Per la Corona d'Acciaio - Per la Corona d'Acciaio
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GLI ULTIMI EROI DELL’ARENA – PARTE IX (E ULTIMA)

febbraio 25, 2021 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI M ALIA

Illustrazione di “Drakka”

 

Fu alzato uno steccato in tutta fretta, deturpando i giardini dedicati a Diana. Proprio in mezzo al prato, vicino alla fonte, quattro tronchi e due assi sghembe di legno dovettero bastare a delimitare il terreno del duello. Si era radunata una folla di Dosthan che inneggiava i campioni del proprio stesso sangue, e di curiosi Mitoien sfaccendati. Poi c’erano quasi tutti i gladiatori di Selenia, fra cui si era subito sparsa la voce. Venne anche Drakos, di corsa. Aveva un’espressione preoccupata. C’erano pure Marius e Dorotea con le loro famiglie al completo, e altri Patrizi, amici e parenti. Il Principe osservava in silenzio, ostentando neutralità e distacco.

I campioni delle tre famiglie barbare indossavano corti usberghi ed erano armati di spade e scudi rotondi. Felitia notò che uno dei tre aveva chiesto una spada in prestito per non dover usare l’ascia di sua proprietà. La ottenne. Peccato, altrimenti sarebbe stato facile. Invece per loro tre trovare l’equipaggiamento adeguato fu un problema. Gli uomini del Principe dovettero mandare a chiamare delle guerriere per procurare delle cotte che andassero bene a Felitia ed Edurne. Ma una delle donne che vennero era grassa, e un’altra troppo bassa. Alla fine trovarono due usberghi che andavano bene. Per Vitreus ci fu il problema opposto: le armature disponibili erano tutte troppo strette di spalle per lui. Fu quella di una specie di orso, il campione di un capotribù, che gli andò a pennello.

Rifiutarono le pesanti spade Dosthan e optarono per quelle della cavalleria Imperiale, che erano state requisite da Theodor e assegnate ad alcuni barbari. Per gli scudi non ci fu alternativa: dovettero usare quelle cose tonde e piatte fatte di legno col bordo di ferro che i nuovi dominatori consegnarono loro. Vitreus quando gli misero lo scudo sul braccio fece una smorfia e lo gettò via.

Drakos, che era al suo fianco, lo guardò con apprensione.

“E perché?”

“Mi fa troppo male. La cinghia passa dove mi hai tagliato tu, l’altro giorno nell’arena.”

“Accidenti, mi dispiace. Se l’avessi saputo ci sarei andato più leggero… per quel che ne sapevo era l’ultimo combattimento che dovessimo mai fare.”

Il gigante nero sfoderò il suo sorriso più accattivante e feroce.

“Non ti preoccupare, vecchio mio, quel crucco me lo mangio in un “ave” anche così, non fa nulla.”

La prima a entrare in lizza fu Edurne, che scalpitava e sembrava non vedere l’ora di combattere. La sua amichetta invece, pallida come un fantasma, si mangiava le unghie per la tensione. La guerriera imbracciò lo scudo e brandì la spada, facendola roteare in ogni modo possibile e immaginabile, fece il giro dello steccato con le braccia alzate urlando a squarciagola: “Edurne, la gladiatrice! Edurne, l’Hesperiana imbattibile, signora delle arene dell’Ovest, delizia delle fanciulle depravate!”

Batté più volte con la spada sullo scudo incitando il pubblico.

Felitia si prese la faccia nella destra. “Non ci posso credere… è pazza! Da legare!”

Vitreus scoppiò a ridere e le gridò: “Oh! Stai attenta, non sei mica nell’anfiteatro: quello se gli dai la schiena ti ammazza senza tanti complimenti.”

La gladiatrice gli strizzò un occhio e si mise in guardia.

Il barbaro avanzò cauto, chiuso dietro lo scudo. Edurne scattò a destra, poi deviò gettandosi a sinistra. La sua spada schizzò avanti come un serpente d’acciaio, ma il guerriero girò su se stesso e le oppose lo scudo. Rispose con un mandritto alle gambe. Inutile: l’Hesperiana era già balzata via. Lei riprese ad attaccare, balzando di qua e di là come una cavalletta, l’uomo stava sulla difensiva e contrattaccava rapido e insidioso.

“Per gli dei, stai attenta! Sa combattere, quel barbaro!” la avvertì Drakos.

“Sempre ottimista, eh, Drakos?” rispose l’Hesperiana dallo steccato, mentre balzava in alto cercando di colpire di punta da sopra lo scudo nemico con un’imbroccata. Niente da fare: il Dosthan schivò andando indietro col tronco e mandò il colpo a vuoto. Edurne ne approfittò per sferrare un calcio frontale poderoso sullo scudo del campione avversario mandarlo col culo per terra. Invece che incalzarlo la gladiatrice si girò verso il pubblico e alzò le braccia chiedendo l’applauso. Il suo avversario balzò in piedi e si gettò su di lei, alle spalle.

“Attenta!” le gridò Felitia.

Edurne girò su se stessa ignorando la stoccata, che la sfiorò e passò oltre. Nello stesso tempo la combattente di Hesperios colpì il Dosthan dietro il ginocchio con un fendente. Il barbaro zoppicò e ruggì dolore e frustrazione. Si appoggiò sulla gamba sana e saltò verso la gladiatrice ancora con un colpo di punta. Questa volta lei era sbilanciata. La punta scivolò sull’usbergo e si fermò contro il fianco di Edurne, imputandosi. Gli anelli si smagliarono e lei gridò. Senza curarsi del dolore colpì di taglio, tanto forte che la testa del guerriero rotolò sull’erba. Cadde anche lei, portandosi la mano sulla ferita. Felitia scavalcò lo steccato con un salto e corse dalla collega, sostenendola.

