In occasione della recente “pre-presentazione” del romanzo nella convention “Sentieri Tolkieniani”, ho avuto occasione di riflettere sulla relazione tra l’opera del grande Tolkien e la saga iniziata dal sottoscritto, e più in particolare fra “Per la Corona d’Acciaio” e “La Compagnia dell’Anello”.


Non mi si tacci per questo di arroganza nel paragonare la mia opera a quella del Professore di Oxford, quel che desidero è semplicemente ringraziare per qualche mio debito e far notare alcune somiglianze e differenze.

A parte il fatto ovvio che entrambi rappresentano l’apertura di saghe più ampie, il lettore potrebbe pensare che siano molto, molto lontani.

In “Per la Corona d’Acciaio” non troverete elfi, nani, orchi, magie: l’ambientazione è molto simile a un’Italia del “MilleQuattro, quasi MilleCinque”.

Quindi un “tempo storico” realistico, anche se alternativo al nostro, lontano da quel “tempo del mito” a cui Tolkien si rifà, pur nella precisione e profondità della sua “creazione secondaria”.

In “Per la Corona d’Acciaio” ci sono dei nani, a dire la verità, ma non hanno né asce né lunghe barbe: sono quei nani di corte di cui pare che anche i veri signori europei dei secoli fra Basso Medioevo e Rinascimento non potessero fare a meno. La magia: a meno che non vogliate considerare magia l’abilità di Vindice nel muoversi nel buio, non ne troverete traccia. Certo, ci sono a volte dei sogni “particolari” ma è difficile dire da dove vengano i sogni: se dalla porta di marmo o da quella di avorio… o dalla mente stessa di chi li sogna.

Quanto agli elfi, sappiate che esistono sul lato Nord dei Monti Bianchi alcuni picchi rocciosi che in lingua Dosthan sono chiamati “Elvengipfelen”, le “Vette degli Elfi”, e questo è tutto.

Per ciò che riguarda gli Orchi, lo stesso Tolkien asseriva che in tutti gli esseri umani c’è sempre una componente orchesca, e in alcuni più che in altri. Temo che più volte si assisterà in “Per la Corona d’Acciaio” al manifestarsi di queste pulsioni orchesche coi loro orribili effetti, e ciò avverrà non solo e non sempre fra le forze degli antagonisti.

Per il resto, quel che si vedrà in questa storia sono uomini che si affrontano con lame, intrighi e veleni, oppure che trovano difficili compromessi per collaborare in vista di un obiettivo comune… ma, un momento: quest’ultima frase non ricorda un po’ il Concilio di Elrond?

Non è un caso: gli eroi del Signore degli Anelli agiscono insieme e riconoscono i loro capi (Gandalf, Aragorn) proprio in virtù di una meravigliosa (anche se all’inizio laboriosa) comunanza di intenti. E’ questa la distinzione fra il potere tirannico che regge Mordor e Isengard, basato sul terrore e incarnato dall’Unico Anello, e l’autorità degli eroi principali. Questi ultimi vengono seguiti da tutti perché sono i più saggi e i più abili e coloro che sono maggiormente in grado di guidare gli altri verso uno scopo nobile e comune.

Così anche nel nostro romanzo si creerà un’alleanza spontanea fra coloro che, pur da posizioni diverse e con punti di vista diversi, hanno comunque a cuore non solo le loro prospettive personali o quelle della loro Casata ma anche il bene del Regno.

La Corona d’Acciaio non ha poteri magici, ma essendo il massimo simbolo del potere regale gode di una possente “aura”. Come l’Unico Anello ha il potere di attrarre le brame dei personaggi, anche se non è intrinsecamente e irrimediabilmente malvagia. Eppure è una parente stretta dell’Anello, perché, come risulta dalla spietata lezione di Machiavelli, il potere spesso richiede di fare il male anche allo scopo di operare per il bene, e allora la linea di distinzione diventa sottile, ed è facile scivolare in basso. Al contrario che nel caso dell’Anello, la distruzione della Corona non cambierebbe nulla: il potere (non per forza tirannico) esiste sempre e comunque, e qualcuno deve per forza gestire le cose. Il che comporterà sempre un certo grado di oppressione e crudeltà, anche se chi porta questa “croce” cerca di minimizzarlo.

