“La riva delle Sirti” è un romanzo di disperata bellezza, un “sogno a occhi aperti” come definito dall’autore stesso, magistralmente scritto da Julien Gracq nel 1951 e narra di eventi che porteranno alla distruzione della Repubblica di Orsenna. Non si tratta di uno spoiler da parte mia: il lettore viene informato quasi subito di questo esito infausto, che lancia un’ombra inquietante su tutto quanto segue. Orsenna è un’antica repubblica la cui capitale omonima sorge sull’acqua, percorsa da infiniti canali, una città di antica gloria immersa in un placido sonno di agiata decadenza. Le sue terre si estendono a Sud fino alla città di Maremma che ricorda tanto la nostra Ravenna, caratterizzata dalle acque paludose e da una splendida basilica intestata a San Vitale, e ancora oltre, nella riva delle Sirti che dà il nome al romanzo: terre aride e salmastre tipicamente adriatiche. Di fronte, il mare, e oltre il mare l’antico nemico: il Farghestan. Tutta la storia di Orsenna è marchiata dallo scontro con il Farghestan: le antiche battaglie navali appese ai muri di ogni dimora della Repubblica non raffigurano altro che la guerra fra le due antiche potenze. Ma, da secoli, ogni contatto è stato interrotto: a Orsenna nessuno conosce molto della situazione attuale del Farghestan.

Aldo, giovane rampollo di una famiglia patrizia, viene inviato di stanza a una base semiabbandonata della marina militare nella riva delle Sirti. Una trappola, un posto dove seppellirsi pigramente senza uno scopo nella vita, rinunciando a ogni ambizione, a suo modo di vedere. In effetti, di una trappola si tratta, ma di un tipo ben diverso da quel che lui crede. Spinto da un’inquietudine degna di Odisseo e da un desiderio quasi dannunziano di dimostrare il proprio valore, Aldo cerca la presenza del nemico della sua patria, ne scopre le mappe in archivi polverosi e abbandonati della base, e durante le sue perlustrazioni il suo sguardo corre oltre la linea dell’orizzonte in cerca dell’ignoto e dell’avventura al di là di esso. Viene istigato in modo molto sottile dall’affascinante Vanessa Aldobrandi, erede della famiglia un tempo più importante di Orsenna il cui capofamiglia in passato per arrivare al potere assoluto era arrivato al punto di levare le armi contro la Repubblica al comando della flotta del Farghestan, ottenendo solo di essere esiliato e maledetto per sempre.

Il richiamo del mare e delle terre al di là di esso non è casuale, ma Aldo scoprirà di essere stato accuratamente prescelto da un potere dagli scopi reconditi, che ha piazzato lui e Vanessa come pedine al posto giusto per raggiungere i propri scopi.

Scritto in uno stile raffinato, estetizzante, questo testo ci mostra un protagonista affascinato dalla bellezza e dall’amore della patria che contribuirà ad abbattere, estatico davanti all’arte della preziosa e decadente città di Orsenna come davanti alla bellezza ieratica di San Vitale a Maremma, dagli antichi palazzi nobiliari come dalla vastità del mare e del cielo, dalle isole sperdute e dagli scogli che trova nelle sue perlustrazioni navali, dalle lande salmastre quasi disabitate delle Sirti, che rimandano a certe rive abruzzesi o al lago di Lesina.

Ma Orsenna finisce con l’essere una metafora non solo e non tanto di un’immaginaria Serenissima o dell’Italia, quanto dell’Europa intera e del suo sonno che la isola da quanto avviene dal resto del mondo e dalle minacce che vi possono albergare. Non c’è scampo da questa amara situazione: ignorarla e nascondere la testa sotto la sabbia porta solo a un domani ancora più fragile, mentre affrontarla può condurci al disastro.

Julien Gracq con questo romanzo si colloca nella tradizione di realtà immaginarie tese fra creazione secondaria e metafora, che alberga nella grande letteratura come un fiume carsico: dallo stesso Gracq ed Ernst Junger (“Sulle scogliere di marmo”) a Buzzati (“Il deserto dei tratari”) fino a Coetzee in “Aspettando i barbari”, tutti testi legati da temi ed atmosfere simili, pure con temi e stili diversi. Forse per questo si tratta di un’opera così misconosciuta in Italia: purtroppo la critica letteraria egemone (oggi un po’ meno, ma comunque egemone) nel nostro paese, mal tollerava testi di questo tipo, cristallizzata nell’idolatria del romanzo “realistico” e “impegnato” (ovvero a mio modo di vedere ipocrita, sia nella ricerca di un’oggettività impossibile sia nel suo intento di propaganda). Jacq stesso era uomo di sinistra, ma in modo ferocemente eretico, tanto da coltivare una profonda amicizia con intellettuali di destra come Ernst Junger e avversare fieramente scrittori del suo stesso bando politico come Sartre, al di là di ogni steccato ideologico.

Adesso la mia copia de “La riva delle Sirti” è passata a mio figlio, che se ne è giustamente appropriato. Per quanto mi riguarda, sono davvero contento di aver contribuito a tramandare un libro come questo: difficile, problematico, di una bellezza tragica piena di tensione verso un’eredità di pienezza che ci appartiene e al tempo stesso inevitabilmente ci sfugge.

 

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