Edurne sollevò gli occhi verso l’amica.

“Non è niente, preziosa. Se sapevo che eri così sollecita verso di me mi lasciavo ferire più spesso.”

“Sei proprio una stronza, Edurne. C’è lì fuori la tua mogliettina che è più morta che viva per l’angoscia e tu ancora ti diverti a fare queste scene? Ci hai fatto preoccupare, deficiente!”

Edurne rise, poi tossì e sputacchiò sangue.

“Oh, portami fuori, non possiamo mica stare qui tutto il giorno: c’è altra gente che deve combattere dopo di me, e poi mi così me la fai ingelosire troppo, quella povera ragazza.”

Felitia la prese sotto braccio e la portò fuori. La depositò fra le braccia dell’amica, che aveva il viso tutto rosso e le guance rigate dalle lacrime.

Era il turno di Vitreus.

“Sei proprio sicuro che non riesci a portare lo scudo?” gli chiese Drakos.

“Mi dà solo impaccio così. E’ lo stesso, davvero, non è un problema. Ho in mente qualcosa.”

Entrò nell’arena in silenzio. Passò lungo la parte del perimetro occupata dai Dosthan, che inveivano contro di lui. All’improvviso si girò verso di loro, snudò le zanne e ringhiò in faccia a un paio di ragazzi biondi, che caddero all’indietro per lo spavento. Sogghignò, e si girò ad affrontare il suo avversario. Si rivolse a lui in lingua Dosthan:

“Se credi negli Dei, trema! Odhinn e Thorr non tollereranno che un empio vinca per una causa sbagliata. Tyr, dio della guerra e della giustizia, garante dei giuramenti, ti farà lo sgambetto e ti farà cadere sulla mia spada, puoi esserne certo. Preparati a morire!”

Il barbaro spalancò gli occhi e indietreggiò.

“Ma che cazzo sta dicendo?” chiese Edurne, che si appoggiava alla sua ragazza tamponandosi la ferita al fianco con un panno pulito “Non sapevo che Vitreus parlasse Dosthan.”

“Lo parla solo un po’.” rispose il reziario “L’ho dovuto aiutare io con quella frase.” Poi il gladiatore tradusse a uso degli amici.

L’Hesperiana ridacchiò.

“Che figlio di puttana! E’ giusto, però.”

“Quel che è giusto è giusto.” confermò Felitia.

Vitreus provò qualche cauto attacco. L’altro se ne stava dietro allo scudo e cercava di usare il suo vantaggio tentando dei colpi al braccio, che Vitreus doveva portare avanti allo scoperto per tentare di colpire. Ma il gigante nero lo sapeva, e ogniqualvolta intuiva che l’altro potesse portare avanti la spada abortiva l’assalto e ripartiva da capo. Dopo un po’ il Dosthan iniziò a osare di più e farsi avanti. Vitreus non aveva altra possibilità che sottrarsi, ma lo faceva muovendosi in cerchio, senza mai avvicinarsi ai bordi del campo e svignandosela lateralmente verso la zona dove vedeva di avere più spazio a disposizione. Contrattaccava alle gambe, dove il barbaro non poteva parare con lo scudo e nello stesso tempo portare un attacco con la spada: a quegli assalti il Dosthan doveva indietreggiare o parare con la spada, perdendo il vantaggio delle due armi.

“Bravo, Vitreus, così!” lo incitò il reziario “Vai così!”

Il Dosthan parve perdere la pazienza e avanzò più deciso, tentando di mettere il Mitoien nero spalle allo steccato. Vitreus gli scappò via ancora una volta, poi sembrò che non trovasse più una via d’uscita e fu costretto a balzare quasi con le spalle a ridosso del limite del campo. Il barbaro avanzò e… il gladiatore gli legò la spada con la propria, si buttò avanti e afferrò lo scudo con la mano sinistra. Facendo leva sul bordo esterno dello scudo lo costrinse a girarsi su se stesso e gli cacciò la punta della spada nella nuca. La spada emerse dalla bocca del Dosthan grondante sangue e quello crollò morto al suolo.

“Te l’avevo detto. Gli Dei non aiutano i bugiardi.” sibilò il gladiatore dalla pelle scura, sputando sul cadavere.

Mentre Vitreus usciva dallo steccato Felitia gli batté su una spalla.

“Bravo Vitreus, grande. Adesso però, dopo voi due, se mi ammazzano faccio pure una magra figura, oltre a rimetterci la pelle.”

“Vai, bella, fagli il culo!” la incitò Edurne, che sorrideva tra i denti ma nel frattempo era diventata pallida. Felitia entrò nello steccato più preoccupata per lei che per se stessa.

Il “suo” barbaro era il più grosso dei tre. Non era un problema, bastava non farsi prendere. Non disse un bel niente e si mise in guardia. Quella non era l’arena, e non aveva intenzione di dare un bello spettacolo, né di far divertire gli spettatori. Non avrebbe sprecato la minima occasione. Quello veniva avanti spavaldo, per nulla intimorito dalla sorte dei suoi compari. Aveva grosse braccia tatuate e rughe crudeli agli angoli degli occhi, azzurri come gemme inquietanti. Un colore del tutto diverso da quello delle iridi del suo Glaucus, molto più chiaro e gelido.

Non gli avrebbe concesso nulla, a quel crucco, non avrebbe rischiato nulla più del necessario. Quello era un assassino senza scrupoli. Doveva finirla prima possibile. Si lanciò avanti provando un paio di finte. Il Dosthan si muoveva poco, lo stretto necessario, e cercava l’occasione per un colpo letale. Però alle finte rispondeva, pur scomponendosi poco.

