Terra Nova di Caterina Franciosi è un romanzo di fantascienza distopica. Vi confesso che il genere, nelle sue ultime declinazioni, non mi entusiasma. Non più. Il mitico “1984” di Orwell nella mia giovinezza mi segnò lasciandomi depresso e con molta rabbia frustrata in corpo, e vale certo la pena di soffermarsi su classici “distopici e dispotici” ancora più antichi come “La Repubblica” di Platone, o le opere che vogliono essere utopiche di Moro, Campanella ecc… (che Caterina Franciosi fa citare ai suoi governanti), dove si vede come ogni utopia inevitabilmente e inconsapevolmente sfoci nella distopia.
Però negli ultimi anni si è visto molto materiale anche di successo che non esito a definire scadente. Si assiste a ripetizione alle vicissitudini di rimasugli di genere umano divisi in rigide caste (poveri buoni oppressi e affamati – ricchi cattivi oppressori e spreconi), dove la massa dei diseredati non può che aspettare – nella totale incoscienza dell’ottusa classe dirigente – che l’eroe o più spesso l’eroina di turno scateni la giusta ribellione. Si ripropongono stancamente i “soliti” stereotipi della “solita” lotta di classe, riciclata in mondi post-atomici o fra le stelle. Che ci si trovi in città circondate da mura che le difendono dal nulla, in distretti separati da estensioni di territorio disabitato e sfruttati dalla perfida capitale, o perfino su treni che sfrecciano a velocità folle, l’unico modo per generare energia (???) e sfuggire ai rigori di una nuova glaciazione (“e le valanghe?” si chiede subito uno… ma così si spoilera!), in ogni caso la verosimiglianza e la logica latitano.
In questo panorama piuttosto desolante Terra Nova è una piacevole eccezione.
New Beacon è il pianeta dove l’umanità, grazie alla flotta spaziale Mayflower II, ha trovato rifugio dopo aver reso inabitabile la vecchia Terra. L’autrice ci mostra un mondo ad alta tecnologia, con un governo molto occhiuto e parecchia povere sotto il tappeto. Ma ogni cosa ha senso e si spiega: New Beacon è stato segnato dagli errori del passato e dalla volontà di non ripeterli, oltre che dalle necessità dell’esodo e della colonizzazione. Ovviamente un simile progetto di ricollocazione del genere umano ha richiesto che la popolazione accettasse un governo autoritario, quasi militare, come tutto sommato è normale che sia dopo aver vissuto un’odissea spaziale e il lungo processo di terraformazione di un pianeta alieno. Ho davvero apprezzato come ogni proibizione, ogni imposizione del Triumvirato abbia una spiegazione logica e sia quasi ragionevole dati i traumi del passato, le esigenze della situazione e le caratteristiche del pianeta che ora l’umanità abita, domato grazie alla tecnologia ma non certo piacevole per noi umani.
Eppure, come spesso avviene, istanze inizialmente ragionevoli e l’esercizio stesso del potere hanno portato a una situazione ovattatamente oppressiva… e infatti puntuali arrivano le citazioni orwelliane di Caterina Franciosi.
Al contrario che di fronte allo Stato del Grande Fratello, però, qui non tutto è disperazione: l’uomo che riesce a perseguire la verità e a trovare uno spazio di libertà anche solo dentro di sé, come il Lucifero di Milton, può essere capace di un colpo di coda contro il potere. Infine, può perfino trovare – altrove – una via di fuga verso una vita più autentica, selvaggia ma libera, l’ultimo urlo di un “carpe diem” ribelle e fiero che parla alla nostra anima e le dice che vale sempre la pena alzarsi in piedi, rifiutare di inginocchiarsi, che anche solo un attimo di gioia e libertà ha comunque valore perché ciò che è stato non sarà mai perduto.
