Al momento di iniziare a scrivere la saga di Malia mi era chiaro che la lingua della “penisola più o meno a forma di stivale” sarebbe stato l’italiano. Quindi prima di tutto il Maliano, ovvero l’italiano. Ma quale italiano? Una lingua arcaica e ricercata o che scimmiottasse l’italiano fra Quattrocento e Cinquecento poteva anche essere nelle mie corde, ma non poteva essere adatto. In fondo la mia chimera fin dall’inizio era il tentativo di dare al nostro paese una moderna epica fantastica. Moderna quindi. Ma epica. Perciò non andava bene né una lingua artificiosamente troppo antica e “alta” (che fra l’altro avrebbe allontanato molti – troppi – lettori), né uno “slang” eccessivamente giovanile, popolaresco, sgrammaticato, o ancora peggio colmo di parolacce gratuite. Tanto più che molti personaggi sono nobili, gentiluomini, alti funzionari o grandi mercanti. Ho optato quindi per un italiano piuttosto standard, ma senza privarmi del tutto di qualche sporadico eccesso lirico. Solo ogni tanto, con misura, come saggezza impone anche nella dieta. Naturalmente i nobili usano un linguaggio mediamente più alto mentre i personaggi appartenenti al popolo non sono esattamente al loro livello e ogni tanto imprecano in modo un po’ più escatologico (ma in situazione critica una qualche nefandezza verbale può scappare anche ai più eroici cavalieri… siamo tutti umani in fin dei conti.). I Maliani però – come diceva un nostro comico – sotto qualche aspetto possono anche non essere considerati “civili”, almeno in termini moderni, ma di sicuro sono un popolo “educato”, e quasi ognuno di loro ha avuto una mamma pronta a mollargli uno sculaccione alla bisogna. Pertanto, solitamente anche i popolani si sforzano di parlare il più possibile “da persone per bene” ed evitano un uso eccessivo di “brutte parole”. E, si noterà, questo vale più per i contadini che per la gente di città di bassa classe sociale.
Ancora peggio dei peggiori bravacci in questo campo, e la fonte della maggior parte dei termini inappropriati a una civile conversazione nel romanzo, è l’assassina Luce Selenides, la quale non si fa scrupolo di usare le parolacce più pepate e di scandalizzare le mamme altrui, non avendo più la propria e avendola anzi odiata cordialmente. In un mondo in cui ciò in linea di massima “non si fa”, questa giovane criminale ci tiene a contraddire le regole anche in campo verbale e a urtare le orecchie degli altri nonché le proprie, o per meglio dire quelle dell’altra Luce che è in lei, la nobildonna.
Non mi dilungherò oltre sulla lingua italiana, e veniamo invece alle altre lingue.
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