Non tratto, questa volta, di un romanzo fantasy ma di uno realistico, molto realistico, del tutto aderente a una realtà che pure ha dell’incredibile, e al tempo stesso rischia di coinvolgerci tutti nel prossimo futuro.

Ho deciso di leggere il romanzo di Jeanine Cummins in lingua originale dopo aver visto che “American Dirt”, “Sporcizia Americana” o se si preferisce “Polvere Americana”, è stato tradotto in italiano con “Il sale della terra”, titolo che ben poco ha a che fare con quello scelto dall’autrice. Parlando della lingua, ho scelto l’espressione “in lingua originale” e non “in inglese” per un motivo preciso: questo romanzo è sì scritto in inglese, ma quasi egualmente importante per la sua comprensione è lo spagnolo, quello parlato ad Acapulco che differisce in parte da quello iberico e quello della frontiera con gli USA: il “Norte” dove molte parole non sono altro che termini della lingua inglese ispanizzati, che vanno a sostituire quelli del castigliano tradizionale. Per farvi un esempio per “discarica” in spagnolo abbiamo “vertedero” ma nel “Norte” troviamo invece “dompe”, da “dump”, così come per “pranzo” abbiamo non “almuerzo” ma “lonche”, da “lunch”, tutte espressioni che sorprendono perfino la protagonista, appartenente alla classe media messicana. Naturalmente il romanzo è perfettamente leggibile in inglese anche da chi non parlasse spagnolo, ma ci sono delle nuances e interferenze fra le lingue ai lati di quella “frontiera di cristallo” (per citare la canzone dei Calexico) che solo chi conosce entrambe le lingue può apprezzare appieno.

Ho iniziato parlandovi della lingua ma ora, invece, voglio che sia chiaro che si tratta di un libro assolutamente coinvolgente e pieno di suspence: lungi dall’essere una lettura faticosa e impegnativa, dall’inizio nel pieno dell’azione e lungo tutta una corsa infinita e affannosa per salvarsi la vita, seguiamo i protagonisti facendo fatica a staccare gli occhi dalle pagine che si susseguono, dritto fino all’ultima pagina.

Ci troviamo subito catapultati fra le pallottole che devastano il bagno di una casa borghese messicana, dove un bimbo e sua madre si nascondono dai “sicarios”. Era in pieno svolgimento la festa di compleanno di una quindicenne, che aveva riunito una famiglia allargata: nonni, zii, cugini… tutto è stato brutalmente interrotto dall’incursione di una banda di narcos – o piuttosto da un commando, parte di un vero e proprio esercito che domina la città, un tempo turistica e sicura, di Acapulco. E’ una strage. Solo Lydia e suo figlio Luca di otto anni, chiusi in bagno, si salvano, assistendo all’esecuzione di tutti i loro cari, compreso il padre e marito Sebastián. Eppure i veri bersagli, oltre a Sebastián, un giornalista locale, erano proprio loro. Lydia e Luca non si possono fidare della polizia, infiltrata dai narcos, non possono usare carte di credito, non possono restare a casa o andare da amici, che verrebbero esposti a una morte immediata, di parenti non ne hanno più.

In un tempo presente in terza persona concitato e incalzante ci chiediamo con Lydia cosa fare per sfuggire alla morte, come nascondersi, dove dirigersi, in una città dove mille occhi e mille orecchie sono al servizio della banda immaginaria – ma uguale a tante altre simili e davvero esistenti – de “Los Jardineros”. Apprendiamo che in molte zone del Messico ormai ci si sposta da una città all’altra solo in aereo, perché le strade sono troppo pericolose e i treni sono solo treni merci, dal momento che non era più possibile trasportare passeggeri garantendo la loro incolumità. Lydia, laureata e proprietaria di una libreria, si trova così a mendicare un passaggio, dormire fra i senza tetto, viaggiare a piedi e mimetizzarsi fra gli immigrati irregolari del Centroamerica, subendo le stesse angherie e affrontando gli stessi pericoli.

A livello umano, non importa che voi siate per aprire i vostri confini o per i blocchi navali e i muri anti-immigrazione, credo che nessuno possa esimersi dal condividere tutto ciò che queste persone vivono nella loro carne viva e nei tremori della loro mente.

Parallelamente, se all’inizio pare che la causa del massacro sia semplicemente un articolo di Sebastián a proposito dei Jardineros, a poco a poco emerge una realtà più complessa e inquietante, dove il male e il pericolo possono trovarsi anche nelle vesti più apparentemente miti e acculturate.

Per tutto il tempo una sottile paura si infiltra nel lettore, che si rende conto come la sua propria realtà, in qualunque paese egli viva, si vada lentamente muovendo nella direzione dell’inferno in terra descritto da Cummins, un inferno orribilmente vero. Chiunque di noi viva una vita normale, che lavori in un giornale o gestisca una libreria, rischia ogni giorno di più di sfiorare quel mondo spietato che avanza e che, come dice Cormac Mc Carthy, non si può fermare. E’ innegabile che la società, nelle Americhe come in Europa e altrove, si stia spostando verso il “modello messicano”.