I RACCONTI DI MALIA
Orlando aprì gli occhi emergendo da un universo di oscurità e dolore. Era sudato, e puzzava come un cadavere. Ma era ancora vivo. A meno che non si trovasse nell’aldilà… ma in quel caso doveva essere molto simile al mondo dei vivi, perché quella pareva proprio la sua tenda. Lasciò vagare lo sguardo sui tappeti, sulla sua armatura appesa alla croce, con l’elmo piumato di giallo poggiato sul braccio rivolto in alto, e poi sulla cassapanca coi vestiti di ricambio e la tavola imbandita. Sospirò, scostò le coperte e provò ad alzarsi. Era da una settimana che non lo faceva. Infatti. Subito un capogiro lo rimise seduto sulla branda. Si passò una mano sulla fronte e sentì sotto le dita una dura crosta sanguinolenta, ciò che rimaneva della grande pustola violacea che aveva occupato quello spazio. Provò di nuovo ad alzarsi, più lentamente. Questa volta funzionò. Faceva caldo, fuori doveva esserci il sole. Infatti una luce dorata piena di pulviscolo luminescente filtrava dalla soglia del padiglione. Orlando si tolse la camicia. Fu doloroso, perché alcune croste si erano attaccate al tessuto, sia sul petto che sulla schiena. Si avvicinò al tavolo e prese in mano lo specchio. Aveva profonde occhiaie, il viso e il corpo erano smagriti e tirati. Ma non c’erano più pustole, solo croste, che gli costellavano tutta la pelle. Alcune stavano già cadendo. Anche la febbre, quella febbre alta che lo aveva sprofondato nel delirio per giorni, era andata. Respirò a fondo. Poi gettò la camicia in un angolo. Avrebbe dovuto bruciare tutto adesso, per non contagiare altre persone.
Si chiese in che condizioni fosse l’accampamento. Che ne era stato dell’armata, dei suoi amici e alleati? La guerra era stata persa a causa del contagio? O forse al contrario i suoi commilitoni avevano già vinto, mentre lui annaspava in quel letto fra la vita e la morte? Magari erano morti tutti, dall’una e dall’altra parte. Non era peregrino supporlo, per come il contagio si stava propagando quando anche lui era caduto ammalato. Ma no, si udivano ancora delle voci, là fuori.
Prese una camicia pulita dalla cassapanca e la indossò. Nel metterla, il tessuto profumato di sapone urtò una crosta e quella si staccò, strappandogli un’imprecazione e qualche goccia di sangue. Gualtiero si affacciò subito:
“Mio signore! Siete in piedi, dunque. Bentornato nel mondo dei vivi! Lo sapevo che ce l’avreste fatta: nell’ultimo paio di giorni siete andato migliorando quasi di ora in ora.”
Orlando annuì.
“Sono vivo, Gualtiero. Pare che nemmeno la peste sia riuscita ad ammazzarmi. Ma mi sento come se mi fosse passato addosso un branco di bovini.”
Lo scudiero sorrise.
“Oh, che bello, signore! Sono proprio contento.”
Orlando fece un passo indietro.
“Non ti avvicinare. Potrei essere ancora contagioso.”
“No, no macché, non entrerò. Ma non per voi, per tutta questa roba che ancora può trasmettere la malattia. Quanto a voi, invece, potete anche andarvene in giro adesso. Oramai l’abbiamo capito bene come funziona, mentre voi combattevate la vostra battaglia su questo letto. Quando si formano le croste se si è ancora vivi è andata: non si attacca più la peste agli altri e – se si ha ancora la forza di alzarsi in piedi – si guarisce. Ora tutto quel che dovete fare è bere, mangiare e recuperare le forze. Gettate qui la camicia vecchia.”
Gualtiero prese un paio di lunghe pinze, raccolse con quelle la camicia che Orlando aveva buttato e uscì.
Tornò quasi immediatamente.
“L’ho buttata nel fuoco, mio signore. Ho dovuto farlo, mi dispiace.”
“Capisco.”
“Non posso entrare, vi parlerò da qui: voi adesso siete immune ma molti altri no, compreso il vostro umile servo qui presente.”
“Certo, fai bene a stare lì.”
“Dovrò bruciare anche la vostra tenda. Potete prendere la mia, e io andrò a stare con i paggi nella loro. Anzi dovremo bruciare tutto ciò che vi appartiene, tranne quel che può essere passato sulla fiamma senza subire danni, come le armi e l’armatura e le stoviglie. Fareste bene a togliervi subito anche tutti i vestiti: non vanno bene quelli lì. Anche se sono puliti hanno respirato la peste. Ora vi porterò la tinozza, qui sulla soglia. Lavatevi bene col sapone e poi uscite, ignudo come mamma vi ha fatto. Vi lascerò io qui fuori dei vestiti non contaminati. Saranno più umili dei vostri ma serviranno allo scopo.”
