trattava di soldati crucchi e non di veri Romani, ma d’altro canto l’idea che Ezio si era fatto era che i cultisti fossero tra i venti e i cinquanta, non di più, compresi vecchi, donne eccetera. E comunque le forze a disposizione erano quelle, se non si voleva perdere l’occasione del Solstizio. Decidemmo che, se fossimo riusciti a scoprire il luogo del rito, avremmo cercato di osservare gli officianti non visti, e avremmo poi deciso se intervenire subito oppure no a seconda del numero dei nemici. La nostra copertura doveva essere che alcuni di noi erano dei “captivi”, dei criminali prigionieri che gli uomini del Principe stavano scortando verso le miniere a est. Ezio, dal canto suo, per viaggiare più in tranquillità col suo carro di mercanzie, si era unito alla spedizione per risparmiarsi i soldi di una scorta sua propria.

Ora, secondo te chi doveva fare la parte del galeotto?

Cosa ridi, Lucrezio? C’è poco da ridere, per Diana Cacciatrice!

Beh, per farla breve: a Branoc, che a prima vista può passare per un Germano, e a Maximus che pare abbia scritto in fronte “soldato” è toccato di far parte del corpo di guardia, mentre il povero Mathos, Publio e Vitruvio si sono dovuti adattare a farsi incatenare come dei fottuti schiavi.

Ti puoi immaginare, dico io, un uomo come me, un fiero mediterraneo di pelle nera, in catene, trascinato da gente i cui antenati dalla zazzera bionda o rossa e la pelle bianchiccia di certo sono stati incatenati – per davvero, quella volta – dietro al carro di Germanico o di un altro generale di quei tempi lontani? E’ proprio il mondo alla rovescia, credi a me! Un vero Numida, erede di Massinissa, messo in catene, trascinato da un Germano biondo con le perline nella barba, roba da non credersi, mai vista.

Per il corpo dei Pretoriani Neri però si fa di tutto: come si versa il sangue – proprio o del nemico – si manda giù anche l’orgoglio di casta, quindi ci adattiamo, ci lasciamo incatenare e rinchiudere in un carro dotato di sbarre. Non ti dico la rabbia nel vedere i sorrisetti dei soldati Cheruschi, che Ecate se li porti! Avresti dovuto vedere come se la spassavano, quei figli di schiavi… In particolare un tal Siegfried, un giovinastro del posto che mi è stato sulle scatole fin dall’inizio, un tracotante figlio di puttana che aveva sempre sulle labbra e le belle tradizioni del “volk”, e i costumi degli antenati, e i nomi degli Dei Germani… quelli tollerati ovviamente.

Ah, ma se mi passa a portata di lancia, pensavo io, rosicando. Chi lo avrebbe detto che poi…

Ma andiamo con ordine. A proposito, ovviamente ci tolsero tutte le armi. Sì, lasciare il mio bell’arco in mani palliducce mi è costato molto, e anche restare senza lancia né pelta. Nemmeno il coltello da caccia mi hanno lasciato, e sì che preferirei girare nudo piuttosto che disarmato, lo sai.

Alla fine partiamo, verso metà dicembre, in quelle terre gelide e inospitali, noi tre chiusi nel carro a rabbrividire sotto un cielo sempre più grigio e il nevischio che iniziava a cadere, e quegli altri due bastardoni di Maximus e Branoc a cavallo con le guardie, avvolti nei mantelli di lana pesanti, che ci pigliavano per il sedere.

Passò ben poco tempo che ai campi coltivati si sostituirono boschi infiniti di alti e scuri pini o abeti, mentre ci inoltravamo sempre più nella selvaggia Foresta Nera.

Non so se tu ci sei mai stato, ma da quelle parti, Lucrezio, è tutto un enorme bosco infinito, senza limiti, con la poca luce invernale che filtrava grigiastra di traverso tra le fronde, in mezzo a tronchi neri alti come i palazzi della Città Eterna. In quell’epoca poi il suolo è cosparso di neve, tranne che in piccoli cerchi attorno alla base dei pini e degli abeti, dove traspare un triste tappeto di aghi secchi umidicci. Un paesaggio spettrale.

I villaggi sono sparsi, piccoli, insignificanti e senza attrattive che vadano oltre qualche catapecchia di assi di legno che fa da locanda, dove servono per lo più birra e il poco vino che si trova fa schifo… almeno, a dire delle guardie, perché a noi carcerati non ne toccava affatto. Le povere puttane da taverna poi sono slavate e palliducce, niente a che fare con le altere fenicie profumate dagli occhi di giaietto che ti fulminano con mezzo sguardo nei porti del Mare Nostrum. E comunque anche di quelle poverette messe così male a noi galeotti non ne toccava affatto.