Vindice Maravoy al contrario di Aragorn non ha alcun sangue reale nelle sue vene, ma come lui esita in modo quasi amletico di fronte alla prospettiva di prendere il potere. Una parte di lui ne è attratta, ma accetta la leadership perché vi è costretto dalle circostanze, e nella misura in cui ciò è inevitabile, quando tirarsi indietro comporterebbe conseguenze nefaste. Ma allora agisce in modo deciso. Contrariamente ad Aragorn, che rappresenta il Re saggio, ideale, Vindice è costretto ad esordire con un gesto crudo e discutibile, un atto di “hybris”, un delitto iniziale. Molte dinastie (anche moderne dinastie economiche) nascono da un sopruso e o abuso di qualche tipo, e anche la presa del potere dei nostri eroi non farà eccezione.

Ancora si nota che qui siamo nel “tempo storico” e al protagonista non viene risparmiato ciò che ad Aragorn non potrebbe capitare senza mutarne la natura. Il Ramingo semplicemente non può trovarsi davanti a scelte come quelle con cui Vindice avrà a che fare, perché non hanno a che fare con lui e con il suo archetipo, come non può avere una “politica estera” come richiesto in una certa occasione da G. Martin. I buoni lo seguono e si inchinano davanti a lui mentre i barbari e i malvagi lo contrastano con le armi, e questo è tutto, le cose non possono andare diversamente.

Attenzione: tale confronto non ci deve far pensare che Vindice diventerà Re di Malia: ciò resta da vedersi, e ogni cosa è soggetta sia a “virtù” che a “fortuna”, oltre che alle scelte personali dei personaggi.

E veniamo ora alla struttura della trama: in entrambi i casi c’è una premessa apocalittica che accade anni prima (la Guerra dell’Ultima Alleanza di Uomini ed Elfi contro Sauron e la congiura di Vengeator Maravoy con la conseguente perdita di Castelbrun, rispettivamente). Dopo di che la vicenda inizia in ambito quasi privato e personale, in una situazione di (relativa) calma provvisoria ma già con dense nubi all’orizzonte.

Segue quel che non può mancare in un’opera epica da Omero in poi: viaggi e scontri armati.

Mentre in Omero abbiamo prima la guerra di Troia e poi il viaggio di Ulisse, in Tolkien è il contrario: “La Compagnia dell’Anello” corrisponde più all’Odissea che all’Iliade.

In “Per la Corona d’Acciaio” invece le due situazioni si alternano più di una volta, intervallandosi pure con periodi di permanenza in una capitale di grande bellezza ma densa di personaggi ambigui o decisamente ostili, di trame più o meno oscure e di situazioni spinose. Una situazione che troverete nel romanzo e non nelle altre grandi saghe citate, apparentemente molto più “moderna” ma in realtà ispirata alle cronache medievali di Jean Froissart piuttosto che a esempi dei secoli successivi… non posso rivelare quale sia.

In entrambi i casi, “La Compagnia dell’Anello” e “Per la Corona d’Acciaio”, possiamo notare un’unità sostanziale (con poche eccezioni) di azione e di tempo, mentre quel che manca è l’unità di luogo (essendo presente il topos del viaggio ciò era inevitabile). Si seguono quindi le vicende di un protagonista e/o un gruppo tutto sommato ridotto che si muove sostanzialmente insieme, e per lo più da un unico punto di vista. L’inizio, a livello di struttura, è perciò relativamente semplice. In entrambi i casi, non sarà così anche in seguito. E vi sarà nel secondo romanzo un ulteriore parallelismo che il lettore attento potrà notare. Ma per ora taccio altri particolari: verrà il giorno di parlarne “ma non è questo il giorno!”

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