Orlando annuì.
“D’accordo. E la guerra? Cosa diamine è successo mentre non ero cosciente?”
Lo scudiero alzò le spalle.
“La guerra continua. Solo che la stiamo perdendo, signor mio, per lo meno qui da noi. Per colpa della peste. Siamo stati decimati senza combattere. E non è ancora finita.”
“Almeno siamo ancora in gioco.”
“Per così dire, signore, per così dire.”
di Jari Lanzoni
I RACCONTI DI MALIA
I
La terza casa oltre i magazzini dei Manzini, sul lato est del porto di Alesia, era completamente bianca. L’edificio appariva alto e curiosamente stretto, dotato di una sola stanza per ognuno dei tre piani. Non c’era alcuna insegna, non serviva, bastava attendere un poco dopo l’alba e si poteva vedere la porticina in legno schiudersi, poi una figura alta a magra che legava sullo stipite due frasche di ulivo, per poi rientrare con passo leggero.
A quel punto, in ordine, tutta la piccola fila di popolani che era in attesa faceva capolino sull’uscio. Spesso si trattava di marmaglia che era rimasta seduta per ore, respirando rabbiosamente fino all’acidosi e tamponandosi una ferita, altre volte una madre con un bambino pallido, o un neonato magrissimo. Vagabondi, disperati, bravacci, prostitute, contadini senza un soldo. Tutti loro potevano entrare nella casa dei Fratelli Giano, se con ordine, silenzio e pazienza. Lo sapevano tutti.
“Valeria di Pozzo” disse uno dei Fratelli, Polluce, mentre una ragazza giovanissima entrava nella stanza color latte, stringendo al seno una bambinetta di nemmeno due anni. “Di Pozzo come il marito, Varrone di Pozzo. Alto, barba scura. Maniscalco.”
“La piccola Vegelia” disse l’altro, Castore ovviamente, senza nemmeno guardarla, ma indicandole uno sgabello di legno su cui sedersi. “Ha i capelli del padre ma si schiariranno dopo il terzo anno.”
Valeria si era fatta sfilare la bambina tra le braccia e ora si stringeva le braccia al petto. Le dita intrecciate non riuscivano a nascondere un certo tremore.
“Non è malata” disse con la voce rotta dall’umiliazione. “Ho sentito che qui aiutate…”
“Ti sembriamo forse dei filantropi?” chiosò Polluce.
Lei scosse il capo. Guardando le loro schiene. Mai il viso o gli occhi. La stanza in cui sedeva aveva le pareti scaffalate, piene di vasi, vasetti, cartocci ingialliti, tazze di peltro colme di lunghi aghi, piccole fiasche, fogli di carta tenuti fermi da una sfera di metallo bianco, ninnoli, rotoli di erbe disseccate e pressate.
Castore e Polluce non guardavano mai i loro ospiti improvvisati, lo sapevano tutti. Ma questo non rendeva più sopportabile l’angoscia di Valeria. I due fratelli erano alti e magri, pelle candida come il latte, e lo stesso per le le tuniche immacolate che si tenevano addosso, mani lunghe, dita sottili con falangi molto pronunciate, una spolverata di radi capelli bianchi alla sommità del capo. I loro occhi azzurrissimi vagavano continuamente sul soffitto, sui medicinali, sulla scarsa mobilia, sulla lettiga, ma mai, mai sul volto di un paziente. Nemmeno si guardavano tra loro. Mai. Alcuni avevano pensato che fossero ciechi, ma semplicemente vedevano diversamente, sentivano diversamente.
“Troppo magra” mormorò Polluce sfiorando il petto della bambina. “Le ossa non si formeranno bene. E’ sfinita, poco grasso, i muscoli sono deboli.”
Valeria tirò su con il naso. Gli occhi trattenevano a stento le lacrime. “Mio marito non è tornato quattro sere fa… ho chiesto a Marcello della Valle, ho sentito il sacer…”
“Carne, ma non subito” Castore sembrava leggere un elenco e non parlare con un altro essere umano. “Una pappa di miglio. Molta acqua.”
“Carne, non pensi ad altro” lo rimbeccò Polluce. “Verdure cotte, molto meglio.”