Addentrandoci in quelle lande selvagge e solitarie la gente diventava cupa e silenziosa, ostile agli stranieri e perfino ai soldati del loro stesso Principe, mentre il freddo si faceva sempre più intenso e la neve copiosa.

So che tu sei stato mandato fino agli Urali, al Limes, e preferisco non immaginarmelo nemmeno: non so come hai fatto a sopravvivere là. Per quanto riguarda me, mandatemi in mezzo al deserto, mandatemi nella giungla più fitta, mandatemi nella lava dell’Etna e vi dirò “hic manebo optime”, ma se devo gelare così come in Germania allora piuttosto uccidetemi subito.

Insomma, procedevamo verso la zona dove Ezio sospettava che si trovasse il sacrario occulto della setta, con sempre maggiori difficoltà e scorte di cibo sempre più ridotte, i muli e i cavalli che arrancavano tremebondi, e il Solstizio d’Inverno era ormai davvero prossimo, ma niente. Nessuno parlava, non c’erano tracce. Ezio non riusciva a raccogliere confidenze dai locali nemmeno offrendo loro da bere fino a stenderli sotto il tavolo: niente tranne inutili pettegolezzi e lamentele sul tempo, e il raccolto, e il prezzo del pellame e della legna. Lo stesso Ezio, che all’inizio era sembrato un tipo molto sicuro di sè e quasi sbruffone, non sapeva più che pesci pigliare e lo ammetteva pure con noi, per cui ci limitavamo a spostarci verso oriente senza molto costrutto.

Una notte – ci eravamo accampati a una certa distanza da un villaggio, che peraltro faceva pietà per la scarsità degli abitanti e la pessima qualità delle costruzioni, se così vogliamo chiamarle – abbiamo iniziato a sentire dei gran ululati provenire dalle selve a est del campo. Ora, io potrò non essere esperto in particolare dei lupi della Foresta Nera, ma gli animali in generale li conosco bene, e ho come una specie di istinto che mi permette di capirli. Tu sai che è vero. Ti ricordi quell’enorme scimmione che ci trovammo all’improvviso accanto nella foresta, laggiù al confine meridionale dell’Etiopia? Ecco, appunto. Ti dico che i versi di quegli animali là in Germania mi facevano accapponare la pelle sulla nuca, e non saprei dirti il motivo ma anche gli altri avevano tutti la stessa sensazione. Come se nelle voci dei fratelli della foresta ci fosse qualcosa di innaturale. Non erano lupi normali. Devi sapere che il britanno, Branoc, se non fosse un Pretoriano Nero forse sarebbe uno Stregone, o uno di quei Druidi che tanti secoli fa guidavano il suo popolo mezzo barbaro, e da cui i suoi parenti dicono di discendere. Ovviamente lui si guarda bene dal praticare qualsiasi forma di magia, ci mancherebbe. Però ha delle sensazioni, in particolare sulle piante, gli animali, il cielo, la natura in genere, e fa dei sogni che a volte si realizzano, o magari sono come degli enigmi che possono gettare una luce sulle vicende in cui siamo coinvolti. Lui stesso ne ha un po’ paura, e si schermisce quando lo si incalza su ciò: dice che non sa, che sono cose che capitano ma lui non fa nulla perché avvengano, e io gli credo. D’altra parte più volte ha superato investigazioni ufficiali dell’Inquisizione al riguardo. La mia umile opinione, da cacciatore che non sa molto di magie oscure e Dei e religioni, è che in qualche modo qualche divinità gli parli, e che non sia una divinità oscura. Non sempre le visioni delle sibille e dei veggenti sono da condannare, infatti: pensa per esempio alla Sibilla Cumana o alla Pizia di Delfi. Devo anche ammettere che più volte al contubernium le sue “illuminazioni” sono state utili… almeno altrettante volte rispetto a quelle in cui ci hanno messo in imbarazzo, se non proprio nei guai.

Comunque, ci troviamo io e Branoc a guardarci negli occhi con lo stesso timore e lo stesso dubbio. In quel mentre sopraggiunsero i soldati Cheruschi, quasi in preda al panico, e lo stesso Ezio con il timore e una muta supplica nello sguardo spaurito.