Felitia si mosse di lato, avanti e indietro, saggiandolo senza esporsi. Poi scattò decisa: portò un’imbroccata sopra lo scudo e, quando quello lo alzò, cavò muovendo la lama intorno, a destra e in basso, tentando di infilarla sotto lo scudo verso le cosce del nemico. Il guerriero buttò lo scudo in basso, pensando forse di dare una botta sulla spada della gladiatrice per disarmarla. Felitia ritrasse la lama e poggiò il piede destro sull’umbone. Saltò in alto e al tempo stesso spinse giù scudo, braccio sinistro e – dietro di quello – tutto il corpo del barbaro. Si erse per un istante nell’aria ruotando il tronco verso destra e poi scaricò tutto il proprio peso sulla spada, che s’infisse fra la spalla sinistra e il collo del campione nemico. La lama entrò fino all’elsa, sfondando il cuore e andando giù fino agli intestini. Il Dosthan aprì la bocca senza emettere alcun suono e crollò a faccia in giù tra le gambe di lei.

La gioia della metà Mitoien del pubblico esplose. La folla entrò nello steccato e la portò in trionfo, inneggiando. Pareva quasi che ai loro occhi Felitia avesse vendicato non solo i due giovani Patrizi ma Selenia tutta, l’Impero stesso! Avevano tutti dannatamente bisogno di una rivincita, per piccola che fosse. Presero su a spalle anche gli altri due e li portarono via, gridando i loro nomi. Meglio che nell’arena. I Dosthan entrarono a recuperare anche il terzo dei loro morti, mogi e taciturni. “Non si può vincere sempre: ieri avete conquistato il mondo, accontentatevi.” avrebbe voluto dirgli la gladiatrice. Il volto del Principe Theodor era del tutto inespressivo, come se la cosa non lo riguardasse affatto. In fondo, se gli Dei avevano deciso così, giustizia era fatta. Per lui era solo una questione chiusa, un pensiero in meno.

 

 

Dopo aver lasciato Hagen e i soldati del II Manipolo, Glaucus aveva camminato ancora per molte ore. Aveva passato lungo la via diversi blocchi di guerrieri barbari, ma nessuno lo aveva trattenuto: dopo aver verificato che non avesse con sé monete da predare ma solo arco, spada e qualche tozzo di pane secco, duro da masticare, l’avevano lasciato andare per la sua strada. La guerra era finita, ormai.

Davanti a lui si stagliavano le bianche mura di Selenia, all’interno delle quali svettavano l’arena, il Foro e il palazzo del Senato cittadino. Le porte erano aperte, e c’erano guardie Dosthan a presidiarle. Almeno pareva che non avessero bruciato la città: non c’era puzzo di bruciato, né colonne di fumo che si alzassero da dentro. Gli avevano riferito che la regione era sotto il controllo del Principe Theodor, e quando l’aveva saputo Glaucus aveva ringraziato gli Dei. C’era in giro ben di peggio. Theodor era sempre un Dosthan ma era un guerriero abile e ragionevole, un uomo che non avrebbe massacrato inutilmente i suoi futuri sudditi né distrutto le ricchezze e gli edifici che stavano per cadere nelle sue mani.

Quando si presentò alle porte la sua impressione iniziale fu confermata: sbirciando all’interno non vide nessuna devastazione. Se fossero arrivate fin lì, invece, le tribù contro cui aveva combattuto lui con la Dodicesima Legione più a Occidente, a Selenia non sarebbe rimasta pietra su pietra, né un abitante vivo.

Le guardie gli chiesero il suo nome e lo perquisirono – ancora!

Uno dei guerrieri lo scrutò attentamente.

“Glaucus… di Selenia. Non eri un famoso gladiatore, tu?”

Lui assentì.

“Lo ero.”

“E adesso cosa sei?”

Glaucus fece spallucce.

“Un superstite?”

Il soldato tradusse per gli altri, che scoppiarono a ridere. Uno gli batté pure un gran colpo su una spalla. Lui incassò la botta sorridendo e maledicendo il barbaro in cuor suo. Adesso loro, i Mitoien, erano tutti solo servi dei conquistatori del Nord. Bisognava abituarsi. O morire. Ma Glaucus non voleva morire, voleva riabbracciare la sua Felitia, invece.

Lo fecero passare, continuando a ridere. Lui andò avanti, sempre con quel magone che non aveva nessuna voglia di andarsene. Le vie di Selenia erano le stesse di sempre, ci mise un attimo a capire cosa era cambiato. Non c’erano più guardie Mitoien: gli unici a portare le armi erano i barbari. Ce n’erano che andavano in giro tronfi, a cavallo oppure in portantina, vestiti come Patrizi. La loro lingua selvaggia si udiva per ogni dove. Rozzi guerrieri scostavano la folla dei cittadini al loro passaggio con un’arroganza che sarebbe stata impensabile quando lui aveva lasciato la città. Ma non c’erano macerie né cadaveri. Non si poteva chiedere di più, forse, in quella situazione. I mercati erano aperti, anche se la mercanzia scarseggiava, e il Foro funzionava come sempre. C’erano Dosthan al posto dei soldati della guarnigione locale, a presidiarlo. Si diresse verso il suo vecchio quartiere, verso l’anfiteatro. Sollevò il cappuccio della cappa per nascondere il viso. Preferiva essere lui a riconoscere le persone, prima che gli altri identificassero lui. L’arena era chiusa, e così la sua schola e quella di Galba, dove lavorava Felitia. Addio soldi, addio gloria, addio gladiatura. Sospirò e andò avanti, dirigendo i passi a casa sua. Sua, e di Felitia. Svoltò per la via dove si trovava l’abitazione e… e lei era lì. Era bella come non mai, sorrideva. Dei, quasi non poteva crederci! Era lì davvero, a pochi passi da lui, era viva e stava bene. I suoi lunghi capelli castani erano legati in una coda e portava una tunica corta di tessuto grezzo, di quelle che usava per gli allenamenti. Stava in piedi davanti alla soglia di casa e parlava con un uomo vestito in modo elegante, senza dubbio un Patrizio. Glaucus si avvicinò in silenzio.