Castore si voltò verso una serie di scaffali. “Valeria hai due stanze nel vicolo del Gallo Rosso, tornaci in fretta” si umettò con la lingua la punta dell’indice sinistro. “Passerà una donna grassa tra due ore. Avrai verdura, olio, miglio, legna, tre pani. Raccontale chi passa sul pontile sopra di te e delle facce che vedi più spesso.”
“C’è un uomo che viene ogni due giorni e incontra una fantesca magra, prima scende da una carrozza e sarebbe utile sapere chi l’aspetta dentro la vettura” Polluce era dall’altra parte della stanza e trasse da una sacca squadrata di vimini un’ampolla piena di liquido verdastro. “Un cucchiaio di questo al giorno. Niente carne prima di tre giorni. Prendi l’acqua dal pozzo vicino ai verdurai, sono centosette passi in più per te ma è migliore rispetto alla fontana in fondo alla tua strada.
“Non capisco…” balbettò la donna, sfinita dopo giorni di fame. Attendeva il ritorno del marito dopo un lungo digiuno. La sua assenza le aveva fatte sprofondare nella fame. Alesia non era la loro città, nessuno le aiutava. Aveva usato le ultime risorse per nutrire la piccola Vegelia.
“La fontana è troppo vicino all’orinatoio e la usano per pulire le sozzure durante i giorni di mercato. Usi troppo quell’acqua.”
I due gemelli non badarono alla sua confusione. “La carne la porterà il Vecchio Gioacchino, non il figlio che ha lo stesso nome. Pollame. Il brodo aiuterà Vegelia. Avrai solo tre parti di carne alla settimana. Usala bene.”
Parole di ringraziamento stavano per sgorgare dalla bocca della giovane madre, le lacrime le stavano già rigando il viso. Non potè dire una sola parola. Castore la zittì con un gesto. Polluce le restituì Vegelia tra le braccia. Avrebbe fatto di tutto per loro. Ascoltato, visto e riferito di tutto, sempre.
Dopo che la ragazza fu uscita Polluce passò davanti alla porta andando a spostare un pesante vaso da cui provenivano sentori pungenti.
“Giovane con spalle robuste, quarto in fila, rigonfiamento del pugnale nello stivale destro” disse al fratello ruotando la testa verso un punto indistinto del soffitto. “Ottone di Castro, ventidue anni. Si copre l’arma secondaria con una mantelletta inutile. Una sorella artigiana sopra Altoborgo e un fratellastro ormai vecchio che si spacca la schiena al porto. Ottimi riflessi. Leggermente sbilanciato negli scarti laterali. Cercherà di aprirti la gola da sinistra a destra, alle spalle.”
“Lyonel arrivò al bivio e fece cenno alla colonna di fermarsi.
A sinistra c’era Malia; dritto innanzi Petitport; a destra il cammino per Torre Vianan.
Osservò le torri della cittadella marittima, in lontananza.
Alla brezza del mare del Sud garrivano gli stendardi dei Maravoy e del Barone di Petitport. Pareva che gli Imperiali non si fossero ancora impadroniti del borgo.
Pareva.
Scosse la testa e imboccò con decisione la pista verso Occidente. Poco tempo dopo, però, girò a sinistra, su di un largo sentiero di ciottoli che saliva verso un alto colle a picco sul mare. Un paio di curve e poté vedere il muro merlato in cima, che racchiudeva un’altissima torre antica in marmo rosa.
Torre Rosat: la Baronia di Patrici. Un antico monumento trionfale Mitoien divenuto il mastio del borgo fortificato su cui dominava il suo baffuto amico e vassallo.
Lassù, ancora si innalzavano la torre rosa in campo nero e il lupo dei Maravoy.
E per davvero, dato che le truppe Imperiali stavano assediando la roccaforte. Davano la scalata alle mura e tiravano dardi su dardi. Da dentro si rispondeva con olio nero in fiamme e frecce e volontà.