Sai che sono un uomo d’azione, Lucrezio, e non mi piace esitare nè stare lì a fare troppe elucubrazioni. Nè mi dispiace agire da solo: se mi muovo nella foresta, per i fatti miei, è difficile che mi vedano o mi sentano, o anche mi annusino, dato che so bene come stare dalla parte giusta del vento. Figurati poi di notte nella foresta, con la pelle che mi ritrovo! E’ facile che i nemici mi vedano non prima di sentire la mia lancia nella loro pancia, e solamente perché a quel punto io sorrido, e i denti sì che si vedono bene anche alla luce della luna e delle stelle.

Ridi, signor Tribuno? E’ vero o no? Altroché se è vero, e lo sai!

La faccio breve. Chiamo Ezio e la organizziamo così: mi faccio ridare la lancia e il coltello, almeno. Tranciamo un anello della catena e corro via, nella notte! Se qualcuno mi trova si parlerà di un tentativo di evasione e, per rendere credibile la pantomima, i soldati Cheruschi mi hanno lasciato un po’ di vantaggio e poi si sono messi a girare con le torce intorno all’accampamento, come se mi stessero cercando. Concordata la versione da propinare alla popolazione locale, sono finalmente libero di andare in esplorazione. E libero dalle catene, anche, che non ne potevo più! Mica i miei antenati erano schiavi, per Diana: stare lì legato per giorni mi pareva una cosa del tutto innaturale e poco sopportabile.

Mi lancio a capofitto nella selva, seguendo gli ululati. Una luna quasi piena, vividissima, risplendeva in cielo, tra le nuvole che si erano sfilacciate grazie a un vento gelato ma pulito che mi sferzava il viso e le membra anchilosate, che a poco a poco risvegliavano la loro forza grazie alla corsa. Il fiato mi usciva dalla bocca in nuvolette di vapore, come se avessi aspirato i fumi stordenti dei sacerdoti egizi. Però, al contrario, ritrovarmi di nuovo libero in un paraggio selvatico mi svegliava, mi restituiva finalmente alla mia natura di cacciatore, come un leone a lungo tenuto in gabbia e liberato infine nell’arena, davanti allla sfida aperta del venator. Così io correvo con la lancia in pugno verso il branco di lupi, ansioso di confrontarmi con loro e scoprire cosa ci poteva essere di così strano in quelle bestie da far gelare il sangue nelle vene all’improvviso non solo ai soldatini crucchi ma anche ai miei stessi compagni, dei rudi veterani abituati ad affrontare le manifestazioni dell’Ombra.

Non tardai un istante ad accorgermi che, mentre prima gli ululati si avvicinavano, ora quelli davanti a me parevano ritrarsi mentre a destra e a sinistra avanzavano ai miei fianchi. Mi fermai di colpo. Pareva che avessero assunto una formazione a mezzaluna, per aggirarmi e circondarmi.

Come a Canne, dici? Di quali canne stai parlando? Una battaglia antica, di Annibale? Non lo so, Lucrezio, non sono un letterato come te, che ha studiato gli scontri dei tempi che furono. Però so riconoscere una manovra di aggiramento quando la vedo, dopo tanti anni passati sul Limes meridionale.

E quei lupi mi stavano per prendere in mezzo. Una cosa che i lupi normali non fanno, o almeno non così, coordinati come un vero esercito.

Reagii subito, lanciandomi indietro in diagonale, verso sud-ovest: in quel modo speravo di oltrepassare il corno sinistro dell’armata nemica, o almeno di sfondarne l’estremità per uscire dall’altra parte. Sì, lo so che sto parlando di lupi e non di guerrieri umani ma cosa vuoi che ti dica, in quel momento la sensazione era quella. Come se fossi davanti a un vero esercito, sia pure di belve.

Allora, mi lancio in quella direzione, sempre correndo sulla neve a perdifiato, con un po’ di ansia in più, come sempre succede quando la cacciagione reagisce in modo inaspettato e tu passi da sentirti cacciatore a preda, il che contro branchi di lupi, leoni o vampiri purtroppo accade abbastanza di frequente.

Quelli al centro smettono di arretrare e tornano a venire avanti mentre le ali accelerano, e per un po’ gareggiamo in velocità. Quando spero ormai di essere passato oltre e mi trovo non troppo lontano dal campo, quasi in salvo, eccone due che mi galoppano incontro.