“Non è proprio quel che si direbbe a buon mercato ma la cifra è accettabile.” stava dicendo il Patrizio “Con questi barbari in casa è meglio sapersi difendere, e ho potuto vedere con i miei occhi che tu lo sai fare per davvero. Per la cifra stabilita insegnerai a usare le armi a me e a tutta la mia famiglia.”

“Siamo d’accordo.” concluse Felitia, gli occhi scuri che esprimevano ferma decisione. Porse la destra, che il Patrizio strinse. Poi l’uomo si allontanò passando a lato di Glaucus.

Gli occhi della gladiatrice seguirono il Patrizio fino a soffermarsi su Glaucus. Non poteva ancora distinguere il viso, ma lo sguardo della giovane donna indugiava ugualmente su di lui. Forse lo aveva riconosciuto anche così. Glaucus sorrise e si gettò il cappuccio alle spalle.

Felitia spalancò gli occhi, gettò un grido acuto e corse a buttarsi nelle sue braccia. Glaucus l’accolse, la sollevò e l’abbracciò forte. La baciò sulle labbra e lei ricambiò il bacio, poi la strinse di nuovo, quasi cullandola. Era a casa. Era a casa, adesso, finalmente.

 

 

 

Felitia abbracciò Glaucus nel letto. Nel loro letto. Dei, quanto aveva sentito la mancanza di lui, dei suoi occhi che la guardavano con dolcezza, del suo corpo, del suo odore. Si sentiva rinata, come se fosse uscita da una caverna alla luce del sole. Come se la sua vita dei mesi precedenti fosse stata solo un oscuro sogno, e ora si fosse svegliata alla realtà di prima, insieme a Glaucus.

Gli andò sopra e si stese su di lui appoggiando i gomiti sul suo petto. Lo fissò negli occhi.

“Allora, raccontami qualcosa anche tu.”

Glaucus le impresse un bacio sulle labbra e si lasciò ricadere all’indietro.

“Non ne ho voglia, Felitia. Forse più tardi. Che ti devo dire? Abbiamo combattuto, abbiamo ucciso… e abbiamo perso, alla fine. Non c’era niente da fare, erano troppi. Almeno io ho riportato a casa la pelle, forse non si poteva chiedere di più.”

“A me basta. Ringrazio gli Dei, per questo.” rispose lei, e gli appoggiò il capo sul torace.

“E qui? Mi hai raccontato fino al combattimento coi parenti di quei predoni, davanti al Principe. E poi, cos’è successo?”

Felitia gli rivolse un sorriso furbetto e gli passò una mano sui corti capelli neri. Notò che qualcuno cominciava a farsi bianco, qua e là. Era una novità: non ne aveva affatto quando era partito.

“Poi ho guadagnato dei soldi, e mica pochi. Le richieste di insegnamento fioccano: si avvicinano tempi violenti e la gente vuole imparare a difendersi. Soprattutto i Patrizi e i mercanti, quelli ricchi. L’arena invece è stata chiusa definitivamente e anche le scommesse sui combattimenti sono state proibite. Quindi occorreva trovare un altro modo di sbarcare il lunario. E’ già nato un piccolo giro di combattimenti clandestini, in mano a noti criminali: quel Guidus e i suoi compari, sai, ma anche altri, anche alcuni che erano delle mia schola e della tua, fra i più loschi. Theodor ha dichiarato che userà la mano dura con chi si dedica a queste cose, però prima deve beccarli. Comunque io e i ragazzi, Edurne, Vitreus, Drakos e gli altri ce ne siamo tenuti lontani. Ah, anche quella fanciulla nobile, Dorotea, è diventata mia allieva. Prima è andata da Edurne, ma pare che quella matta ci abbia provato con lei, allora è venuta da me. Vado due volte a settimana alla sua domus, a insegnare a lei e ad altri della gens di suo marito. Lui no, lui è ancora convinto di potersi proteggere meglio coi discorsi.”

Glaucus fece una smorfia scettica.

“Bisogna che l’altro ti permetta di parlare, per convincerlo con le parole. E comunque se ti vuole rapinare o peggio, come è capitato a loro quella sera, c’è poco da conversare.”

“E’ quel che dico anch’io. Però non li si può salvare tutti, no?”

“No. Soprattutto adesso.”

Glaucus le carezzò i capelli e tacque per un istante. Poi si sollevò a sedere.

“E’ una buona strada. Apriamo una scuola, noi due.” propose, guardandola negli occhi “Una vera scuola per insegnare a combattere, a pagamento. Possiamo coinvolgere Vitreus e gli altri, se noi da soli non bastiamo. Alle vecchie terme c’è un locale grande non utilizzato: prendiamo quello, la nostra attrezzatura e facciamo lezione a chi accetta di pagare il compenso che chiediamo.”

Felitia non dovette starci a pensare a lungo.

“Sì, facciamolo. Non restiamo a guardare indietro, Glaucus. I regni sono come le persone: nascono, crescono, invecchiano e muoiono. L’Impero si è creduto diverso e per tante generazioni tutti hanno pensato che sarebbe durato in eterno, invece nessuno dei figli di Saturno sfugge al suo destino: il Tempo divora ogni cosa che lui stesso ha fatto nascere. Però il mondo si trasforma, in meglio o in peggio che sia, e va avanti. L’era di Fortia e delle grandi arene è finita nel massacro e nella distruzione, ma servirà ancora gente addestrata a combattere.”