Patrici guardava la scena con uno sguardo pieno di apprensione. Era la sua gente, quella. Lyonel si costrinse a prendere un sentiero che portava in basso, verso la spiaggia bianca nascosta da un promontorio roccioso. Sarebbe stato inutile e pericoloso portare aiuto a Torre Rosat. Dovevano capire che l’unica scelta per loro era la resa.“
Illustrazione di Andrea Camaggi
Ringrazio di cuore un lettore che ha recensito il mio romanzo, manifestando una certa delusione per la mancanza di magia, e per una scarsità di azione nei capitoli centrali. Se si aspettava, come pare, un tipico romanzo “di genere” tutto e solo azione, fantasia e magia, questo lettore non ha trovato ovviamente quel che cercava. Intendiamoci, io adoro l’azione, ma essa non è il “cuore” di questo romanzo, che pure ne è pieno. Essa è piuttosto una gradita ancella di temi più profondi, e un’esca per convincere il lettore a specchiarsi nella vicenda. In altre storie, come quelle dei Pretoriani Neri, mi diverto a giocare con l’azione, e anche con la magia, con draghi e grifoni e navi volanti. Tuttavia non ritengo la magia un fattore indispensabile della letteratura fantastica. Un nume del Fantasy come Joe Abercrombie, pare pensarla come me su questo tema: indicatemi che magia si possa mai trovare, per esempio, nella “Trilogia del Mare Infranto”, di cui di recente ho consigliato la lettura.
“Per la Corona d’Acciaio” è qualcosa di diverso. Essere qualificato come “una sorta di Bernand Cornwell in un un contesto inventato”, come scrive questo lettore, è per me un grande complimento. In questa saga in effetti mi rifaccio non tanto al genere Fantasy, ma piuttosto a scrittori di avventura classica e di romanzi storici come appunto Cornwell, Perez Reverte, fino ai classici di Dumas, Salgari, London, Kipling, Conrad. Ma anche a scrittori “alti” (e forse più “noiosi”, da un punto di vista “di genere”) come Ernst Junger e Julien Gracq. Prosegue il lettore “non dovendo essere fedele alla storia reale, poteva evitare certe parti noiose, spesso necessarie in romanzi storici per essere fedeli, ma che qui potevano essere sostituite…” In effetti, come il lettore ha in parte intuito, “Per la Corona d’Acciaio” è assolutamente un romanzo storico, in essenza. Con tutte le esigenze di analisi storica e realismo che ciò comporta, e con l’unica differenza che tratta di una storia che avviene non nel nostro mondo ma in uno simile e parallelo. Come in Junger e Gracq, il contesto inventato è una scusa per poter variare gli avvenimenti liberamente servendo a uno scopo, nel mio caso parlare di fatti dell’anima e di leggi storiche che riguardano noi, il nostro mondo e la nostra condizione di esseri umani. La vicenda segue tutte le regole politiche, sociologiche ed economiche che condizionano la Storia, le dinamiche del potere e forse anche quelle del Fato, che i lettori scopriranno un po’ alla volta e che sono poi le stesse del mondo reale, non meno stringenti. Ecco perché era necessario un “rallentamento” dell’azione nella parte centrale, per poter dedicare spazio a un’analisi della situazione del regno di Malia e alle soluzioni (anche legislative e perfino fiscali) che i protagonisti adottano. Essi devono, infatti rimediare ai fattori che hanno portato alla caduta che essi si sono trovati a dover vivere, e porre in alto la “svolta” che la situazione politica richiede. Ugualmente c’era bisogno, in precedenza, di lasciare un po’ di spazio al sorgere nelle loro menti delle soluzioni che poi adotteranno: proprio come deve avvenire in un romanzo storico che funziona bene, se i protagonisti sono personaggi reali dotati di poteri decisionali, e realizzano appunto una svolta storica. La parte centrale del romanzo che tratta questi temi è stata particolarmente apprezzata da altri lettori, per aver affrontato il tema di come, una volta conquistato il potere, lo si vada a gestire, cosa che molti Fantasy (a volte con una visione un po’ più superficiale) trascurano. Quel che mi frustra nel romanzo storico vero e proprio è invece che il lettore possa già conoscere come la vicenda finirà, mentre a Malia le praterie del futuro sono aperte e la tensione è maggiore: qualunque cosa può accadere… e ne accadranno di ogni tipo! Tornando a noi, quindi, una critica dettata da aspettative “di genere” è “iuxta sua propria principia”, per me invece essa costituisce un grande complimento: con questa saga non voglio fare “letteratura di genere”, voglio fare letteratura! E credo che il genere Fantasy si presti a questo alto scopo (perdonatemi l’ambizione), quanto e più di altri.