Mi hanno fiutato, poi visto, e non ho speranze di poterli seminare. Allora giro sui tacchi e li carico a lancia spianata, digrignando i denti. La più piccola delle due belve viene colta da un attimo di smarrimento, si gira e se la dà a gambe, o forse dovrei dire “ a zampe”. L’altro però non esita e mi assale. Gli punto la lancia contro il muso e si ferma: un trucco che non fallisce mai contro cani, lupi o sciacalli. Ruggisce, con una frustrazione quasi umana, prova a muoversi a destra, poi a sinistra, ma io lo seguo con la lancia sempre puntata dritta in mezzo ai suoi occhi, e non osa avvicinarsi. Poi gli ululati intorno cambiano di tono, come se stessero incitando il loro compagno alla lotta. Una cosa mai vista o sentita. Quello gira di lato, di colpo, e si butta. Tiro una stoccata di lancia, spingendo l’asta a due mani senza lasciarla trascorrere nella mano sinistra per meglio sostenere l’urto, ma lui scarta all’ultimo e così lo prendo solo di striscio. E’ su di me e mi morde con forza, sento i canini entrare nell’avambraccio sinistro e il sangue scorrere caldo tra le sue fauci. Lo sollevo con il braccio sinistro ignorando il dolore, afferro la lancia vicino alla punta con la sola mano destra, quasi come fosse un pugnale, e gliela ficco dritta nel cuore. Un solo, breve guaito e la bestia giace al suolo, il sangue che cola e che spicca così rosso sulla neve tanto bianca. Mi chino a guardarlo mentre rende lo spirito alla terra. Un grosso lupo, ma non mi sembra che abbia niente di strano, ora che è morto. Per un istante valuto se caricarmelo in spalla e portarlo al campo, per scuoiarlo ed esaminarlo con calma. Ma gli altri lupi si avvicinano, e se non voglio avere altri incontri meglio sloggiare alla svelta. Così riprendo la corsa, e arrivo a destinazione senza altri incidenti.

Raggiunto il campo, fui subito circondato dai miei compagni d’arme e dai soldati Cheruschi. Mentre Vitruvio, il medicus, mi fasciava il braccio all’interno della tenda, raccontai tutto. Quei crucchetti mi guardavano con gli occhi spalancati, come se nessuno di loro avesse mai ucciso un lupo. Ma credo che la loro paura fosse ben altra, di tipo superstizioso. Perfino l’egiziano, alieno ai culti dei barbari, era impressionato. Lo so, lo so, i Pretoriani dell’Imperatore si sarebbero comportati altrimenti, ma a onore di quegli uomini va detto che almeno sono rimasti al loro posto invece che darsela a gambe, e non solo quella sera ma anche dopo, quando le cose si sono messe davvero male.

Mentre cercavo di rassicurarli sul fatto che sì, quei lupi si erano comportati in modo bizzarro ma in realtà non erano altro che cani di foresta, il nostro contubernale mezzo druido e mezzo barbaro non trova di meglio che rovesciare gli occhi all’indietro e cadere di spalle tutto d’un pezzo come se fosse una statua di legno intagliata!

Per fortuna Maximus lo ha preso al volo e lo ha deposto al suolo, con una delicatezza inusitata in quell’uomo di ferro.

Intanto però Branoc si mette pure a sbavare. Ti puoi immaginare la faccia di tutti quei pivelli: come se avessero visto un drago vampiro! Noi due lo abbiamo visto, un drago vampiro, e abbiamo anche visto la faccia dei nostri compagni in quel frangente, quindi puoi averne un’idea.

Vitruvio, che aveva appena finito di sistemare la mia ferita, accorre, ma non può fare altro che mettere il povero Branoc più comodo intanto che si riprende. Per fortuna non ci mette molto, sennò capace che la gente iniziava a fuggire in mezzo al bosco, finendo di male in peggio. Il britanno si sveglia, si passa una mano sulla bocca e ci squadra come se fossimo noi quelli sballati.

“Cosa ci fate qui tutti intorno a me?” si stupisce.

“Sai com’è, sei crollato secco come il colosso di Rodi col terremoto… un pochino ci siamo preoccupati.” lo redarguisce Maximus, a sua volta incredulo per la reazione di Branoc.

Dato che non è il caso di discutere con Maximus, se ci tieni alle tue ossa, il britanno si zittisce, si alza bene a sedere – ma Vitruvio gli impedisce di levarsi in piedi così presto – e mormora:

“Ho visto… sangue. Sangue sulla neve.”