Raramente ho trovato thriller più coinvolgenti di questo romanzo mainstream vero-simile.

E su questa parola da me artificialmente divisa in due con un trattino, non posso esimermi dal riservare qualche parola alla polemica “poltically correct” che ha investito “American Dirt” negli USA. Nonostante tutto il lavoro di interviste, informazioni, immedesimazione (anche, in parte, per la scrittrice, un’identificazione a livello di storia familiare), nonostante tutta la comprensione verso gli irregolari che tentano avventurosamente di passare il confine, un movimento di benpensanti che qui non nominerò nemmeno ha ritenuto di lanciare una “fatwa” che ha intimidito perfino l’appoggio in un primo momento entusiasta di autori come Stephen King, Don Winslow e molti altri.

Il peccato originale della scrittrice sarebbe semplicemente di non essere messicana o almeno “latina”, mentre i suoi protagonisti e la maggior parte degli altri personaggi lo sono. Secondo questa “corrente culturale” che opera per mezzo di un vero e proprio bullismo, solo se sei di colore puoi permetterti di scrivere di persone di colore, lo stesso vale, appunto, per i “latinos” e così via per ogni altra minoranza. Altrimenti quel che scrivi non può essere “autentico” e perciò non ha valore.

Ora, per prima cosa vorrei segnalare a costoro che il concetto di “autentico” non ha vera cittadinanza in letteratura.

Personalmente credo che non ne abbia nemmeno nel giornalismo o nella saggistica storica: l’autenticità di un fatto non la conosce nemmeno chi era presente, posto che lo ha comunque vissuto solo da un certo punto di vista e non da tutti gli altri. In ogni narrazione, inoltre, è l’autore che dà importanza a certi aspetti più che ad altri, sottolinea o trascura, distorcendo la cosiddetta “autenticità” di quel che racconta. In breve, l’autenticità non esiste.

Per la letteratura, poi, le cose sono ancora più estreme: a mio modo di vedere l’autenticità non solo non esiste ma non deve nemmeno essere cercata. La letteratura è al tempo stesso realtà e immaginazione, inestricabilmente legate e mischiate, e questo sia che si stia descrivendo un mondo di fantasia in un romanzo sci-fi o fantasy sia che si stia ri-creando un’ambientazione “reale” o piuttosto realistica (anche Lydia, Luca e Los Jardineros non esistono, sebbene possano esistere nel nostro mondo, e senza dubbio sono esistite, esistono ed esisteranno persone simili a loro).

Se manca la realtà, la “vita vera” (come quella che ho faticosamente cercato di dare a un mondo fantastico nel descrivere, combattimenti, tattiche, esperienze sul campo ecc. nella saga di “Per la Corona d’Acciaio” tentando nei limiti del possibile di farne esperienza diretta), oppure se manca l’immaginazione creativa, un’opera letteraria non può dirsi propriamente tale.

Ci tengo a sottolineare il profondo razzismo del movimento che ha criticato “American Dirt” e J. Cummins. Credo fermamente che ogni essere umano si possa identificare in ogni altro essere umano e possa comprenderlo, a prescindere dall’appartenenza etnica o sociale o dal genere. E’ questo che ci rende un’unica specie, che ci dà un destino comune e una solidarietà umana che va – che deve andare – al di là degli steccati. E’ l’empatia, non una chimerica autenticità, che la letteratura, da sempre, insegna. Se si crede invece che ognuno possa riflettersi solo nei “suoi”, nella sua piccola tribù, allora in questa ottica piccina e rancorosa forse le altre “tribù” non dovrebbero nemmeno esistere, forse andrebbero semplicemente sterminate. Questo è il cammino che i signori socialmente arrabbiati di cui sopra hanno intrapreso, il cammino che porta in ultima analisi a eventi che purtroppo abbiamo già dovuto vedere nella nostra storia non troppo tempo fa. Invece è profondamente giusto e utile che una scrittrice nordamericana vesta i panni di una protagonista “latina”, che sia lei stessa, mentre scrive, intimamente una libraia di Acapulco, come è senz’altro giusto e utile il contrario. Perché se non si vuole che i “bianchi” possano “permettersi” di scrivere di “latinos” o di persone di colore, è come dire, francamente, che un nero o un messicano non possono permettersi di scrivere della vita dei “bianchi”. Formulando questa posizione al contrario, eppure identica, finalmente si comprende quanto essa sia profondamente ignobile e disumana.

Essendovi dunque scrollati di dosso tutta questa assurda polemica come un fastidioso insetto, siate liberi di aprire la prima pagina di “American Dirt” scevri da pregiudizi e di immergervi in una corsa ansiosa e disperata per tenere lontano vostro figlio dalle pallottole e dai machete dei Jardineros. Non mi resta che augurarvi buoni incubi.

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