Marco Rubboli
“Merdaccia” è un racconto di Angelo Berti che Watson Edizioni mette a disposizione dei lettori gratuitamente per il periodo di reclusione forzata da pandemia. E davvero vale la pena dedicare uno scampolo del vostro tempo a leggerlo. L’atmosfera decisamente fantozziana evocata dal titolo è una promessa che viene sostanzialmente mantenuta, sia pure in una cornice sci-fi dedicata ai viaggi nel tempo. Di solito il viaggiatore del tempo nei romanzi e nei racconti dedicati a questo tema è un protagonista eroico, o per lo meno un testimone di eventi passati o futuri che riesce a rendersi conto di molte cose prima di tornare al suo tempo. Qui non è necessariamente così: venire precipitati in un’altra epoca, in un luogo e un momento a caso, senza parlare la lingua e conoscere gli usi, non è un procedimento sicuro. Quanto al tornare nella propria epoca, il procedimento non è di certo indolore! Il racconto, in prima persona, ricrea tutta la feroce ironia e il divertimento del Fantozzi di Paolo Villaggio, ma anche il “tragico” pessimismo di fondo e l’amarezza dell’originale. Se le sventurate peripezie del protagonista sono ben più avventurose di quelle del famoso ragioniere… non si rivelano meno disastrose. Il finale è a sorpresa. Non una sorpresa gradita per il nostro povero “eroe”. Da merdaccia, insomma.
“I33. Valperg” dell’amico Michele Gonnella, primo esempio del genere “Sword & Apecar”, è il romanzo che mi ha accompagnato negli ultimi giorni di “arresti domiciliari pandemici”… e con grande divertimento! Assolutamente da non perdere per i praticanti di HEMA (“Historical European Martial Arts”, secocdo la denomiazione della famigerata Coalizione Nordeuropea, che nella regia lingua del nuovo regno d’Italia diventa “Scherma Storica”), ma non solo. Il romanzo prende le mosse in un retrogrado 2035 post-bellico da un paio di “sfigati” studiosi di archeologia sperimentale della Regia Università di Lucca che, per approfondire lo studio di un antico manuale di scherma e capire perché questo tratti solo dell’atipica (per tempi così remoti) disciplina di spada e brocchiero, iniziano a prendere lezioni di scherma storica da una maestra di arti marziali, Iride Santini detta “Santa”. L’I33 è un manoscritto realmente esistente, ad oggi il più antico disponibile, pubblicato in Italia da A. Morini e R. Rudilosso della Sala d’Arme Achille Marozzo per la casa editrice Il Cerchio. Le vicende dei nostri eroi si intrecciano con quelle degli antichi autori del manoscritto, in particolare la “Santa” Valperg, figlia di un crociato e di una strega convertita ma non pentita (nel ms reale effettivamente il maestro monaco guerriero viene raffigurato anche mentre insegna a una donna, chiamata “Valpurgis”). Per esigenze di trama il vero manoscritto viene retrodatato di qualche secolo, artificio necessario per situare la vicenda ai tempi in cui il cristianesimo lottava contro gli ultimi pagani (e soprattutto contro i loro Dei… o demoni che fossero) nelle terre del centro e nord Europa. L’autore ci narra, nel suo stile sempre ironico, pieno di brio e vivacità, come la strana famiglia di Valperg sia riuscita a prevalere nella sua lotta senza quartiere contro un’entità feroce e guerriera proveniente da un’altra dimensione, dai molti nomi (alcuni dei quali corrispondono a ben note divinità celtiche e germaniche). Parallelamente, il trio dei protagonisti del 2035 si trova ad affrontare una minaccia che è simile in modo inquietante a quella contro cui si è battuta l’antica suora guerriera. Lo scontro li condurrà in fuga su per i greppi abbandonati della Lucchesia collinare, frequentati solo da anziani relegati in ospizi e pochissimi abitanti. Per lo meno pochissimi abitanti umani. Al lettore scoprire se la moderna Iride “Santa” Santini saprà uguagliare le imprese di Santa Valperg, monaca, strega e guerriera. Fra botte da orbi, lame, brocchieri, demoni guerrieri, folletti schizzinosi e antichi manoscritti, il divertimento è assicurato.
Qui sotto: la copertina dell’edizione italiana del vero manoscritto I33, a cura di Andrea Morini e Riccardo Rudilosso per ed. Il Cerchio