Sono rosse, arancio e gialle,

niun giammai ne vedrà blu,

sono simili a farfalle

ma sol volano all’in giù!

Mario si girò verso Graziano, senza smettere di marciare. L’arciere massiccio sorrideva tutto contento, indicando una farfalla color zafferano che aveva attraversato il sentiero proprio davanti a lui, e che gli aveva fatto venire in mente la strana filastrocca.

“Ma che cavolo stai dicendo?” chiese Bertrando lisciandosi i baffetti biondi di cui andava tanto orgoglioso.

“E’ un indovinello!” spiegò Graziano “Devi indovinare di cosa sto parlando.”

“Aspetta, aspetta, ripeti!” gli chiese Mario, incuriosito.

“E, no! Gli indovinelli non si ripetono, devi stare attento.”

“E questo dove sta scritto?” chiese Bertrando, con fare sospettoso.

“Lo dico io, ecco. Se poi sta anche scritto da qualche parte io che ne so? Mica so leggere come questa testa d’uovo di Mario, qui! E tu, sapientone, non indovini?”

“Se non me la ripeti no, ero distratto.” ammise Mario.

Graziano sbuffò:

“E va bene, ma una volta sola: state attenti tutti e due perché è l’ultima possibilità.”

Con aria compunta il più basso e grosso fra i tre amici ripeté la sua sciarada. Poi chiese:

“Niente? Non ce la fate?”

“Dammi tempo, per gli Dei!” protestò Bertrando, che si faceva spesso vanto della propria astuzia e prontezza di spirito.

Uno sguardo del sergente Lupo, che apriva la colonna parecchio più avanti, fece abbassare a tutti il tono di voce.

Dopo essere partiti dalla cittadella di Campofiorito, gli arcieri di Asproburrone avevano attraversato in gran fretta, a marce forzate, la parte pianeggiante del Ducato, per poi deviare a Sud-Ovest quando avevano raggiunto le colline. A quel punto il Barone aveva mandato in esplorazione i suoi quattro contingenti, tutti diretti al confine ma ognuno per una via un po’ diversa. Arnolfo di Asproburrone e la sua scorta seguivano gli uomini di Lupo, restando restando sempre quasi un’ora di cammino più indietro, e li raggiungevano solo al tramonto per accamparsi insieme. Quella era una fortuna, perché Mario era convinto che in una mischia quei pochi uomini in armatura valessero più che i venticinque arcieri del contingente, compreso il sergente che pure senza dubbio era un osso duro. Ci doveva essere altra gente ancora più indietro, perché ogni tanto uno dei due scudieri del Barone scompariva per un po’ e poi riappariva tutto trafelato. A volte di certo gli scudieri galoppavano fino a raggiungere uno degli altri tre contingenti: una sera ne aveva sentito uno riferire che gli uomini del sergente Lando avevano incontrato esploratori nemici e ne avevano fatto secco uno, prima che quelli riuscissero a seminarli. Però Mario era convinto che ogni tanto andassero anche a riferire tutte le informazioni a qualcuno che stava più nelle retrovie. Quel giorno il sergente aveva detto che stavano per raggiungere Ponte Mugghiante. Mario non ne aveva mai sentito parlare. Aveva attraversato quelle zone una volta sola, facendo la scorta alla carovana del mercante Piero Briganti. Quella volta però avevano fatto un percorso diverso. Il Griso o Alberto conoscevano di sicuro il posto, e c’era da scommettere che il carrettiere gli avrebbe saputo perfino raccontare ogni storia e leggenda locale, dai fauni che avevano frequentato la zona cinquemila anni fa fino ad arrivare alla moglie del mugnaio che viveva ora nei pressi e che aveva magari un intrallazzo con un taglialegna dei dintorni. Che tipo, il vecchio Alberto.