Lo sguardo del gladiatore si perse in qualche ricordo doloroso, indovinò Felitia, e poi parve vagare per le lande remote delle sue fantasticherie. Dopo un attimo Glaucus mormorò:

“Servirà più che mai. Un’età più oscura e selvaggia si avvicina, e dobbiamo trovare il nostro posto in questo nuovo mondo.”

 

 

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GLI ULTIMI EROI DELL’ARENA – PARTE VII

dicembre 24, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

 

Nel corso della giornata altri contingenti Dosthan entrarono in città, però sempre in numeri molto limitati. Theodor si insediò nel palazzetto del Console, dove ricevette l’omaggio di tutti i Patrizi di Selenia. Corse voce che il Principe avesse dato in moglie ai suoi capitani tutte le ragazze Patrizie ancora nubili, d’imperio, senza concedere loro né tempo né scelta. Era un sacrificio limitato, nulla a confronto con le distruzioni che altre città avevano dovuto subire. Verso mezzogiorno il passaggio delle consegne era ultimato. Anche la compagnia di cui i gladiatori di Galba facevano parte consegnò le armi ai nuovi dominatori. Il decanus augurò a tutti loro buona fortuna e sciolse il contingente. Tutti a casa, la guerra era già finita.

Per quanto riguardava l’arena il Principe Theodor era stato chiaro: sarebbe stata chiusa con effetto immediato, e per sempre. I Dosthan consideravano i giochi dell’anfiteatro il simbolo di un passato che doveva essere cancellato, quando i loro compatrioti venivano catturati sui campi di battaglia e costretti a lottare per la loro vita davanti a una folla di odiati Mitoien. Effettivamente un tempo i giochi erano più sanguinosi, a volte si combatteva di proposito fino alla morte. Raramente, però avveniva, e in quei casi quasi sempre i malcapitati che dovevano giocarsela erano malfattori della peggior specie e schiavi barbari. Perciò i Dosthan non avevano la minima intenzione di lasciare che i giochi proseguissero. Festa finita. Per Felitia, carriera finita.

Galba, il lanista, aveva fatto un breve discorso ringraziando tutti per il sudore e il sangue che avevano lasciato sulla sabbia dell’anfiteatro, poi aveva stracciato davanti a loro i contratti che impegnavano coloro che ancora non si erano guadagnati l’affrancamento. Infine, aveva intimato di prendere le loro cose e lasciare libere le stanze. Da quel giorno avrebbero dovuto guadagnarsi il pane e un tetto sulla testa in altro modo.

Felitia si era caricata come una mula per portarsi a casa lame affilate e smussate, rudis di legno, la sua armatura e tutte le protezioni che poteva portare. Poi aveva fatto un secondo giro a prendere le cose di Glaucus al ludus del suo lanista, e un terzo e finalmente un quarto da Galba per raccattare tutto ciò che gli altri avevano lasciato.

“Ma cosa te ne fai di tutta questa cianfrusaglia puzzolente?” le chiese Drakos, stupito.

“Tu il tridente lo prendi o no?” gli rispose lei, secca.

“Beh, sì, per ricordo. Le mie cose me le porto via, ma non vedo perché tu ti debba portar via le manicae imbottite che Galba non vuole più, questo rudis ammaccato…”

Lei alzò le spalle.

“Non si sa mai, possono sempre servire per allenarsi. E chissà, magari cambieranno idea, prima o poi: senza i giochi ci si annoia, no?”

“Noialtri di certo, ma i Dosthan non sono abituati a frequentare l’arena e non credo che ne sentiranno la mancanza.”

“Non si sa mai. Io spazio ne ho, a casa.”

“Bah, fai come vuoi, Felitia. Altrimenti finisce tutto nel camino. Io ho chiuso, ero comunque stanco di tutto ciò.” concluse la discussione il vecchio Galba, che andava e veniva rassettando i cortili e le stanze.

Alcuni dei ragazzi e delle ragazze più giovani se ne stavano in in angolo, incerti e preoccupati.

“Quelli lì non sanno dove andare a cenare questa sera, né sanno dove andranno a dormire stanotte.” commentò Vitreus a bassa voce. “Mi dispiace tanto per loro, ma non avrei posto per tutti da me, neanche volendo.”

Felitia scosse la testa.

“Dovranno arrangiarsi, come abbiamo fatto noi prima di farci strada nel mondo dell’arena. Troveranno qualcosa: magari i nuovi nobili Dosthan hanno bisogno di guardie e di facchini. Sennò i campi avranno bisogno di contadini, coi massacri che ci sono stati nei villaggi e nelle fattorie della Pianura. Non possiamo preoccuparci noi per tutti, Vitreus. Io qualche soldo da parte ce l’ho, ma non dureranno a lungo: devo inventarmi qualcosa in fretta anche per me stessa.”

Il gladiatore nero sospirò.

“Io ho risparmiato e sono a posto per un po’. Ma bisogna comunque che ci pensi. Mica posso oziare e ingrassare per sempre. Non sono un Patrizio, in fin dei conti.”

Drakos sogghignò: “Per fortuna! Altrimenti ti ritroveresti con un genero barbaro che gira per casa cacando sui tappeti, mangiando come un cinghiale e che per di più vuole dettar legge.”

“Gli Dei me ne scampino! E il cibo è il meno, tu non sai quanto bevono, quelli lì.”

“Lo so, accidenti se lo so. Non è detto poi che i loro nuovi generi non li facciano secchi nel sonno per ereditare tutto subito. Non li invidio, i Patrizi, in questi giorni.”