Tutti tacciono, pendendo dalle sue labbra. Io di primo acchito penso al lupo che ho ucciso, a quella macchia rossa sul candido manto bianco. Ma Branoc non sa mica stare zitto, e va avanti:

“Ci sarà sangue, molto sangue. Sangue Germano e sangue Romano. Prima dell’alba.”

A quelle parole si scatena il panico: ci manca un soffio che i soldati Cheruschi si mettano a piangere e a urlare come bambini. Chi propone di fuggire di lì subito, in piena notte, abbandonando le tende, chi estrae la spada e inizia a guardarsi intorno con aria truce, pronto ad ammazzare per sbaglio uno dei nostri al primo movimento, chi si mette in un angolo perché gli altri non lo vedano tremare e singhiozzare, chi bestemmia gli Dei dell’Olimpo e di Asgard indiscriminatamente. Ma dico io…

In qualche modo noialtri ed Ezio riusciamo a ristabilire una parvenza di calma. Si decide di comune accordo di vegliare tutti fino all’alba, raddoppiando le sentinelle al limitare della foresta e con tutti gli altri al centro, fuori dalle tende, pronti a intervenire. Stabiliamo anche che con ogni gruppo di sentinelle ci debba essere uno di noi, per dare a quei ragazzi un po’ di sicurezza.

“Siete soldati, per gli Dei, non bambini spaventati del lupo cattivo!” ruggisce Ezio, e i Cheruschi si riprendono. Quello sbruffone di Siegfried non era meno intimorito degli altri mentre l’egiziano, quel tal Sahura, pareva un po’ più calmo: in Egitto con la magia e le visioni hanno una certa dimestichezza.

La notte passa senza incidenti, a parte ogni tanto una sequela di ululati remoti che fa balzare in piedi uomini anche troppo nervosi e pronti a sfoderare le spade.

Finalmente sorge il sole sulla nostra masnada infreddolita, e ci rendiamo tutti conto che la profezia di Branoc non si è avverata affatto!

Ci ritroviamo tutti intorno al fuoco centrale dell’accampamento, compreso Branoc che non dice nulla e fissa il suolo perplesso quanto gli altri.

“Beh, è arrivata l’alba e non è successo niente.” mormora fra i denti quel Siegfried, con fare piuttosto minaccioso.

Publio ha un lampo di genio e se ne esce così: “Grazie agli Dei sì, non è successo niente! E tutto grazie all’avvertimento del nostro compagno Branoc, che ha evitato che fossimo colti alla sprovvista dal nemico, che invece così ha dovuto battere in ritirata con le pive nel sacco! Solo il cielo sa cosa avrebbe potuto accadere altrimenti.”

Ci cascano, ed è tutto un congratularsi con Branoc il salvatore, ognuno vuole stringergli la destra o battergli sulla spalla, qualcuno perfino lo abbraccia.

“L’abbiamo scampata bella, per fortuna che con noi ci sono i Pretoriani!” si sente dire, mentre i poveri Cheruschi perdono man mano la parte del loro pallore dovuta alla paura e recuperano la fiducia. “Gente esperta, che sa il fatto suo, davvero. Almeno abbiamo con noi dei veterani, che la missione di per sè è parecchio pericolosa, lo sapevo, io.” e tutta roba così. Quanto è volubile la gente, Lucrezio, come banderuole al vento! Un momento sono tutti nel panico e pronti a linciarti, un attimo dopo ti porterebbero in trionfo a spalle fino a Roma.

Con noi, in privato, il povero Branoc si giustifica così: “Che ne sapevo io? Nel sogno era notte e ho pensato che fosse questa notte. Magari invece si trattava della prossima o di quella dopo…”

Maximus grugnisce: “Se non sai una cosa stai zitto, per gli Dei!”

Anche Publio fulmina con lo sguardo il malcapitato Britanno:

“Quest’ultimo dubbio, per favore, tientelo per te e non farne parola con nessuno, sennò ci tocca passare svegli ogni maledetta notte fino a primavera, a consolare quelli là. Anzi, facciamo una bella cosa: non parlare più per niente, che è meglio!”

Scampato il pericolo, smontiamo il campo e proseguiamo nel viaggio, sperando di trovare indizi che ci guidino filo al culto che siamo venuti a sgominare. Gli Dei però, si sa, inviamo false speranze a coloro che vogliono perdere, come ti narrerò fra poco.

Parte successiva:

La setta della Foresta Nera – Parte III – Per la Corona d’Acciaio (lacoronadacciaio.it)

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