La sua mente tornò a vagare intorno all’indovinello di Graziano. Rosse, arancio e gialle, ma non blu… ma come si fa a volare solo verso il basso? E poi per risalire che fai, ti arrampichi sugli alberi? Boh.

Aspetta… gli alberi! Non era naturale pensarci ora, nel rigoglio della primavera con la vegetazione che fioriva e gli uccelli che cinguettavano, ma…

“Le foglie. Sono le foglie che cadono in autunno, Graziano.”

Il grosso arciere rimase a bocca aperta.

“Urca, sì, bravo! E’ davvero un intelligentone, questo ragazzo, Bertrando, hai visto? Ha fatto prima lui di te a risolverlo.”

“Era facile.” si schermì Mario.

“Sarà, ma io ci ho messo un bel po’ ad arrivarci, e anche questo furbetto di Bertrando era ancora lì a rimuginarci sopra senza cavare un ragno dal buco.”

“E’ che non viene da pensarci: è un indovinello da non fare in autunno sennò lo capisce subito anche un bambino, mentre fatto adesso è più difficile.”

Graziano allungò una mano a spettinare i capelli di Mario.

“Oh, sei stato proprio in gamba!”

Il giovane si sottrasse di scatto.

“Sì, ma tieni giù le tue zampacce sozze dalla mia testa, oh!”

Graziano ridacchiò. Poco dopo, più serio, riprese il discorso:

“Quando cadranno le foglie forse la guerra sarà finita, o almeno ci daranno una pausa e potremo starcene nei quartieri invernali a scaldarci i piedi davanti a un camino e per un po’ nessuno cercherà di ammazzarci e noi non dovremo ammazzare nessuno. Anche il Barone lo ha detto, nel discorso che ha fatto prima che partissimo. In verità non vedo l’ora che sia autunno, e quando ho visto la farfalla mi è venuto in mente l’indovinello. La guerra è appena cominciata ma già spero che finisca. Non sono una bella cosa, le guerre.” mormorò Graziano. Non era la prima guerra che vedeva, lui, al contrario di Mario e Bertrando.

Il sergente in quel momento si fermò e si girò indietro, verso di loro.

“Sssst, ci siamo quasi. Zitti ora, che ci potrebbe essere qualcuno nei paraggi. Fermiamoci qui e organizziamoci.”

Il sergente Lupo dispose gli uomini nel bosco, su una lunga linea a destra del sentiero, tanto distanziati che ognuno potesse vedere solo i due arcieri ai suoi lati. Poi, prima di iniziare a farli muovere lentamente e in silenzio, con lui al centro e appena un po’ più avanti, mandò due di loro in avanscoperta: Bertrando all’ala destra e, manco a dirlo, Mario a quella sinistra.