Una volta finito, si ritrovarono davanti alla schola, ormai chiusa e sbarrata, per consolarsi cenando insieme da qualche parte. Scelsero una taverna di bassa lega, perché in quei giorni di incertezza nessuno se la sentiva di spendere molto. No, nemmeno per una cena d’addio alla professione che aveva assorbito le loro vite negli ultimi anni, riservando a tutti loro una buona dose di soldi, ferite e calci nel sedere. La zuppa era così così – Felitia avrebbe saputo fare di meglio – e anche il vino non era un granché. Drakos dopo un po’ andò in sbornia triste e Vitreus dovette quasi prenderlo a pugni per farlo smettere di piangere addosso a se stesso, all’arena, alla città e all’Impero tutto. Edurne per fortuna si era portata dietro la sua amica, una ragazzetta sveglia e tutta pepe, e aveva occhi solo per lei.

La luna era alta in cielo quando finalmente si alzarono dalle panche e uscirono all’aria fresca della notte. Non c’erano Dosthan, quando loro erano entrati nella taverna, a parte un terzetto che già russava sbracato, rigonfio di vino. Le vie però ne erano piene. Si udiva ovunque risuonare quella loro lingua aspra, che alle orecchie Mitoien pareva feroce anche quando ridevano. Andavano in giro a gruppetti, tutti già ubriachi, cantando e ruttando a piena voce. Alcuni erano allegri e spensierati, altri aggressivi.

Felitia, Vitreus ed Edurne con la sua compagna salutarono Drakos e gli altri compari, che se ne andavano in direzione opposta, e si avviarono in silenzio verso il loro quartiere.

Svoltarono in un vicolo.

Un uomo giaceva in un lago di sangue con la gola aperta, una torcia per terra accanto al corpo. Alcuni Dosthan stavano addosso a due malcapitati, un ragazzo e una ragazza. Li avevano rovesciati a terra, un barbaro teneva fermo il giovane mentre un altro gli tirava dei pugni in faccia, altri stavano strappando via il vestito della fanciulla. Due poi si stavano tirando giù le brache, ognuno vicino a una delle vittime. I gladiatori rimasero pietrificati a quella vista, poi l’amica di Edurne si portò le mani al viso e cacciò uno strillo. I barbari si girarono.

“Andate, se non volete fare la stessa fine!” gridò quello che pareva il capobranco, in un Mitoien stentato dal forte accento straniero.

Edurne, Vitreus e Felitia si guardarono fra loro.

“Eh, no…” sussurrò Edurne, ed estrasse il pugnale. La sua ragazza la guardò terrorizzata e fece tre passi indietro. Invece Felitia la imitò e sguainò la sica. Era la stessa che usava nell’arena, la conosceva meglio del suo stesso corpo. Vitreus sospirò e alzò i pugni.

“Non ci credo!” gli disse Edurne, scandalizzata “Come puoi andartene in giro così nudo? Nemmeno un coltellino?”

“Ho solo questi.” rispose lui, agitando le mani enormi serrate come magli.

“Fatteli bastare, allora.” sibilò Felitia.

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GLI ULTIMI EROI DELL’ARENA – PARTE VI

novembre 29, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Nessuno riuscì a dormire un granché quella notte, a Selenia.

Ben prima dell’alba Felitia e gli altri furono schierati di nuovo sulle mura. Da lì poterono vedere l’esercito nemico schierato in bell’ordine davanti alla città. Appena il sole si affacciò all’orizzonte se ne staccò un contingente di cavalleria pesante. Dovevano essere almeno trecento, la guardia scelta del Principe. Erano tutti nobili Dosthan, ossia pecorai capitribù, ad occhi Mitoien. Però portavano armature da catafratti simili a quelle delle analoghe truppe Imperiali: scaglie di metallo dal collo ai piedi, ed elmi robusti.

Le porte si aprirono davanti a loro. Il momento era cruciale.

“Se questi si mettono in mezzo e iniziano a combattere chi li schioda di lì?” si chiese Drakos.

“Noi.” rispose Edurne.

“Sì, ma non prima che arrivino tutti gli altri dei loro, e poi siamo fritti.”

“Io gli passo sotto la pancia dei cavalli e glieli sbudello tutti. Mi dispiace per i cavalli ma ne va della pelle di tutta la gente di Selenia.” disse Felitia, decisa.

“Buona idea, preziosa!” esclamò Edurne “E’ così che faremo se si arriverà a combattere.”

Invece i cavalieri entrarono in città pacificamente. Le porte rimasero aperte dietro di loro, in mano alla milizia cittadina, e il resto dell’armata del Principe rimase disciplinatamente immobile.

Drakos sospirò di sollievo.

“Pare che sia andata.”

“Sì, uccello del malaugurio che non sei altro. Se gli Dei lo vorranno è possibile che la scampiamo.” lo rampognò scherzosamente Vitreus.

“Coraggio, muoversi! Dobbiamo andare!” il decanus li spinse con poca grazia giù per la scalinata che portava in basso, e poi li guidò a passi svelti fino al decumanus.

Lì presero posizione mettendosi tra la folla e la via dove doveva passare Theodor con i suoi guerrieri.

La gente gettava fiori al passaggio dei barbari.

“Ipocriti!” sussurrò Drakos fra i denti, alla volta dei cittadini di Selenia.

“Almeno ci sono capitati i meno barbari, fra i barbari.” lo consolò Vitreus, sfoderando il suo candido sorriso.