Il giovane si trovò a camminare poco discosto dal sentiero. Il posto più pericoloso, dannazione! Se c’era qualche ribelle dell’Ovest di guardia sul sentiero, era lui il primo che avrebbe visto, era su di lui che avrebbe scagliato la prima freccia, o quadrello che fosse. Imprecando fra i denti procedeva con lo sguardo attento e mobile, proteso in avanti. Portare a casa la pelle o meno dipendeva da chi avesse visto per primo l’altro, in caso di incontri non desiderati. Il bosco pareva prenderlo in giro con la sua pigra placidità, densa di cinguettii d’uccelli e lucertole che sgusciavano via rumorosamente fra i cespugli. Alle sue spalle, forse a dieci o venti passi da lui, ogni tanto udiva rompersi qualche ramoscello, o un fruscio di frasche spostate da uno dei suoi compagni. Sempre tenendosi basso e al riparo quanto più poteva procedette in quel modo, col cuore in gola, per qualche centinaio di passi. Cominciò a intravedere tra le foglie e i rami qualcosa di grigio e alto: gli si fece chiaro a poco a poco che si trattava di un muro edificato da uomini. Si acquattò ancora di più, e prese a strisciare con grande lentezza. Pareva che non ci fosse nessuno. Ma non si poteva di certo affidare la vita alla prima impressione così, come se niente fosse. Si fermò ad ascoltare. Solo il costante rumoreggiare del fiume, che a giudicare dal rumore  in quel punto doveva formare delle rapide. Mario si convinse  che quel precipitare di acque in corsa si trovasse molto più in basso: il fiume doveva aver scavato una forra profonda. Man mano che avanzava, il giovane arciere poteva osservare sempre più dettagli: ecco il ponte! Una struttura alta e agile, a schiena d’asino, fatta di pietre scure e squadrate che formavano una volta a sesto acuto. Periodo tardo Mitoien, giudicò. Subito si sentì un po’ ridicolo per quelle reminiscenze di studi, che appartenevano a una vita precedente e ormai così remota. Davvero, gli pareva che quei ricordi di libri e aule scolastiche e belle compagne di studi appartenessero addirittura a un’altra persona. Accanto al ponte si ergeva la struttura che aveva intravisto prima: si trattava di un conglomerato di parecchie case che si abbarbicavano tutt’attorno a una specie di rozzo torrione centrale, come funghi che crescano su un tronco ammuffito. I tetti delle prime, le più antiche, arrivavano quasi al livello dei merli della torre, grandi abitazioni imponenti e scure. Le più recenti erano invece modeste aggiunte di una o poche camere che sporgevano ai lati. Disperse fra la vegetazione facevano capolino altre poche casette, mezzo diroccate. Lo stato di abbandono di tutto il borghetto era evidente, e confermava quanto riferito dal sergente Lupo. Ma non era detto che qualcuno non si fosse accampato in mezzo a quelle rovine. Ancora Mario ristette, in ascolto. Nulla, a parte i consueti rumori della foresta. Poi si spostò, sempre sbirciando in ogni direzione. Anche oltre il ponte, sull’altra riva, non si sentiva né vedeva nulla. Alla fine si decise a uscire dalla protezione del bosco e si addentrò fra le case abbandonate. Niente. Solo un corvo grigio si levò precipitosamente in volo al suo appropinquarsi. Mario si girò verso dove sapeva che i suoi compari lo stavano osservando, invisibili, e lanciò un fischio acuto. A poco a poco gli arcieri di Asproburrone emersero dalla vegetazione, con gli archi bassi ma le frecce incoccate. “Meglio un non si sa mai che un chi l’avrebbe mai detto”: il vecchio proverbio era sempre valido. Alcuni si infilarono fra le rovine, abbattendo a calci quel che restava delle porte e assicurandosi che gli edifici fossero davvero vuoti.

Il sergente si avvicinò.

“Tutto a posto, allora, Mario. Il ponte non è stato occupato dal nemico, non ancora.”

“Siamo arrivato per primi, e ora non lo prenderanno facilmente.” rimarcò Bertrando tutto fiero.

Il sergente rispose solo con l’accenno di un ghigno inquietante.

Poi si girò verso Betrando:

“Ora tu passa al di là del ponte, e vai in esplorazione. Anche Lucio, e Perseo. Battete un paio di miglia e poi tornate a riferire. Voi tre, invece, attraversate pure voi ma andate subito ad appostarvi fra quei cespugli, sull’altra riva. Mario, tu accompagnali fin dall’altra parte e poi torna indietro.”

Betrando sputò in terra, pentito di aver attirato su di sé l’attenzione del superiore con il suo commento superfluo. Il gruppetto di sette scattò subito via, con Bertrando in testa e Mario alla retroguardia. Il fiume verdazzurro scorreva profondo e rabbioso, laggiù tra le rocce, facendo udire la propria voce mugghiante. Gli arcieri ne ignorarono la furia mentre salivano la china e poi scendevano dall’altra parte, seguendo l’inclinazione del selciato del ponte con gli occhi fissi sulla vegetazione al di là che poteva nascondere una minaccia letale. Giunti alla sponda opposta Bertrando e gli altri due si tuffarono avanti tra la vegetazione come segugi in caccia, mentre gli altri tre si infrattarono alla ricerca di una postazione comoda dove nascondersi. Mario attese con una freccia incoccata che tutti fossero scomparsi o ben posizionati al loro posto, poi arretrò e attraverso di nuovo il ponte camminando all’indietro. Giunto alla riva fu rimpiazzato da un altro uomo, che si acquattò nascondendosi dietro il parapetto di pietra con lo sguardo diretto al di là della spaccatura e delle rapide che vi scorrevano dentro.