I visi pallidi e concentrati dei cavalieri stranieri erano segnati dalla stanchezza e dalle intemperie, le loro armi ammaccate per gli scontri con le Legioni Imperiali e rugginose per la pioggia. Tutto ciò non dava loro un’aria di trasandatezza, però, ma di ancor maggiore minaccia e pericolo. Felitia sapeva di possedere maggior perizia nell’uso delle armi della maggior parte di loro, eppure era sollevata perché non era costretta a combatterli. Forse non dominavano le sottigliezze schermistiche di un gladiatore ma sembrava gente con cui era meglio non scherzare troppo. I nonni e i ragazzetti della milizia cittadina di Selenia non avrebbero resistito un’ora contro quei veterani.

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GLI ULTIMI EROI DELL’ARENA – Parte IV

settembre 30, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

I RACCONTI DI MALIA

Prima della fine della notte Felitia era stata svegliata dalla ronda cittadina, che chiamava alle armi chiunque fosse in grado di portarle. Si era diretta all’anfiteatro, dove un soldato in pensione aveva ricevuto l’ingrato compito di inquadrare i gladiatori in un contingente che avesse una parvenza di ordine e di senso. Erano tutti combattenti di prima scelta, forse superiori anche ai migliori legionari, ma erano anche una banda di individualisti sfegatati, ognuno anche troppo conscio del proprio valore e della propria abilità personale e per niente disposto a condividerla con altri. Non erano lesti a obbedire agli ordini di chicchessia o a proteggere le spalle ai rivali di una vita.

Quando Felitia era giunta, il povero veterano stava già sbraitando, mentre alcuni litigavano per i primi posti nella formazione. Vide Drakos e Vitreus, il nero con le fasciature al braccio che si erano sporcate di sangue durante la notte. Gli si avvicinò.

“Tutto bene?”

Quello le rivolse un ampio sorriso ed esclamò:

“Ci puoi scommettere, bambina! Ho sbrodolato un po’ di rosso sul letto ma non più di quanto non facciate voialtre una volta al mese, sto benissimo. Pronto a spaccare in due un po’ di barbari.”

“Invidio il tuo ottimismo.” gli ribatté Drakos, quasi togliendole le parole di bocca. Ai reziari era stata data una lunga lancia, l’arma militare che poteva somigliare di più al tridente tipico della loro arte. Invece Vitreus brandiva un grande scutum e una spada. A lei come scudo avevano dato una parma rotonda, di medie dimensioni, e una spada. Armi non troppo diverse da quelle che usava di solito nell’arena. La differenza era che i Dosthan avrebbero fatto un muro di scudi o roba così, ci sarebbero stati arcieri a tirarle addosso, e di certo non poteva buttarsi di lato, saltare e aggirare l’uomo contro cui avrebbe combtattuto, se non voleva rischiare di farsi ammazzare da qualche compare del suo avversario, a cui si sarebbe trovata a girare le spalle. Non era il suo tipo di combattimento, quello, per niente. Se ne era resa conto nelle esercitazioni di gruppo che il loro comandante era riuscito a imporre. Era un’altra cosa, piuttosto diversa. E se le sue abilità di gladiatrice le avevano risparmiato diverse bastonate, nella mischia simulata degli addestramenti militari, non poche volte si era trovata senza fiato per un’imprevista botta alle spalle.

“Eccola!” esclamò qualcuno. Felitia si girò.

Edurne camminava tranquillamente in loro direzione, tutta spavalda e con le armi in mano. Teneva per mano una ragazzina. Si scambiarono un bacio a metà strada e poi la fanciulla corse via, mentre la gladiatrice raggiungeva il gruppo.

“Fatto buona caccia?” le chiese Drakos alzando un sopracciglio con una punta di acidità.

“Migliore della tua, credo. Invidioso?”

Il reziario scosse la testa: “Quella ragazza non sa cosa si perde, sprecare la sua ultima notte con te…”

Edurne gli strizzò un occhio.

“Decisamente invidioso, vedo. Attento a come parli: ormai quella ragazza è praticamente mia moglie.”

“Oh, scusami tanto. Congratulazioni allora: quando la lascerai incinta?”

L’Hesperiana sputò in terra e gli fece un gestaccio, poi rise:

“Perché, tu quante ne hai ingravidate? Forse è più facile che lo faccia io, in fin dei conti, dato che sono dieci volte più uomo di te!”

L’Isolano aprì la bocca per replicare, ma fu zittito dal vecchio decanus:

“Silentium! In colonna per due! Move!”

Si avviarono, con la colonna che a poco a poco, mentre avanzava, da una massa caotica si riduceva a una fila quasi ordinata. Felitia non se la sentiva di ridere insieme a quei due. Aveva la sensazione che nessuno si rendesse realmente conto di quel che si stava per rovesciare sopra la città. Si ritrovò sospinta dal decanus proprio accanto a Edurne.

Quella la guardò dall’alto in basso:

“Silenziosa, eh? Sei gelosa?”

Felitia scosse la testa.

“Preoccupata. Non capisco come facciate a scherzare così.”

“Siamo tutti abituati a guardare la morte in faccia. Credevo che lo fossi anche tu.”

“Nell’arena la morte è possibile ma non è l’esito certo. Se i barbari prendono le mura non ci sarà nessun arbiter a fermare il combattimento.”