Il sergente lo vide e gli si rivolse:

“Tutto a posto, di là?”

“Tutto tranquillo, signore.” rispose Mario.

“Bene. Non ci sono altri passaggi praticabili per diverse miglia sia a monte che a valle, tranne uno: il guado alle Cascate della Tartaruga. Ma a quello penseremo un po’ più tardi. Una volta questo era un villaggio fiorente, nato attorno a quello torre per merito del ponte e del traffico che vi transitava sopra. Poi, durante una delle ultime guerre civili, quelli di là sono venuti, di sorpresa, e hanno ammazzato tutti gli abitanti, dal primo all’ultimo. Da allora i mercanti hanno preso un’altra via e tutta la zona è rimasta desolata. Vediamo di non fare la stessa fine dei vecchi abitanti, e di non farci cogliere impreparati. Ora però sistemiamoci e riposiamoci un po’. Anche tu. Poi ti manderò al guado che dicevo.”

Mario annuì.

Se da un lato l’evidente fiducia che il sergente Lupo riponeva in lui lo lusingava, d’altro canto era ben consapevole che ciò comportava per lui una dose maggiore di pericolo in qualunque operazione in cui il contingente fosse stato coinvolto. Era partito da casa in cerca di avventura… ed ecco, il signor Mario Boschi era servito! Arruolato a forza e spedito al fronte. Gli Dei dovevano avere un senso dell’umorismo davvero malsano.

Mentre cercava un posto non troppo scomodo dove sedersi, vide il culone di Graziano dentro a una casupola. Il grosso arciere era chino, inginocchiato.

Incuriosito, Mario si avvicinò.

“Che diamine stai facendo, Graziano?”, chiese.

Quello si voltò verso di lui e arrossì leggermente.

“Nulla.”

Mario però si avvicinò. Dentro la casetta in rovina c’erano i resti ammuffiti e verdastri di un paio di lettini e una culla. In un angolo un piccolo teschio e poche ossa sparse. Restava in piedi un po’ di intonaco marcio, qua e là, e su di esso ancora si potevano scorgere dei disegni infantili fatti a carboncino chissà quanto tempo prima. Lì davanti il robusto arciere aveva deposto un piccolo mazzetto di fiori di campo, appena raccolti lì attorno.

Graziano si rialzò, scuotendosi di dosso la polvere con un gesto goffo e imbarazzato, poi tornò a far vagare lo sguardo su quei poveri resti.

“Ve lo dicevo prima, Mario, parlando di farfalle e foglie d’autunno: non sono una bella cosa, le guerre.”

Mario fu preso da un groppo alla gola. Cercò di dire qualcosa, ma le parole gli morirono sulle labbra. Così rimasero per un po’ in silenzio, lì in piedi, a meditare su quelle giovani vite spezzate per una causa che ormai nessuno ricordava nemmeno più, e al massimo – forse – se ne trattava in qualche inutile e polveroso tomo di cronache. Alla fine Graziano si girò per andarsene. Mario gli posò una mano sulla spalla e ritrovò la voce.

“Hai ragione, Graziano, le guerre non sono per niente una bella cosa… e tu sei una brava persona, per gli Dei.”

 

Per l’inizio della saga di Mario:

MARIO L’AVVENTURIERO – Per la Corona d’Acciaio (lacoronadacciaio.it)

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