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GLI ULTIMI EROI DELL’ARENA – Parte II

luglio 28, 2020 by Marco Rubboli Nessun commento

…

Felitia stava curva e minacciosa come un grande felino furioso. Lei ed Edurne si erano scambiate qualche colpo, interlocutorio ma infido, e ora si stavano girando intorno come due leonesse in lotta per la supremazia nel branco, incitate dalla gradinate mezzo vuote dell’anfiteatro. Un filo di sudore le colava già sul lato della fronte. L’Hesperiana era veloce, santi Dei, forse anche più dell’ultima volta. D’un tratto Edurne chiuse misura balzandole contro, la sica affilata levata e pronta a colpire. Felitia all’ultimo momento alzò un piede e le sferrò un calcio frontale sullo scudo che la spinse indietro. La donna di Hesperios barcollò e quasi cadde all’indietro… sarebbe stato troppo facile! Invece ovviamente recuperò l’equilibrio con un balzo e si rimise un guardia. La folla rumoreggio e Felitia fu di nuovo consapevole che c’era un pubblico lassù, anche se l’arena era lungi dall’essere gremita c’erano comunque migliaia di persone con gli occhi attaccati a ogni movimento dei suoi piedi e delle sue armi. Come sempre, quella sensazione la inebriava. Si allontanò e si rivolse al pubblico, volgendo le spalle all’avversaria e alzando le braccia. La folla rispose gridando il suo nome. Sì! Sentì un basso ruggito alle sue spalle. Con la coda dell’occhio non perdeva di vista l’avversaria, ma sapeva che non l’avrebbe aggredita da dietro: il pubblico non l’avrebbe apprezzato. “Affrontami!” la provocò la sua avversaria “Non stare a esaltarti tanto per niente, io sono ancora qui.”

Felitia si girò sogghignando.

“Lo so. Intanto ti ho fatto rimbalzare via, ed è stato bello. Lo sai che non ti lascio avvicinare più di tanto.”

“Questo lo vedremo.” ribatté l’altra fra i denti.

Edurne non era abbastanza spiritosa per quelle battute, soprattutto quando si vedeva nel ruolo di perdente. Si vedeva bene che non vedeva l’ora di ribaltare il responso e farle rimangiare le sue parole. Il che andava solo bene, se la rendeva imprudente. Comunque meglio girarsi verso di lei. Appena lo fece, quella scattò sulla propria destra e poi avanti, subissandola di colpi che Felitia parò di scudo uno dopo l’altro, indietreggiando cauta. Edurne fintò un colpo al fianco destro e si lanciò in un salto basso e teso tentando di tagliarle il lato sinistro del bacino al volo. Felitia si rese conto che era troppo tardi per parare o andare indietro, così girò sopra il piede destro e fece un ampio passo circolare verso il proprio lato destro. Sentì la lama che le sfiorava i lombari senza raggiungerli. Era una mossa pericolosa che chiamavano “la scorciatoia”. Funzionò, portandola fuori dalla misura dell’avversaria. Felitia si girò a fronteggiarla.

Edurne stava ridendo.

“Figlia di una gran puttana, mi hai fatto un recorte!”

“Non parlo il tuo volgare dell’Ovest, ma credo proprio di sì, ragazza. E comunque non mi hai preso.”

“Ah, ma questa me la paghi.”

“Vedremo.”

Il pubblico aveva esultato sia per l’assalto feroce di Edurne che per l’agile contromossa di Felitia. Alcuni seguivano con entusiasmo fazioso certi combattenti in particolare, facendone i loro beniamini e scommettendo sempre su di loro, altri invece erano dei fini conoscitori dell’arte gladiatoria e sapevano apprezzare delle belle azioni quando le vedevano, a prescindere da chi le avesse eseguite.

Felitia non lasciò alla sua avversaria il tempo di ripartire ma si lanciò per prima in attacco.

Portò avanti la lama in una finta, Edurne si chiuse dietro lo scudo. Allora lei la colpì sullo scudo col bordo inferiore, tanto forte che rimbalzò indietro e urtò con violenza l’elmo dell’Hesperiana cavandone un suono come di campana. Quella però, per niente stordita, ne approfittò per inclinare il proprio scudo, infilarsi sotto allo scudo di Felitia e lanciare una punta al ventre. Colpo pericoloso, Minerva!

Felitia ritrasse il piede sinistro vicino all’altro e buttò il sedere indietro, sottraendosi alla stoccata. Al contempo ritrasse lo scudo e ne utilizzò il bordo per sferrare una botta sulla mano dell’assalitrice. Edurne lanciò un grido e la sica le sfuggì dalle dita doloranti. Felitia calciò via l’arma. La sua avversaria si fece indietro, protendendo lo scudo per prendere spazio. Fece per scartare di lato e correre verso l’arma ma Felitia si mise in mezzo.

“Zorra puta asquerosa!” sibilò l’Hesperiana.

“Non ti capisco.”

“Va là che mi capisci, se vuoi.”

Di nuovo Edurne fece per girarle attorno. Il suo obiettivo era chiaro: recuperare l’arma. Ancora una volta Felitia non glie lo lasciò fare.

“… che poi non so nemmeno se riuscirei a raccoglierla!” si lasciò sfuggire la donna dell’Ovest, frustrata.

“Ossa rotte?”

“Non lo so, mi fa un male d’inferno.”

“Te lo meriti! Cosa ti è saltato in mente di tirarmi una stoccata alla pancia? Mi volevi ammazzare?”

“Bah, lo sapevo che schivavi. Ti conosco.”

“E infatti ho schivato… e ti ho punita per bene, come meriti! Non ti azzardare mai più a farmi un colpo del genere o io inizio a tirarti alla gola, lesbica dei miei stivali.”

Edurne indietreggiò, stupita.

“Oh, dai, non ti arrabbiare, preziosa!”

Felitia si tolse di mezzo.

“Dai, raccoglila, vediamo se riesci a brandirla.”

La folla la ringraziò inneggiando il suo nome, mentre la gladiatrice ferita correva a riprendere la sua arma prima che lei cambiasse idea.

“Ce la fai?”

“Più o meno…”

“Adesso ti do un’altra botta, allora!”

Le si scagliò contro con la voglia di finirla, pentita di averle concesso di ricominciare e di essersi messa di nuovo in pericolo.

“Sono un’idiota.” pensò “Avevo già vinto e guarda qua, ora quella maneggia la sica come se niente fosse.”

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